mercoledì 24 dicembre 2014

E COME OGNI ANNO, LA SOLFA SUL SOL INVICTUS

Stavo giusto facendo delle leziose considerazioni attorno alla religiosità nel corso dei tempi dell'antica Roma, quando la cara Bruna espresse il desiderio di leggere qualcosa al proposito. Sull'antica Roma suppongo, più che sulla sua religiosità, ma questo andavo cercando di spiegare a me stesso e questo quindi ho sviluppato. Fin troppo, ma in fondo è tempo di vacanza, pure da se stessi.
Per cui, cercando di chiarir cose a me note aprendo altri fari oltre quelli già utilizzati, magari le ho confuse per chi di Roma, antica o meno, ne sa poco o giusto quel che è necessario sapere.
Me ne scuso, ma la Storia - me lo spiegò bene il relatore della mia Tesi di laurea anche se con altre parole - è composta in modo che tanto più l'approfondisci e più si complica, più la ampli e più si fa caotica.
Intrecciata ad essa c'è la Storia della Chiesa per cui domani è il Santo Natale, ma questa la conosciamo tutti e per questo ho un po' glissato, accendendo giusto un faretto che ai devoti comunque temo non possa far piacere, e me ne scuso pure di esso.
Come mi scuso della prolissità di quanto segue, ma non saprei come dividerla, e della pesantezza a volte del mio linguaggio: ho scritto come avevo voglia di leggermi, e non sono soddisfatto manco io, come al solito del resto. Comunque, se si ha impressione che ci siano dei copiaincolla, sono solo dalla mia memoria, per quanto in molti casi sia sempre santa Wikipedia, ma in inglese perlamordiddio!
Quindi, alla vostra compiacente attenzione licenzio...

                                                               SOL INVICTUS

La “polis” ecclesiastica

È impressione diffusa, almeno fra chi non è credente, che la religione Cristiana Romano-Cattolica sia essenzialmente più politica che spirituale. Questo senza voler togliere nulla alla personale spiritualità dei suoi credenti, che del resto non può essere negata per i credenti di alcuna religione diversa. Ma il suo agire nei secoli fino ad arrivare al moderno ingombro degli aspetti più intimi della libertà nelle legislazioni dei Paesi a tradizione cattolica, mostra chiaramente un soggetto politico potentissimo, poliedrico e transnazionale anche quando agiva come portatore di un proprio Stato sovrano.
In effetti, la Chiesa Cattolica è essenzialmente politica perché così era la Religione Romana da cui, suo malgrado, discende direttamente. Quella tradizionale intendo, quella uscita dalla primigenia contaminazione fra ritualità etrusche e superstizioni italiche. Nel suo complesso il Cristianesimo è invece sincretico discendente di tutto lo sviluppo della religione statuale ellenistico-romana imperiale, ma è indubbio che nella sua specificità settaria la Chiesa Cattolica sia collegata più direttamente alla radice originaria Romana di quella Ortodossa sua coetanea.
Del resto, è vero che son catholicos (universali) anche i pizzardoni delle chiese ortodosse, che a Costantinopoli no che non gli conviene, ma a Mosca rialzan la testa per intrudersi di nuovo politicamente nella società. Ma lasciamo perdere i Patriarchi eredi dei cappellani di Czar e Basileus, che qui sta la differenza: i Papi non furono mai soggetti, istituzionalmente, di alcun Dominus Augusto.
Questo perché comunque mantenevano la Dignità di Roma, dignità discesa all’Impero attraverso la Repubblica fin dall’Età Regia, ma pure latente in tutte quelle generazione di popoli (di individui in effetti espulsi dai loro popoli, almeno nei primi due secoli dopo la fondazione) che si andavano condensando per assemblarsi in quello nuovo Romano addensando le proprie divinità di riferimento, per la maggior parte espressione naturale del diretto rapporto con la Natura ma via via sottoposte ad una mediazione di tradizione pontificale trasmessa per centinaia di generazioni istruite a studiare il cielo, e le sue interazioni con le manifestazioni telluriche, e di queste con quelle meteoriche e climatiche, e a interpretare il tutto come espressione dell’umore delle divinità ctonie e uranie.
Diretta discendente quindi della ritualità Etrusca di fondazione e dalla spiritualità Italica di tradizione, ancora solo lievemente contaminata dalla grandiosità Greca e ben lontana dalla universalità Orientale, la Religione Romana da Numa Pompilio in poi fu codificata in una serie di cariche istituzionali, Sacerdoti e Collegi Sacerdotali o Pontificali, poste ad amministrare con minuzia i riti augurali o interpretativi delle varie Divinità panteistiche, che con l’andar del tempo e soprattutto con la Repubblica si intersecarono e intorcinarono con le cariche del cursus honorum politico per dare la vera statura del Civis Romanus, in rapporto con gli Dei propri e con quelli comuni.
Era in effetti una religiosità su due livelli, al di là delle adesioni personali, individuali, intersodali a credi più o meno misterici col tempo sempre più diffusi: quello familiare comune alla Tribù d’appartenenza che si scomponeva nelle varie Gentes a loro volta più o meno potenti a seconda della “sodalitas” che univa le Familiae componenti; e quello generale sovraordinato, diretto alle Divinità Maggiori, espresso nei riti codificati delle cerimonie pubbliche dei dies fasti o nefasti ma anche in un sistema di Lari-Penati espressione della Familia allargata di tutta la comunità.
Da questo punto di vista, il passaggio dalla monarchia alla Repubblica (in effetti la cacciata della Gens prevalente dei Tarquini con le cattive e con le buone, e l’accaparramento dei suoi possessi e delle sue clientele o alleanze – quando possibile – da parte delle Gens Senatorie) significò solo la riattribuzione e redistribuzione delle funzioni fra pubbliche e private, con l’istituzione simbolica del Rex Sacrorum come sorta di ricettacolo di tutto ciò che solo una dignitas regale – quindi ormai non più governante – potesse portare a colloquio con gli antichi Dei Regi, che sempre di Roma erano, e con la semplificazione delle ritualità assegnate ai magistrati repubblicani, dai Consoli-Auguri in giù, cosicché ogni sia pur infima Magistratura corrispondeva ad un preciso Collegio Sacerdotale, i cui membri si mescolavano nell’indossare cariche pubbliche e religiose.

