giovedì 21 gennaio 2016

VULCANO, GIOVE E SATURNO

DAL VOLCANAL AL COMITIUM, PASSANDO PER ALBA LONGA

È difficile dire se il tempo (e il Vittoriano) abbia accentuato o attenuato la forma arcuata da pesce appena pescato che il Campidoglio deve avere sempre avuto fin dalle sue origini telluriche, inarcato attorno alla piega squartata dell’Asylum con l’Arx a fungere da testa e il Capitolium da corpo e stretta coda, come del resto è pienamente comprensibile solo da quando esistono le foto aeree, e zenitali.
Certo è che a guardarlo dal basso, sia dalla piana cannosa del futuro Campo Marzio che dalla scodella umida della futura Suburra, il profilo del picco dell’Arx di qualche decina di palmi più alto delle gibbosità del Capitolium, non doveva suggerire propriamente un’acropoli con un’agorà.
Anche visto più da vicino dalla parte del futuro Foro, il crinale crestato di querce, allori, rari cipressi e costellato di cespugli di ginestre doveva avere qualcosa più d’incombente che di maestoso, con la guglia dell’Arx immanente, come arcignamente opposta alle balze del Quirinale, un quarto di miglio più in là, oltre la sella che sarebbe stata sfondata per far passare il Foro di Traiano verso il Campo Marzio.
Il Campidoglio, come tutti i colli del Septimontium, è composto di tufo litoide, una roccia vulcanica esplosiva tutto sommato morbidamente lavorabile, solida ma anche friabile, frutto delle eruzioni interglaciali dello stesso complesso laziale destinato a divenir sacro come "monte dell'alba" per i primi Aborigeni che da cento e più passa generazioni arrivavano, nascevano, vivevano e morivano lì attorno.
Per un qualche ormai imperscrutabile motivo, forse per la presenza di sorgenti che facilitavano il lavoro, alla base dell’Arx si era preso a scavare le prime cave comuni, e lì vicino – forse dove scaturiva una fonte fetida ma balsamica per molti malanni dovuti all’età e a una vita pesantemente vissuta – si andavano a riunire gli Anziani del Septimontium, in questa latomia scavata a blocchi nel tufo riscaldata da una sorgente puzzolente d’inferi che chiamarono Volcanal.
Non sapremo mai se l’originario Volcanal fosse a cielo aperto oppure una grotta, ma se l’amore per il cunicolare tipico dei Romani farebbe romanticamente pensare alla seconda, la necessità di accogliere da parecchi a molti uomini e la presenza di una fonte probabilmente sulfurea porta a propendere piuttosto per una arena all’aperto, uno scavo rettangolare a gradoni più o meno regolari. Schema che rimase a Roma per tutti i secoli del Regno, della Repubblica e dell’Impero: lo schema semicircolare divenne col Comitium tipico per le assemblee, il rettangolo per il Governo del Senato. Poi arrivò il Concistorio Imperiale, ma solo nel tardo Impero.
Così del resto era ai tempi di Romolo, quando nella depressione a imbuto pochi metri distante e pochi metri profonda lasciata da un contorcimento dello Spinon cominciarono a radunarsi i Comizia…

Chi diede l'Incarico

Ma prima di Romolo e dei suoi tempi, in quella ansa abbandonata del fiumicello che drenava a fatica i reflui dei villaggi sui colli, nessuno pensava a tenere comizi o assemblee, di nessun genere se non commerciali, rituali e sacrali, ma quindi attorno alle are delle Divinità garanti negli appositi fori boari o piscari del Velabro, o i macelli degli agnelli oltre la Velia e il Celio, sulle sponde di quel laghetto che sarebbe diventato il cuore della Domus Aurea e poi le fondamenta del Colosseo.
Nelle generazioni che avevano pian piano e poi sempre più densamente popolato il Septimontium, nessuno aveva mai sentito bisogno di assemblee. Le decisioni venivano da sempre prese fra i capofamiglia, poi comunicate ai più stretti membri della propria gente, poi a tutta la popolazione di quelle tribù divenute popoli, piccoli o grandi che fossero.
C’era da sempre una forma di implicita lealtà verticale, fra i membri di ogni piccola comunità di villaggio e le popolazioni che le avevano pian piano espresse, radunando ed espellendo i soprannumerari per spingerli in una direzione ben definita, ossia sempre più in basso verso quel guado. Ma da un po’ di tempo a questa parte, qualche generazione dai nonni ai padri, c’è anche una sorta di complicità funzionale, fra quelle comunità territorialmente disomogenee che ormai vi incombono sopra.
Perché se non tutti i partecipanti hanno la stessa origine culturale, più che etnica, ormai ne stanno formando una nuova più a suon di chiacchiere che di botte vere e proprie.

