giovedì 10 marzo 2016

IL RE BIS



IL RE BIS

La Domus di Tito Tazio

Prima e subito dopo il cosiddetto Ratto, mentre Romolo spronava i Prischi Romani, fra cui molti rinnegati Sabini, alla rapida edificazione delle prime rozze mura attorno al Palatino (che infatti dovettero essere corrette e ricostruite solo un paio di generazioni dopo), Tito Tazio poteva agevolmente osservare con occhio scettico l’avanzamento dei lavori sul lato del Foro, dalla terrazza pergolata di vite della domus che poco tempo prima aveva fatto costruire sulla sella che univa le ultime pendici del Quirinale alla rupe dell’Arx, per sostituire la obsoleta capanna del Curatore dei Curiti, riservata ora al Flamine di Quirino.
Qualche decina di metri più in alto e poche centinaia distante, infatti, inerpicata circa alla stessa altezza dell’Arx su un cocuzzolo del Quirinale ben spianato, c’era da tempo immemorabile l’Ara di Quirino, una personificazione Sabina di Marte con il loro fondatore heroonico, e fino ad allora lì aveva avuto sede sia la capanna sacerdotale sia quella del Curatore Quirita dei Curiti Sabini sul Septimontium.
Ma Tito Tazio era un Curatore degli interessi di Cures un po’ particolare, rispetto ai suoi predecessori: sapeva di essere l’Uomo giusto al momento giusto per portare il Guado finalmente sotto il controllo Sabino. Però per essere l’Uomo giusto doveva stare anche nel posto giusto al momento giusto, e quello giusto era giusto nel punto più vicino al Campidoglio, ormai.
La casa di Tito Tazio era la prima o una delle prime vere domus in mattoni intonacati che si vedesse da quelle parti, slancio di imitazione di stili di vita ormai incombenti piuttosto che evoluzione delle secolari capanne che formavano il complesso di villaggi del Septimontium, e lo formeranno per un altro secolo e mezzo almeno.
È, con la rustica eleganza dei tempi, nient’altro che quel che dovrà diventare la casa modello dei Romani nel corso dei tempi, ereditata dai tempi antichi di altri conquistatori-conquistati micenei: un breve androne, un atrio coperto solo in parte con un portico colonnato attorno alle porte delle stanze che vi si affacciano, una stanza maggiore a far da pronao ad un orto-giardino protetto da alte mura in tufo scandite da lisce semicolonne scolpite, il tetto piatto a terrazza pergolata di vite sostenuta da giovani olivi.
Una piccola reggia, contrapposta alla umile capanna Regia di Romolo nell’angolo più lontano del Palatino. Ma un simbolo importante, per i Sabini come per tutti gli altri incombenti sul Guado.
Dalla Sella Fontinalis – dove ebbe casa anche Caio Mario sei secoli e mezzo dopo, e che sarebbe stata sfondata per aprire attraverso il Foro di Traiano un passaggio diretto per il Campo Marzio dopo due secoli e mezzo ancora – Tito Tazio poteva mostrare, senza ostentare, l’immanenza dei Sabini sia al Septimontium che agli Etruschi, sull’Arce od oltre il Tevere.

Fu qui che, finalmente, si abboccò con Romolo dopo l’occupazione simbolica, ma armata, del Campidoglio eccetto l’Arx, e la scaramuccia nel Foro con la pomposamente definita “battaglia” di Porta Mugonia, ospite generoso per un avversario – non nemico – battuto ma non vinto.
Romolo aveva delle grandi e buone intenzioni, nei confronti del Septimontium, questo Tito Tazio non poteva che riconoscerlo, tante quante il Septimontium ne aveva su di lui, per quanto diverse su diversi punti, che Romolo non aveva ancora ben chiari.
Doveva infatti capire che l’organizzazione civica era affare di chi ci viveva anche se si rimetteva a lui come Re, ma l’organizzazione urbana era altra cosa: era un fatto militare. E anche in questo Romolo era sì un gran soldato, un trascinatore, forse uno stratega, ma non un tattico.
Ma la tattica è la prima arte della politica in ogni tempo, più della strategia: un buon tattico è pure un buon politico, uno Stratega è spesso un tiranno, ma questo forse Tito Tazio l’avrebbe potuto spiegar meglio se si fosse considerato discendente da Greci Attici, piuttosto che Spartani.
Il Septimontium aveva indubbiamente la necessità di coagularsi in Roma, per contrapporsi a Veio ma anche perché, per quanto né Tito Tazio né Romolo lo potessero sapere, in quegli anni il sinecismo – cioè l’agglomerarsi di diversi villaggi in contrade che cercavano di razionalizzare antichi dissidi sulla scorta di comuni interessi – era la pratica più comune per assemblare le nuove Città che avrebbero dovuto combattersi il Mondo nel mezzo millennio successivo, da una parte all’altra del Mediterraneo. Ma il sinecismo non poteva essere compiuto semplicemente per atto di volontà, fosse la volontà di chi fosse, pure degli Dei.