Sodales Augustales

Questo fino ad Augusto e ancora con Augusto, solo che Ottaviano non si limitò a manipolare cariche e collegi pubblici, come del resto già fatto da Cesare e da Silla e da altri ancora prima per adattarli alle mutate contingenze di un popolo in violenta crescita e diversificazione: creò con il Collegio dei Sodali Augustali – o meglio con l’estensione a tutta la Res Publica dei Lari-Penati suoi e della sua Gens Julia, con festività apposite e ritualità significative, semplificate e comprensibili fino alla più bassa Plebe – un culto comprensibile per i Romani ma unificante in nuce la complessità di affrontare i variegati culti Orientali, che da un lato dovevano essere annessi a Roma, ma che in Roma avrebbero potuto portare con i loro riti e ritualità influssi culturali preoccupanti per la politica di rinsaldo delle tradizioni Romane voluta da Augusto.
Questo spiegherebbe anche la curiosa proibizione per i membri del Senato di recarsi in Egitto finché rimase in vita: sarebbe in effetti stato imbarazzante per Augusto rivelare che dopo tanta prosopopea contro Marco Antonio, pure lui si faceva effigiare da Faraone. Ma era indispensabile: solo ai sacerdoti del Faraone quelli di Phile rivelavano le stime per le piene del Nilo, che solo la loro plurimillenaria esperienza nel religioso studio del sacro fiume fin nel cuore della Nubia e dell’Etiopia poteva dare così esatte. Morto Ottaviano, gli Egiziani delle campagne ebbero poi una per loro comprensibile dinastia faraonica di Augusto II, III IV, V e ad libitum fino alla conquista Araba, mentre a Roma i templi dei culti Orientali ebbero presto via libera, a cominciare da quello alessandrino di Serapide.
Cominciava insomma l’Impero Romano Ellenistico, nonostante gli sforzi dei Sodales Augustales di romanizzare il più possibile qualunque rito.
Sarebbe comunque ingenuo credere che, essendo quello degli Augustales un culto nuovo, artificiale e preconfezionato, tali fossero pure i suoi riti, per quanto intrisi di significati più politici che spirituali fossero.
Vivo Augusto, l’unico Divo a cui ancorare il culto era naturalmente Cesare: il “Gen(i)us” di Augusto era lui. Ma da Cesare ascendeva tutta la cultualità del “traslatore” Enea e le ascendenze sacrali troiane. Roba vecchia ormai di un millennio, basti pensare al santuario ed all’heroon di Lavinium, ancora precedente alla fondazione di Roma stessa.
Si impossessò in un qualche modo di questo culto, il Sodalizio degli Augustales? Non penso sia dato saperlo, come probabilmente non conosceremo mai l’evoluzione dei riti cerimoniali dei Sodalizi nelle loro funzioni, ma in Oriente probabilmente questi riti erano mutuati più dalla immedesimazione con quelli di Miti locali romanizzati che dalla imposizione di procedure strette e testi univoci, se non date di giorni festivi legati alle fortune augustee.
Doveva essere un Symbolum Universalis insomma: più di trecentosessantacinque giorni un anno non ha, se non una volta ogni quattro, come aveva stabilito il Divo Giulio…