I popoli del Septimontium

I Sabini rappresentano la macchia più compatta sulla mappa del Septimontium degli anni precedenti a Romolo: occupano quasi integralmente il Quirinale e lo considerano una propaggine coloniale che discende direttamente da Cures, il centro capitale distante poche decine di miglia, una rocca senza mura all’uso spartano – popolo da cui si vantano di discendere – con spettacolare vista sul Tevere lontano pochi chilometri.
Sono la macchia più compatta perché i Latini, per quanto in numero di genti e di villaggi preponderanti, sono mischiati sul Viminale come sul Celio, sul Cispio e sull’Oppio, a macchia di leopardo con i radi ma compatti villaggi Equi, Volsci ed Osci. E i Latini litigano con tutti, soprattutto fra di loro.
Da qualche parte ci sono i Greci, del resto dov’è che in questo periodo non ci sono Greci, ovunque ci sia da commerciare e da far politica? La tradizione li vuole sul Palatino fin dai tempi di Enea che vi va a far visita ad Evandro, ma ammesso al tempo di Romolo esistessero ancora alcuni discendenti dei Lemuri, la posizione più probabile per una piccola stazione commerciale greca è subito a valle dell’Aventino.
Oltre l’ultima ansa prima dell’isola c’è lo scalo del Velabro, c’è il guado, c’è il bisogno di servizi essenziali, e grezzi. Prima, c’è la possibilità di fermarsi e rassettarsi se si arriva dal mare dopo un lungo ed estenuante viaggio, oppure si è un commerciante di sale che ha fatto l’intera cessione del suo carico e vuole ben spendere, alla greca, e basta girar oltre la valle Murcia, oppure si viene dal nuovo emporio greco di Puteoli con le ultime notizie sui progetti di fondazione a Cuma, e su come le delizie greche abbiano nulla da invidiare a quelle tirreniche...
Si è capito insomma: se come pare c’era una comunità greca a Roma prima che Roma fosse tale, di sicuro stava nel posto più elegante e fuori mano, per quanto facilmente accessibile. E le pendici meridionali dell’Aventino appena sopra la linea di massima esondazione del Tevere, al tempo, erano quel posto giusto lì.
Poi c’erano gli Etruschi, ed erano dappertutto.

Sotto gli occhi dei Rasna

Gli Etruschi erano dappertutto perché da circa un secolo erano i vicini in affari col bon ton. E quindi quando un nuovo arricchito dagli affari sempre crescenti attorno al guado aveva bisogno di qualcuno che gli addestrasse i servi al farlo ben vivere, lo cercava spontaneamente nella Tuscia. E i Rasna con cui era in affari gliene mandavano volentieri, ma ben istruiti altro che sul lucidar correttamente clynax o buccheri di qualsiasi tipo.
Non c’era un quartiere propriamente etrusco, anche se probabilmente presero presto a calare per un boccale assieme nel tempo libero attorno al Vicus Tuscus, quando le rade capanne rurali che facevano anche da ruderali taverne dove la Suburra venne poi sotterrata dai Fori Imperiali a loro volta sotterrati e poi dissotterrati, presero a trasformarsi in vere case, di tufo prima ma in laterizio ben presto.
Ma al tempo di Romolo son quasi tutte ancora capanne, e lo rimarranno in gran parte fino ai Tarquini, dieci generazioni dopo, quando il Superbo eseguì il primo tentativo di bonifica della Suburra e del Foro, non solo in senso idraulico.