Rex Corrector

Seduto su una comoda sedia di vimini dall’alto, avvolgente schienale, Tito Tazio si trovava in una situazione intrigante, quella notte in cui il tramonto rossastro sulle creste dei Monti Sabatini si era inconsapevolmente mutato in alba dai Monti Albani, e le stelle sopra lui erano scorse nel loro impercettibile ma inesorabile muoversi fra le foglie di vite e i radi grappoli quasi maturi.
Romolo non gli era umanamente piaciuto quanto gli era piaciuto Remo, che aveva accolto varie volte in quella stessa casa, addirittura alla sua inaugurazione avvenuta pochi giorni dopo l’arrivo della banda dei Remoromulei all’Asylum.
Remo era stato mente costantemente pensante, Romolo era istinto e azione, scaltro per quanto intelligente, ma con meno profondità del gemello, per il resto fisicamente, erculeamente identico. Ma diverso era stato il carisma, tanto complementare che Tito Tazio poteva facilmente immaginare nella fusione dei loro carismi l’origine e la natura dei loro successi, e ringraziare gli Dei che ne fosse morto almeno uno, anche se quello sbagliato, almeno dal suo punto di vista.
Dal punto di vista Sabino, la fondazione della cittadella sul Guado a Remoria, sull’Aventino, avrebbe spostato il peso dei Latini verso sud, liberando la pressione sull’Esquilino, e quindi lasciando anche il Viminale libero all’espansione Sabina. Tutto ciò a protezione della valle dell’Aniene, e a consolidamento delle piste a diverticolo della via Salaria, ovviamente.
Perché, Roma o Remoria, era ovvio che la nuova città avrebbe dovuto nascere Latina. I Latini erano preponderanti in numero rispetto a tutti gli altri, e si riproducevano con velocità sorprendente ma con altrettanta velocità sapevano mettere a bonifica nuovi terreni. Le loro Primavere Sacre, il Ver Sacrum, erano sporadiche quanto imponenti, quando quelle dei villaggi sparsi fra le valli montane Simbrutine o Tiburtine erano costrette a celebrarsi per piccoli gruppi ogni cinque o dieci anni, e per questo le loro città erano più grosse e potenti, per quanto spesso divise e quindi collegate in Leghe obbligate da patti sacrali, sempre poi regolarmente violati. Erano eccellenti sia come pastori che allevatori che agricoltori, combattenti valorosi per quanto indisciplinati – il caratteraccio rissoso era una loro ben nota connotazione etnica - e le loro festività sacrali augurali più innumerevoli che presso ogni altra nazione o etnia. Eccetto gli Etruschi, certo.
Gli Etruschi erano l’altro grande problema di Tito Tazio e dei Sabini per diventare Popolo, oltre che Nazione di dubbia Etnia italica se credevano veramente di discendere da una delle rare proto colonie Spartane, gemmati da Taranto.
Diversamente dai Sabini, che erano Umbri infiltrati pian piano dagli influssi balcanici attraverso i cugini Piceni che davano sull’Adriatico, gli Etruschi erano divenuti tali nel giro di poche generazioni: da pacifici allevatori Aborigeni con radici celtiche a bellicosi commercianti, fabbri, artigiani, architetti, guerrieri che manco i Greci, Spartani micenei o Troiani preomerici fossero.
Sapevano far tutto, e quel che non sapevano fare l’imparavano in fretta. All’inizio si erano presentati sulle coste rosse, a varie ondate, presentandosi come Tirreni, dal nome del loro Re. Poi ne era venuto un altro, di Re, qualche generazione dopo, in corrispondenza con l’arrivo delle ondate di esuli Troiani sulle coste delle paludi, ma da nord questo qui, forse dalle lagune eridanie. E qualche generazione dopo ancora, indissolubilmente fusi con gli Aborigeni che avevano sempre vissuto attorno ai misteriosi laghi tellurici, si erano presentati su ogni confine decisi a piegare alla loro volontà qualsiasi ostacolo.
A Tito Tazio da dove arrivassero gli Etruschi – corruzione di quell’impossibile termine, Rasna, da pronunciare nei linguaggi italici, con cui una volta fusi con gli Aborigeni i Tirreni pretendevano di farsi chiamare – importava un ciufolo. Era dove erano adesso, che lo preoccupava.
Non solo e non tanto su quella rupe che incombeva sopra la sua domus, se appena abbassava gli occhi dalle stelle, e oltrepassava con lo sguardo altri pampini, foglie e grappoli. Volendo, dall’Arx li si poteva far sloggiare quando si voleva, se tutto il Septimontium si fosse accordato per far ciò. Anche senza il consenso del Concilio del Septimontium al Volcanal, all’occorrenza. Ma sarebbe stato meglio averlo, per motivi politici che a Cures non erano ben chiari, ma non erano secondari se non al fatto che Veio era ormai una città ben fatta, e che si avvicinava tappa dopo tappa, castrum dopo castrum, sempre più alle Saline, da tempo immemorabile zona franca ancor più del Guado.
Era al di là del Tevere che stava il problema, e sempre più vicino. Anzi, ormai quasi sul Gianicolo. E gli Etruschi sul Gianicolo sarebbero stati un guaio per tutto il Septimontium, Roma o non Roma!