Imperatorem stantem mori oportet sicut Vae puto deus fio

Un Simbolo che con la fine della dinastia Giulio-Claudia dovette forzatamente e radicalmente modificarsi.
Della Gens Julo-Claudia furono Divi Cesare, Ottaviano, Claudio. No di sicuro Caligola, né Nerone, né il povero Tiberio che la divinizzazione se l’era giocata a Capri, di certo interessandogli tanto quanto quella carica di Cesare e poi post-Augusto che Ottaviano gli aveva imposto a forza di volere di Mamma Livia.
A Galba, Otone e Vitellio forse sarebbe garbato, ma post mortem loro, a nessuno passò per la mente di divinizzare quei cialtroni.
Vespasiano poteva quindi “supporre” di star diventando un Dio a buon conto, perché nel frattempo aveva evidentemente manomesso appositamente, in concordia con il Senato ovviamente, e con le pletore sacrali cui dipendevano, i meccanismi non tanto della proclamazione (che sempre post mortem, quindi insicura è), quanto dell’adorazione: divina era la figura dell’Augusto in quanto stato tale, e non in quanto appartenente a una determinata Gens, o Dinastia per gli Orientali cui il messaggio era specialmente rivolto. La Gens Flavia per quanto antica e altrettanto se non più importante della Julia o della Claudia separatamente, non poteva certo aspirare ad ereditare pure l’ascendenza Venerea e Troiana dei Julii, anche se subentrando nel controllo della Res Publica ne aveva ereditato tutte le clientele politiche ed economiche, nell’Urbe e nell’Impero per quanto era vasto.
Ora, io non so precisamente né di Tito né di Domiziano, né di Nerva – forse l’unico vero Augusto davvero nominato dal Senato nella storia di questo ruolo necessario epperò ingrato – ma da Traiano in poi si comincia a considerare gli Augusti immediatamente destinatari della divinizzazione appena morti, quindi implicitamente già in vita.
Questo forse incautamente per quanto riguardava Traiano, ma per Adriano, il Pio Antonino e Marco Aurelio fu certamente uno strumento di Potere, soprattutto nelle provincie Orientali e nei rapporti con i sempre turbolenti Parti e i visionari popoli di quelle parti. Il Senato comprendeva, assentiva e acconsentiva. Come ogni consesso blaterava su tutto, e sempre con più facondia tanto meno incidenti fossero i suoi Consulti, ormai sempre più ponderati consigli che saggie decisioni.

Barba non facit philosophum?

Su Marco Aurelio ho personalmente un giudizio controverso: come a tutti mi fanno simpatia le tribolazioni di quest’uomo potente che poteva starsene in una villa delle tante che ne aveva, e invece andava a guerreggiar personalmente e a lagnarsene poi nelle notti d’insonnia scrivendo dotti e profondi pensieri. In asciutto greco poi, come se non ne avesse abbastanza del quotidiano pragmatico latino
Però mi chiedo se non abbia rivolto un po’ troppo ossessivamente le sue elucubrazioni a se stesso e alla sua situazione contingente, gran parte del suo tempo alle frontiere dell’Impero, magnifiche per ampiezza quanto terrorizzanti per lunghezza, e per il resto in viaggio, o a trombar la cugina Faustina per far malaticci figli in lussuose ville dove poi confortarsi e raccogliere i propri Pensieri. Il fronte interno, per così dire, glielo reggevano il Senato e le riforme costanti di Adriano e Antonino Pio, e lo ressero a lungo, stante che Commodo sarà stato quel che sarà stato, ma lo fu per dodici anni, e un tiranno non dura così a lungo se il benessere dei suoi tiranneggiati è veramente disastrato dal suo tiranneggiare.
Ma se per Principio non doveva esser porfirogenito, il successore di quel filosofo di Marco Aurelio Vero, bensì adottivo come lui stesso, e il predecessore, e il predecessore ancora e il predecessore primo – cioè Traiano – perché non era mai stato esplicitato chiaramente?
Perché il fatto della “adozione” è una balla: il successore andava comunque cercato entro una cerchia di parentele per mantenere compatta la ragnatela di interessi economici che ancora reggeva il Senato attraverso il “sistema” della Gens, delle Gentes che si collegavano nei più svariati modi con i coloni appartenenti – in via burocratica s’intende – alle originarie Tribus municipali sparpagliate fra il Mediterraneo, le Gallie e la Britannia.
Penso che da una parte si cercasse di creare la Gens “ideale” dove pescare i potenziali “Principi” allevati e istruiti per prendere controllo della macchina sempre più complessa della Res Publica, dall’altra ci sia trovati nella realtà contingente di una pestilenza mai vista e di un Principe apparentemente debole di mente e facilmente manipolabile dalle varie fazioni senatorie che vedevano venire a mancare una solida guida alla Familia Principale. Commodo insomma sguazza per dodici anni sopra una turbolenza politica senatoria che rende entrambi soggetti “deboli”, una “coalitio forzata adversum unum” destinata ovviamente a risolversi nelle ostentate buffonate di Commodo e nelle pugnalate finali a quell’Imperatore non disastroso, no, ma solo grazie all’insubordinazione dei suoi Generali ai suoi confusi ordini.