Al tempo di Romolo, nel Volcanal si riunivano gli esponenti più anziani, più influenti, di un Mondo che stava cambiando troppo rapidamente rispetto a quel che i loro nonni gli avevano insegnato dover essere, e cercavano rassicurazione nelle tradizioni, per le più diverse che potessero essere.
Invece nell'ansa abbandonata dello Spinon, seduti su l’erba inclinata di quello che poi, tamponato dalla parte del torrente deviato a diventar la Cloaca Massima, sarebbe diventato il Boleuterion della Roma Repubblicana, probabilmente i loro figli, veri conduttori dei campi e dei commerci, nei giorni di festa discutevano fra loro come organizzare quella città ancora non-città, guardando i colli che erano la loro comune casa, che coprivano i monti natii dei loro avi, ma sotto il contorno sfumato del Monte sacro a Giove, il monte cavo, il Monte Albano, aspettando di aver l’età giusta per poter dir la loro nel Volcanal.

E sotto gli occhi degli Dei

Tutti rispettano la Divinità Massima rappresentata nel Monte Albano, ora maschile, un tempo femminile. Anche Osci, Equi e Volsci che pure hanno loro diversi santuari di riferimento, anche i Sabini che come per tutto il resto preferiscono far con le Divinità proprie, anche gli Etruschi, che rispettano ogni religiosità a prescindere. Anche i lontani Sanniti, memori di quando là vi era la Grande Madre comune. Anche i greci, sorridendo e carezzandosi il mento rasato accondiscendenti, che già loro sanno tutto attorno agli Dei, ben prima di Aristotile.
Però quella dei sacerdoti di un Giove fin troppo prepotente su Saturno, era una scuola di logorroica arrogante autodifesa, ormai arroccata a perpetuare rituali definitivamente scollegati con la realtà delle stagioni, se non per forza dei tempi.
La lunga alba di Albalonga era vicina alla fine, forse indipendentemente alla fondazione di Roma con rito etrusco. Tenendo comunque sempre il santuario di Giove Laziare come punto di riferimento latino per determinare CHI dovrà scegliere dove fondare la nuova Città comune, fra gli unici due luoghi rimasti plausibili: il Palatino o l’Aventino.

E a questo punto, anche noi dobbiamo deciderci a determinare chi diamine sia stato Romolo, e perché proprio LUI. O almeno a cominciare a farlo.

Roma da Romolo o Romolo da Roma? E Remo? E Remoria?