Eppure – e a questo punto Tito Tazio spostò la poltrona di vimini simile a un leggero trono in posizione da poter vedere in alto, opposta all’aguzzo sperone dell’Arx, l’Ara di Quirino stagliarsi nella fosforescenza stellare, perlacea sullo sfondo scuro delle querce del Quirinale – i Latini avevano deciso di affidare i riti e gli auspici di fondazione della città cosmopolita agli Etruschi, piuttosto che a riti greci o italici, magari non propriamente Sabini (erano tempi, Tito Tazio doveva francamente ammetterlo, in cui le mura ci volevano, tradizioni Spartane o meno), ma possibile che presso popoli che avevano eretto mura ciclopiche non ci fossero tradizioni che potessero sostituire ed escludere quei boriosi di Ra-sgn-gna!
Muovendosi a disagio, intorpidito dalla fitta sinuosità delle fibre del tronetto, Tito Tazio dovette ammettere con se stesso che un motivo per mantenersi buoni gli Etruschi c’era, ed era il fatto che fossero gli unici – a parte i Greci, ma i Greci erano ancora lontani – a saper costruire ponti. Non i ponticelli di tronchi gettati fra i ruscelli del Septimontium o i torrentelli della Sabina: i ponti ad arcate, di legno se non addirittura in pietra.
E un ponte sul Tevere, accanto al Guado, sarebbe stato il punto cruciale dei secoli seguenti, di questo Tito Tazio e praticamente tutti, lì attorno al Guado, se ne rendevano conto.