Ab pagus ad Urbis

Non subito evidente, naturalmente, ma il declino era cominciato.
Tutto sommato il governo dei Severi – dopo l’intervallo di quei due balordi di Pertinace e Didio Giuliano – continuò a portare avanti quel che gli Antonini avevano impostato. Però i tempi cambiavano, e per i parametri di allora, di un Mondo che appena da pochi secoli era entrato nella fase “storica” dell’Umanità dopo millenni di apparente stasi mitica, cambiavano velocemente.
Mentre fino ad Augusto e ai Flavi solo Roma e Alessandria potevano essere considerate metropoli, mentre le altre città mediterranee erano poco più che centri urbani relativi al loro territorio di più o meno antica tradizione – agricola sempre, artigiana spesso, mercantile dove da sempre le condizioni geomorfologiche e strategiche avevano posto scali commerciali – nel II ma soprattutto nel III secolo l’urbanizzazione anche nei territori interni dell’Impero comincia a farsi spinta e preoccupante, per molti motivi ma prevalentemente per l’estensivizzazione delle coltivazioni oltre ad un impetuoso aumento demografico.
La formazione dei latifondi schiavistici a scapito della piccola proprietà contadina insomma, piuttosto che la messa a coltura di nuove terre. Fenomeno invero naturale, tant’è che era considerato un problema fondamentale fin dal tempo dei Gracchi, oggettivato dal fatto che solo i contadini e non i cittadini urbani fornivano soldati per l’esercito. Ma al tempo dei Gracchi la necessità era di avere sufficienti soldati “Romani”, poi si risolse allargando l’esigenza agli “Italici” e ponendo la Cittadinanza Romana come premio finale alla ferma decennale o ventennale. Con l’allargarsi della Res Publica in Impero, le Colonie e i Municipi nei nuovi territori prosperarono e fornirono per tre secoli sufficienti rincalzi per le Legioni, spesso formate con reclutamento territoriale stretto, ma le tensioni sempre crescenti su ogni limes – ora che le esigenze di espansione sembravano essersi consolidate sulla linea Reno-Danubio e le ambizioni di conquista erano concentrate tutte sul dare un colpo decisivo alla Partia – cominciavano a richiedere nuove forme di arruolamento, anche fra i non Italici, se non proprio ancora fra i Barbari.
Non c’era più nessun interesse insomma a difendere la piccola proprietà contadina, se non fra i poveri coloni che vedendosi espropriate le terre dalla più razionale condotta dei latifondi dovevano scegliere se rimanere come servi poco più che schiavi, arruolarsi o cercare fortuna in città. A Roma per gli Occidentali, ad Alessandria e non bastando più questa alla fine Costantinopoli per i più fertili Orientali.
E non tutti sono fatti per far il soldato, ma tutti si adattano a vivere in città, soprattutto se era la magmatica Urbe.