Ricapitoliamo ed analizziamo ceteris paribus la situazione come si presenta agli Anziani del Septimontium riuniti nel Volcanal negli anni subito precedenti l’Anno Zero – per quanto "zero" fosse un concetto allora non esprimibile se non forse esotericamente – dell’Urbe ad conderem, forse cento, forse trecento, forse una decina di delegati dalle diverse comunità di villaggi, non potremo saperlo forse mai.
Quello su cui stanno discutendo ormai dal tempo dei loro nonni se non da prima dei bisnonni, è come consolidare l’addensarsi dei loro villaggi verso il guado, e lo snodo delle due piste.
Il secondo è il punto più controverso, perché rispetto al tempo dei nonni, bisnonni e avoli, ora la via Campana promette di diventare sempre più lucrosa rispetto alla tradizionale via Salaria, con quei Greci che ronzano sempre più numerosi attorno alle coste del sud.
Per cui, se al tempo dei nonni e bisnonni si era bisticciato a lungo attorno al Campidoglio – per poi arrivare a quello che fu probabilmente il primo patto politico sottoscritto in quella che divenne poi la Patria della Politica, col Campidoglio assegnato in zone al culto distinguente ogni comunità dei colli circostanti, il cocuzzolo dell’Arx controversamente riconosciuto all’aruspicina etrusca dal Quirino sabino, che indispettito si insediò piuttosto sul prospiciente corno più alto del Quirinale, ad augurare a modo suo il miglior bene a tutti e il miglior male a chi paresse a Lui – da qualche anno si discuteva decisamente se il Palatino fosse veramente lo sbocco naturale di tutto quanto il Septimontium potesse sfruttare il guado, o se non fosse piuttosto il caso di prendere in considerazione un Aventino sovrastante un nuovo ponte che separasse i commerci della via Campana con quelli della via Salaria.
Quella dell’Aventino era una soluzione molto favorita dai Sabini, perché avrebbe messo la nuova cittadella, per forza di cose a maggioranza latina, lontana da quegli snodi del sale su cui poi, dominando i percorsi lungo la ripa sinistra del Tevere fin dove navigabile, contava di rafforzare il controllo e i servizi, a pagamento s’intende.
I Latini invece volevano il controllo del guado, e quindi del Palatino, e le robuste minoranze osche, volsche ed eque propendevano ora da una ora dall’altra parte. Gli Etruschi aspettavano che si mettessero tutti d’accordo, per poi dir la loro, come avevano imparato a fare da tempi immemorabili, prima ancora perfino di essere Rasna, dato che erano gli unici in grado di progettare un ponte sul Tevere.
In qualche maniera, ci si mise d’accordo che la scelta finale sarebbe stata indicata da una procedura augurale comune a tutti, indirizzata verso il Monte Albano e l’invisibile ma certo caro a tutti sacrario a Giove Laziare a segnare la preminenza – primi inter pares, teoricamente – dei Latini sulla appartenenza della nuova Città.
Per far ciò, bisognava aver due Augùri rappresentanti ognuna delle due fazioni, e che il Prescelto dal Fato fosse poi in grado di presiedere alla fondazione della Città, ed eventualmente inizialmente regnarvi, magari solo simbolicamente.
E fu solo a questo punto che si pose il problema di CHI? Ci si risolse di rivolgersi alla Fama, più che ad Alba Longa.