Le Curie Primigenie

Di cosa si fosse reso conto Romolo del suo ruolo regale, prima di quella discussione con Tito Tazio, invece è dubbio. Le pressioni sul povero ragazzo – su entrambi, ma ormai avevano prevalso le pressioni su quello, l'altro ne era rimasto schiacciato – erano state enormi da quando quell’ambasciata del Septimontium ad Alba Longa aveva chiesto a Numitore, appena subentrato ad Amulio come Rex Sacrorum dei Latini, la designazione di un Fondatore per l’ormai impellente cittadella sul Guado. Naturalmente Numitore era stato ben felice di prendere due piccioni con una fava, e sdebitarsi liberandosi dei due Gemelli liberatori e della loro banda ancora accampata fra le casupole attorno al lago. Non potendo designarne uno piuttosto che l’altro, aveva lasciato l’incombenza alle incerte tradizioni che dovevano comunque essere fissate dalla fondazione peculiare di ogni nuova città.
Quindi, già dal breve periodo passato a Gabii per impratichirsi nei primi gesti rituali – quali cingersi del cinto gabino, una proto-toga col cappuccio, e condurre bardati di quello un aratro leggero – sondaggi, istruzioni e ragionamenti avevano scandito le loro giornate, fino a farli giungere attoniti al rendiconto finale.
Ma, morto Remo, chi s’era illuso che Romolo accettasse per questo di fare il pupazzo della fazione Latina più bellicosa, s’era dovuto accorgere che il nuovo Re era già abbastanza bellicoso per conto suo. Se n’era accorto per primo Acrone di Caenina (l’ultimo dei villaggi del Septimontium oltre l’Esquilino, quello di popolazione più mista fra Sabini, Equi, Osci, Ernici e Latini), le cui armi adornavano il santuario di Giove Feretrio fondato apposta da Romolo per celebrare la sua prima vittoria campale da Re, una scaramuccia fra un centinaio di uomini in tutto, però risolta da quella singolar tenzone.
Se n’erano accorti in seguito gli Amntennati, che rispetto a Caenina erano in posizione decisamente più strategica, incombenti sul primo bivio della via Salaria prima che scendesse al traghetto sull’Aniene, come se n’erano accorti tutti i villaggi attraversati dal corteo dubbiamente pacifico del nuovo, primo, vendicativo Re di Roma, ancora offeso per le polemiche sorte attorno a un Ratto che, lui personalmente e i suoi consiglieri sacerdotali, ritenevano perfettamente legittimo.
Era stato a questo punto che Tito Tazio aveva deciso di far occupare il Campidoglio dalle truppe di Cures.

Fin quando s’era trattato dell’apparente scimmiottamento dei duelli fra Turno ed Enea che, a quanto pareva e sorprendentemente, accomunavano Latini ed Etruschi, Tito Tazio aveva seguito con blando interesse le scaramucce nella valle del Volcanal fra i ragazzi di Romolo e quelli di Acrone, e anche il preteso duello non era stato altro che un repentino attacco frontale di Romolo, che aveva sfondato il corpetto di cuoio di Acrone ancor prima che costui avesse potuto mettersi in guardia con tutte le sue armi.
Ma quando i ragazzi di Roma avevano marciato su Caenina e vi avevano posto un presidio, e da lì Romolo in testa marciato fino ad Amntennae, assalendola e occupandola, gli era parso chiaro come Romolo fosse tutt’altro che un ragazzetto sprovveduto con consiglieri malconsiglianti. Malconsigliati magari sì, perché Amntennae era un antico avamposto Sabino, e da Cures avevano strepitato come barbagianni per convincere Tito Tazio ad agire, e liberare gli Amntennati.
Così, Tito Tazio aveva utilizzato i militi mandati da Cures per occupare il Campidoglio.
Questo per ottenere due risultati: richiamare di gran carriera Romolo e i suoi da Amntennae, e intanto aver per una buona volta avuto la scusa per occupare il Campidoglio, anche se non tutto. Amntennae era sacro ai Sabini quanto il Campidoglio ai Latini, il problema come al solito era l’Arx Etrusca, che traguardava il Monte Sacro subito oltre l’Aniene, anche quello di dubbia attribuzione. Erano i confini del gioco, erano – Tito Tazio poteva immaginarlo e comprenderlo – i termini del Templum all’interno del quale Romolo aveva posto il Pomerium della sua Urbs. Quali fossero gli altri, poteva immaginare anche quelli, ma al momento non erano impellenti, come potevano ben immaginarsi a Cures.
Però, prima o poi lo sarebbero diventati, ed era per ciò che aveva voluto dare una prova di forza sul campo a Romolo, con la rissa scatenata in mezzo a un branco di giovenche in transito verso la Velia, la disordinata fuga dei giovani Romani su per la Via Sacra, l’intervento di Romolo finalmente uscito dal convulso di vacche a riorganizzare i suoi presso un antico sacello funerario, poi riconsacrato a Giove Statore, per farli confluire ordinatamente entro la Porta Mugonia.
Poi, a notte fatta, una figura furtiva era uscita da una posterla poco a valle della Porta Romanula, aveva costeggiato le radici del Campidoglio per i più rapidi dei ripidi sentieri un tempo segnati da capre, ora le primitive strade sovrastanti il Foro ancora transitorio per gli armenti, aveva sorpassato l’irregolare cavea del Volcanal per inerpicarsi sul sentiero a mezza costa che sarebbe dovuto diventare il Clivo Argentario.