I Gemelli e i Derelitti

C’erano questi due ragazzi, due trovatelli a capo di una banda di giovinastri di altrettanto oscura origine, che avevano appena messo a soqquadro Alba Longa, e in ginocchio dalla paura il clero sacerdotale della città sacra ai laziali da quando Giove aveva scacciato il padre Saturno nelle paludi pontine.
Era l’effetto che comportava non avere l’istituto del Ver Sacrum come i Sabini, o qualcosa di analogo che potesse organizzare gli orfani o i figli per un qualche motivo soprannumerari alle famiglie di nascita, che non riuscissero ad essere adottati dal clan o comunque nel villaggio di origine.
Come due gemelli, per esempio, come nati storpi o solo anemici, o semplicemente perché al termine di uno svezzamento molto breve, non ci sarebbe stato più cibo per loro comunque. E quindi, molti venivano abbandonati nei pressi di quelle grotte dove avevano dimora le Lupe, le prostitute pubbliche, emarginate ma sacre per i transumanti quanto le Vestali di Alba Longa per gli stanziali.
Molti di questi incolpevoli disgraziati non avevano altra scelta che darsi al banditaggio non appena sviluppavano la capacità di maneggiare un coltello, una daga o un randello, tormentando in piccole bande gli incauti commercianti solitari con i loro carri trainati da asinelli colmi di stoviglie greche o sannite sulla via Campana, piuttosto che i convogli di muli carichi di sale ben guarniti di guardie etrusche o sabine sulla via Salaria e diverticoli.
Una di queste bande si era particolarmente ingrossata: un’ottantina di ragazzi fra i dodici e i vent’anni, capeggiati per riconosciuto, naturale e meritato carisma, da due gemelli allevati dalla Lupa Acca Larentia e dal suo protettore Faustolo, pastore di capre sul Palatino, in una grotta alla sua base, dopo essere stati abbandonati in una cesta galleggiante in un punto apposito per farla approdare fra le radici del Fico Ruminalis.
Quei due si erano messi in testa – o qualcuno glielo aveva impresso con i fantasiosi racconti dell’infanzia – di essere figli di una Sacerdotessa di Alba Longa, vergine Vestale e quindi per forza di cose ingravidata da un Dio, Marte probabilmente. In realtà, proprio in quegli anni era in corso una disputa di legittimità fra i due fratelli pretendenti al titolo reale dei Sacerdoti dell’Alba, con Amulio che aveva spodestato Numitore, e in effetti costretto al sacerdozio virginale la nipote Rea Silvia.
Fossero o non fossero figli illegittimi di Marte in qualsiasi delle sue incarnazioni e la principessa-sacerdotessa Rea Silvia, avendo così fra l’altro sangue ascanide di Enea nelle vene, la banda dei due Gemelli prese a saccheggiare frutteti e pascoli della casa sacerdotale-reale di Alba Longa, giungendo ad occupare per intere notti diverse fattorie, bivaccandovi fino ad esaurimento di ogni scorta di cibo e vino.
In una di queste incursioni, uno dei due Gemelli, il Gemello minore, era però stato catturato dalle milizie di Alba e imprigionato nella cittadella allungata sulla cresta del cratere del lago Albano.
La reazione dell’altro e della sua truppa era stata straordinaria: i racconti fra i bovari attorno all’Ara di Ercole nel foro boario del Velabro si erano succeduti sempre più particolareggiati e ammirati, man mano che i porcari dei boschi e delle selve vulcaniche li trasmettevano scendendo al guado con i loro tranci salati.
Erano penetrati direttamente nell’acropoli svellendo letteralmente le porte delle mura e ogni altro ostacolo che incontrassero sulla loro strada, spaccando tutto finché non gli era stato riconsegnato il prigioniero sano e salvo.
A seguito di ciò, Amulio aveva volentieri abdicato, fuggito malmenato e non precocemente morto, e Numitore era tornato a subentrargli per gestire il problema. Che era uno e trino: quelli dovevano andarsene lasciando il minimo dei danni, come, perché e in che modo.
I due Gemelli non volevano certo essere riconosciuti futuri Re di Alba Longa, e del resto ormai, fino a scadenza stabilita, non si poteva certo tirar fuori dal sacerdozio la loro presunta madre, la quale stava del resto benissimo dove stava da una ventina d’anni.
Per cui Numitore li munì di una sorta di Mandato: li unse dei crismi necessari per essere riconosciuti in potere di fondare città dalle Divinità silvestri del panteismo che si riassumeva nel culto di Giove Laziare, se non quando ancora in quello di Saturno, preesistente e contrapposto, e che faceva parte di quel meltin-pot comune di Divinità mediterranee in cui tutti potevano trovare unità, se non conforto.
Poi, dopo aver divinato come doveva saper divinar lui le stelle, attribuì ad entrambi un nome che potesse essere riconoscibile ovunque, là dove le divinazioni gli avevano detto dovessero andare.
Chiamò Remo il primo, e Romolo il secondo, dotando così di radici sia italiche che etrusche ognuno del nome da cui discendere i Nomi palesi e segreti delle loro future Città.

E appena poté, non riuscendo a separarli, li spedì dove ce n’era bisogno, e richiesta, sperando fossero abbastanza sensati da separarsi appena trovato un verdetto degli Dei.
Ma, visto il carattere diversamente deleterio dei due che durante l’intenso periodo di preparazione ai riti di consacrazione aveva imparato a conoscere, non si stupì poi più di tanto di quel che fu informato successe, dai bovari che dal guado portavano ad Alba Longa i tori bianchi per i sacrifici rituali delle Feriae Jovis le idi di quel Maggio dopo le Parilia dell’anno 1 ab Urbe condita di quello stesso Aprile, anno Zero di ogni cosa forse, per un Sacerdote del Tutto come probabilmente si considerava.
Itur ad Argeos dovette inevitabilmente pensare.
Numitore dico...