Tito Tazio non si aspettava niente di meno che un Romolo furente, anche se non se lo aspettava in persona. Tuttavia, dovette ammettere di trovar facile smorzare quella furia comunque contenuta: si trattava di parlargli da soldato, fra soldati.
Perché il Re, per esser Re sempre, doveva esser Re Soldato quando necessario, cioè sempre! E questa era la tradizione Spartana che, mancando a Romolo, mancava a Roma! E nel ammettere questo, piuttosto che strangolarlo sul posto, Romolo sorprese una volta di più Tito Tazio, che era già un po' sbronzo.
Se Sabini e Latini avessero potuto un giorno davvero fondersi in un unico Popolo, avevano concordato con un intero cratere di vino che i Greci dell'Aventino garantivano a Tito Tazio per Falerno, per chi ce ne sarebbe stato abbastanza di Mondo allora! Roma! Ma quale Roma? Con gli Ernici, e gli Equi, e gli Osci, e i Volsci, magari pure i Marrucini e i Peligni, o gli Etruschi, magari…? No! Sabini e Latini, o Latini e Sabini, ma in purezza!
Questa era la confusa visione di fusione di Tito Tazio, se non degli Anziani di Cures, che non ne sapevano niente e ne sarebbero stati di gran lunga ben contrariati.

Non furono comunque quelli i principali argomenti della lunga nottata di discussione con Romolo. C’erano anche i fatti pratici.
“Non sei TU che devi far le Leggi: tu le emani. Ci pensano poi fra quella marmaglia del Volcanal a concepirle, per tener puliti i fossi e drenate le strade e pulite le are  ei boschetti sacri agli Dei, ma senza di te non saprebbero come affermarle una per una e una per tutti.”
“Emanate a MIO nome, però!”
“Hai paura che ti rimanga eventualmente un’infamia, o più? Un fosso mal tracciato, una strada franata? Un balzello troppo alto? Dovrai abituartici…”
“E l’amministrazione della Giustizia?”
“Supremo appello. O vuoi accollarti tutti i fossi e tutte le strade franate e i furti e gli abigeati e gli assassini non giustificati, o forse sì…”
“No! No! Ci pensino pure e mi facciano sapere, ho capito, valuterò. Col tuo aiuto, se è questo che mi offri. Ma se vuoi co-regnare, sai che questo non è potere mio. Forse è l’unica cosa che ho veramente capito di quel che mi han messo a fare: regno, ma non governo…”
Con Remo, Tito Tazio dovette ammettere fra sé, ci sarebbe voluto molto più tempo e argomentazioni per arrivare allo stesso risultato. Era ovvio che non poteva co-regnare, Tito Tazio voleva governare. E sul come, aveva idee chiare ma che non poteva ovviamente chiarire a Romolo, solo palesargliele.
Dove Remo non l’avrebbe impegnato tanto, era sull’organizzazione dell’Esercito, questo era certo.
Inizialmente, Romolo non pareva aver colto il punto, ancora indispettito dalla figuraccia dei suoi su cui non era sorto ancora il nuovo sole, o forse disorientato dall’approccio un po’ ambiguo che Tito Tazio trovava del resto inevitabile.
“Va benissimo la disciplina! Non è questo che contesto. Servirebbe pure a me. Però mi metti altra carne nel piatto: è l’organizzazione delle Tribù, che sono queste tribù?”
“Da un punto di vista civico, niente. – aveva spiegato con pazienza Tito Tazio – Il Septimontium è già suddiviso da qualche generazione in Covirie familiari allargate a tutti i villaggi, che agiscono più o meno in concordia per le questioni che riguardano i luoghi di interesse comune, come l’uso delle fonti per attingere l’acqua o lavare i panni, o la turnazione dei boschi cedui, degli sfalci comuni e relativo pascolo, la riparazione delle piste e dei sentieri, la manutenzione dei ponticelli a monte e a valle della mezza dozzina di torrenti che confluiscono nello Spinon, la loro pulizia e via e via.
Da circa tre generazioni, il Consilio del Volcanal si è accordato per far nominare alle Covirie del Septimontium un comitato curatore unico per tutta il corso dello Spinon dalla sorgente alla base della Sella Fontinalis fino allo sbocco nel Velabro, e questo caro il mio Romolo, è il vero dono che Volcanal e Septimontium hanno portato alla tua Roma.”
Romolo l’aveva seguito con sempre più disorientato interesse, perché se sapeva delle Covirie, quell’ultima cosa gli risultava invece evidentemente nuova, ma non l’aveva interrotto con domande inutili, questo Tito Tazio doveva riconoscerglielo.
“I Comizia delle Covirie per lo Spinon si riuniscono abitualmente in quella insenatura del Campidoglio subito sopra e subito sotto le prime due rampe del clivo Capitolino: avrai forse notato ogni tanto un portico temporaneo, con un sacco di questuanti attorno. Ma non spesso, perché i Curatores Spinon sono nominati un po’ a casaccio, eletti o scelti in numero di due per ogni Coviria, e non fanno altro che alternarsi per classificare le richieste d’intervento, e nel frattempo litigano come farebbero a casa.”
“Ci sono duecentoquarantasette Covirie, nel Septimontium, quasi cinquecento curatores dovrebbero fare un bel lavoro di pulizia, lungo lo Spinon dalla fonte Fontinalis in giù…” aveva allora commentato sarcastico Romolo, cui era ben noto lo stato della valle verso il Velabro.
“Appunto – aveva annuito Tito Tazio stirando un sorriso soddisfatto – e del resto anche la maggior parte delle riunioni del Volcanal finiscono in dispute quando non in vere e proprie risse. Giusto che son troppo vecchi per farsi del male davvero!”
Si erano fatti una sana, cordiale risata, poi Tito Tazio era venuto repentinamente al punto.
“Roma, a mio avviso, serve proprio a ribaltare la situazione dello Spinon e dintorni. Il Volcanal rimanga pure quel che è: una ciotola di chiacchieroni. La mia proposta è che le Covirie Familiari vengano riassemblate in Curie territoriali, e queste ben meno di cento. Trenta per l’esattezza, sulla base di una equa ripartizione in numero di uomini validi ai campi, e quindi alle armi, non necessariamente legati da vincoli familiari. Poi riunite e suddivise in quelle tre Tribù territoriali, non necessariamente legate da vincoli etnici. I capi delle Tribù nomineranno i capi delle Curie, i quali potranno a loro volta nominare dei Decurioni per reclutare i cento uomini che ogni Curia dovrà designare per allestire l’Esercito ogni volta ce ne sia bisogno, per guerra o per esercitazione. Più trecento cavalieri, e quelli sarà più complesso reclutarli.”
A questo punto, Romolo era naturalmente, ovviamente frastornato.
“Cosa c’entra l’Esercito con i Curatores Spinon adesso?”
“C’entra. Utilizzeremo i Comitia Spinon per i banchi di leva, perché non mi fido dei lavativi che le Covirie a preminenza Equa, Osca o Ernica, possono mandare a valle. Per cui, non solo la riforma delle Curie dovrà prevedere un adeguato bilanciamento con i Latini e con i Sabini, ma li voglio per prima cosa vedere ripulire l’intera valle dello Spinon, i nostri futuri soldati. Non certo i tuoi, che vedo sapersi comunque ben comportare, quando ben guidati, sia beninteso!”
Per un attimo, nella espressione smarrita di Romolo, Tito Tazio intravide la ricerca istintiva degli occhi del gemello, la battuta salvifica che non poteva più venire a risposta della velenosa insinuazione a doppio taglio sulla battaglia di Porta Mugonia. Poi, nella istintiva, grezza saggezza che non gli si poteva negare, Romolo aveva glissato, anche su quel voglio e su quel nostri che avrebbero potuto voler dire troppe cose.
“Ai miei manca la disciplina che manca a tutti i Latini, anche se non sono tutti Latini. Equi, Osci ed Ernici, e anche i Volsci, son comunque buoni combattenti come tutti gli altri, perché volontari.”
Tito Tazio non aveva trascurato l’enfasi messa da Romolo su quel perché, ma glissò a sua volta.
“Disgraziatamente, difficilmente quelli che ci proverranno dalle Curie saranno altrettanto entusiasti. Dovranno essere in grado di armarsi a spese proprie, insomma un bel peso per le famiglie o i villaggi. Dovranno lasciare i loro affari, campi, famiglie e amici, per svariati mesi di addestramenti, scontri, quando non vere e proprie guerre…”
“Ma di quanti stiamo parlando?” l’aveva interrotto per la prima volta Romolo, esasperato.
“Circa tremila. Più trecento muniti di cavallo. Che lo sappiano cavalcare, naturalmente.”
“È un numero assolutamente ragionevole, per quel che ne so io degli abitanti del Septimontium.”
Romolo era ancora evidentemente arrabbiato, ma l’idea di tremila uomini schierati, lui che non ne aveva comandati mai più di trecento, palpabilmente lo stava affascinando.
“È un decimo scarso della popolazione totale del Septimontium, effettivamente. Un quinto di quella maschile, un quarto di quella effettivamente valida.”
“Il che significa, che ruotando la leva, nel giro di qualche anno potrebbero essere addestrati tutti quanti dodici, tredici, quindicimila…”
E qui, Tito Tazio dovette riconoscere il suo confratello soldato, ancor prima che guerriero, cosa quest’ultima che Tito Tazio non era.