12 commenti:

  1. Vabbbè, lo dico:
    caro @Zeb, io sono convinto che i tuoi post sull'antica Roma siano assolutamente interessanti e molto ben scritti. Il problema è che non credo che in molti abbiano la pazienza di leggerli completamente e con l'attenzione che meriterebbero.
    E credo che in primo luogo il problema sia la formattazione del testo:
    il lettore si ritrova di fronte ad un muro di caratteri che spaventa e non invoglia a leggere, ed è un vero peccato vista la qualità dei contenuti.

    Arrivo ai miei non richiesti consigli:
    1) inserisci qualche immagine
    2) suddividi il testo in paragrafi creando degli spazi vuoti tra di loro
    3) utilizza il grassetto per evidenziare i punti importanti
    e...
    non continuo perché son cose che già sai.

    Purtroppo le modalità di lettura sul web sono ben diverse di quelle sulla carta ed ancora di più dei libri. Occorre catturare l'attenzione nei primi 4 o 5 secondi altrimenti il lettore scappa.

    Ecco l'ho detto. Ora puoi mandarmi tranquillamente a quel paese ☺

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  2. Marco ha ragione --entro certi limiti.
    I post di Zeb io li immagino preparatori di un'opera successiva, cartacea. Dove un post diventa un capitolo.
    Poi sì, confesso che li stampo e li leggo a letto, su carta. Sperando che non se a prenda a male per i consigli e continui.

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    1. Sono sicuro che @Zeb comprenderà che i consigli sono solo "a fin di bene", ovvero mi piacerebbe che più persone leggessero i suoi post. Spero quindi anche io che continui.

      Sul discorso preparazione ad un'opera cartacea, magari. Ne verrebbe fuori qualcosa che appassionati o meno gradirebbero sicuramente

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  3. Grazie, dovrei lavorarci di più in fase di bozza, perché ovviamente lavorando in word mi trovo poi davanti qualcosa di diverso da come l'avevo impostato. Sulla moltiplicazione della separazione in paragrafi sono d'accordo, sulle immagini sono perplesso (non so manco come si fa, a dire il vero) perché mi ci vorrebbe un portfolio di foto che non ho. Quanto al grassetto... dove? Se metto dei titoli ai paragrafi d'accordo, ma altrimenti, francamente, non ne vedo la funzione. Magari con un esempio capirei meglio...
    Confermo comunque che il supporto naturale di qualsiasi cosa io scriva sarebbe la carta, o meglio il libro. Questa serie di narrazioni e racconti sta nascendo come pare a lei, ma già intravedo una sistemazione possibile. Grazie comunque ancora per l'apprezzamento e i consigli, grazie di cuore...

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    1. Se il tuo scopo finale è un eventuale libro allora ho capito.
      Potresti allora seguire solo il consiglio di separare con degli spazi i paragrafi dandogli una sorta di titolo in grassetto che "anticipa" l'argomento.

      Ripeto, mi sono permesso di dare qualche consiglio perché ritengo i tuoi articoli di qualità e quindi mi piacerebbe che fossero letti per poterli davvero apprezzare

      PS:
      Se un libro verrà fuori noi del Tamburo vogliamo l'anteprima ☺

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    2. Sicuramente. :) Va un po' meglio così?

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  4. Ciò dato qualche ulteriore colpo di scalpello, dietro vostra ispirazione. Così l'imparate: se volete saper dove, vi tocca stampar di nuovo tutto...

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  5. Bravo Zeb! sì, una immagine ogni tanto ci starebbe bene, oltretutto apparirebbe nell'anteprima della condivisione su Facebook...
    Prova a cercarne con Google, io per esempio scrivo nella ricerca l'argomento che mi interessa, specifico "immagini" e mi propone una caterva di immagini, di cui moltissime non c'entrano per nulla con l'argomento, ma qualcuna ne trovo sempre, anche libera. E se non lo è, posso sempre cancellarla in seguito, se il proprietario del copyright si lamenta ;)

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    1. Anzi, guarda, approfittando biecamente della tua amicizia di lunga data, della mia posizione di AD ed essendo una degli amministratori, aggiungo io al tuo post, se non ti offendi, una immagine in tema.

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    2. Per quel che mi riguarda, sei utilizzarta a farlo, Bru'... :)

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