Ad Curiae Veteres

Mentre Apollo saettava fastidiosamente dal Monte Cavo, stiracchiandosi incancrenito sulla sua sedia Tito Tazio doveva riconoscere che Romolo l’aveva costretto, una volta allargatisi sul piano pratico, a scendere a qualche compromesso che a Cures avrebbero difficilmente compreso.
La nomina dei tre Tribuni avrebbe forse provocato qualche altro scambio di idee per quello dei Luceres, ma un qualche personaggio stimato da entrambi lo si sarebbe trovato – non certo Equo, Osco, Ernico o Volsco, tutti pelandroni – e la nomina dei Curiones e relativi Decuriones sarebbe passata al vaglio di entrambi, oltre che del Volcanal per conoscenza.
Con l’assemblamento delle Curie e quindi delle Tribù per suddivisione di contiguità piuttosto che per etnia, la Tribù dei Titienses non sarebbe stata di puri Sabini ma anche con Curie Osce ed Eque, e la predominanza Sabina nella Tribù dei Luceres era alquanto dubbia, rispetto alla controparte Latina. È vero che Romolo aveva accondisceso con fin troppa facilità ad ammettere una quantità spropositata di Curie Sabine del Colle Oppio nella Tribù dei Ramnes, ma un prurito diverso dagli altri gli diceva che quell’unica Etrusca del vicus Tuscus, ne avrebbe bilanciate da sola anche di più.
In effetti, la proposta avanzata e poi sospesa, più che ritirata da Romolo, di creare una quarta Tribù di Suburrani con gli affluenti da tutta Italia che per un qualsiasi motivo passassero per il Guado e decidessero di fermarsi lì, aveva quasi fatto venire un attacco isterico a Tito Tazio, che già vedeva manipoli di Etruschi insediarsi pian piano oltre lo Spinon con denari e gioielli e riempire l’Esercito di giovani Ra-sgn-gna!
E tuttavia, era un giovane scaltro ma ragionevole, quel Romolo, Tito Tazio doveva ammetterlo, anche quando aveva insistentemente chiesto il distaccamento del luogo di riunione dei Comizi Curiati da quello tradizionale dei Comitia Spinon al portico degli Dei Consenti, presto liberato anche dalla loro ormai inutile presenza, l'aveva fatto con garbo. Se l’era preso vicino a casa, sulla Velia, pazienza: vorrebbe incombere su di loro, potrebbe farcela pure. Intanto, è lui ad incombere su Romolo, o così pensa di sé Tito Tazio, Curatore Curita degli interessi di Cures Sabina.
Senza forzare ciò che la Legge ormai aveva prescritto, Tito Tazio avrebbe fatto da co-reggente a Romolo fin quando ritenuto necessario dagli Dei, pensò di sé decidendo infine di combattere il formicolio e alzarsi barcollando, nella piena luce del mattino rifranta dalle foglie di vite e dai grappoli polposi del pergolato.

Cioè quindi acciorché percui, quando il primo dei due avesse deciso che l’altro non gli serviva più, o gli fosse ormai d’ostacolo, considerò serenamente avviandosi verso la scala che portava al pozzo scavato ad attingere alla vena della fonte Fontinalis – e quindi sacro, per quanto lui volesse solo farsene versare due secchiate in faccia – al centro buio del peristilio a colonne di legno stuccate con i loro bei capitelli dorici.
Che quanto era costato, e di lagne, a Cures far venire scalpellini da Taranto piuttosto che assoldare quelli Etruschi di Veio, per la Domus di Tito Tazio…

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