(Ac) Dominus Ac Deus

Settimio Severo probabilmente aspirava ad essere un altro Vespasiano, e sotto molti aspetti gli assomigliava. Soldataccio di buona famiglia, spiccio apprezzator di femmine, devoto alla famiglia.
Ma mentre Vespasiano era stato un italico reatino di buona Familia e illustre Gens, Settimio era un italico di sesta generazione africana, forse l’ultimo ad aver fatto davvero tutto il cursus honorum da colono Equestre a Princeps Senatus. Cosa a cui disse basta.
Settimio Severo spazza via il potere del Senato in campo di controllo militare, ma più ampiamente lo limita in ogni aspetto che possa infastidire la conduzione “tecnica” della Respublica, tranciandone anche fisicamente i tentacoli. Di sicuro era più brutale di Vespasiano, per certi aspetti anche meno bonario, ma si deve considerare oltre ai diversi tempi, anche la diversa famiglia, fra Caracalla, Domne e Mamee…
I Severi-Bassiani-Mamee intendevano governare in maniera decisamente più ellenistica dei loro predecessori, ma in effetti solo dal punto di vista formale, per i Romani di ceto senatorio eccessivamente Orientale. La forma però era substanzia rerum per i Romani tanto quanto per gli Ellenisti: su quella si basava l’accettazione o meno del far parte della “Koinè Imperiale”. Nei Sodalizi degli Augustales erano compresi molti dei membri più notabili delle varie cellule municipali o coloniali Romane, la classe dirigente che con l’Editto di Caracalla sul “Jus Soli” vide di botto svalutato ogni valore alla Cittadinanza Romana in quanto “premio”. E non era nemmeno sostituito da un sinonimo più alto come “libertà”: singolari riti esoterici orientali vennero prescritti e imposti (soprattutto con Eliogabalo) nelle celebrazioni pro Augusti, e questo a tutto l’Occidente transalpino cominciò a non andar giù.
Ai Romani de Roma più o meno andava bene tutto finché gli si garantisse la panza piena. 193-235: quarant’anni abbondanti, Macrino non conta, dura la Dinastia – stavolta sì – Severiana. Perché la forma della trasmissione (quindi controllo) del Potere era, d’accordo, familiare nella forma Romana, ma assolutamente Orientale nella concezione delle Mamee: per costoro, la divinizzazione in vita era già ovvia, il problema era come imporlo all’Urbe, e quindi a tutto l’Orbe…

Prologo al Caos

Le Domne Mamee però, questa schiatta influentissima nella corte che contava più dei fantocci passati alla Storia loro malgrado come i Severi, erano sacerdotesse di un culto mammone destinato solo a farsi fagocitare da chi intanto in silenzio rodeva.
Con l’assassinio di Alessandro Severo – un Imperatore che Montanelli ha battezzato “Santo” senza meglio definire se la sua ironia era in effetti sarcasmo – nel 235 comincia convenzionalmente il periodo dei “Trenta Tiranni” o meglio conosciuto come Cinquantennio di Anarchia Militare.
Essenzialmente, il controllo centrale dell’Impero si spezza in tre parti: la Gallia tirandosi dietro Spagna e Britannia trova di poter far meglio contro i Barbari del Reno accorciando le linee di comando da Roma a Colonia e poi a Treviri, i Nabatei di Palmira si sono talmente romanizzati in quei trecento anni di contatto e falsa sottomissione da ritenersi abbastanza forti da suonarle da soli ai Parti, come sognavano di fare da secoli. Giusto che avevan bisogno dell’Egitto e del suo grano, e romanamente parlando se l’eran preso.
In mezzo, trasversale per la visione del Mondo dei tempi, Roma col suo giardino italiano esentato dalla leva militare fin dal tempo di Adriano, la sua Africa in grado di produrre sempre più olio e grano se solo si fossero dati ai latifondisti i mezzi che in effetti gli si davano, la Grecia ormai Grecia se non in chiacchieroni e bravi artisti, e le montagne dei burberi illirici e le pianure ancora non ungare della Pannonia, la collinosa Tracia sotto al Danubio, sopra al quale nella Dacia conquistata da nemmeno due secoli i primi Romeni combattevano per rimaner Romani contro Goti e Gepidi.
Sull’Asia Minore stanno mettendo gli occhi gli Armeni, popolo che a forza di patteggiar con tutti qualcosa su come dominar ha imparato, la Siria è ipnotizzata ora da Palmira ora dalla Persia, che incombe.
Non è poi strano se mentre a Roma infuria la continua faida fra Gentes senatorie per determinare il “Princeps inter Pares” alle frontiere si eleggono Imperatori che possano decidere autonomamente dove e quante e quali truppe spostare in emergenze di pochi giorni, quando le comunicazioni strategiche più veloci potevano essere di settimane.
Il fatto è che questi Imperatori farlocchi nient’altro erano che generali alla ricerca di approvvigionamenti per le loro truppe: o si impossessavano dell’apparato fiscale – e quindi amministrativo – locale, o dovevano farlo saltare, e la faccenda dell’oca dalle uova d’oro è antico insegnamento proprio per quello…
Quindi è perciò, il percui non fu solo “militare” quella “anarchia”: l’Impero della Res Publica Romana si organizzava territorialmente indipendentemente o in avversione al governo centrale per meglio funzionare dimensionando la stessa organizzazione a misura di esigenza di territorio. Poi i capintesta di chi gli forniva i mezzi per agire si montavan la capoccia e pretendevano la divinizzazione ipso facto proclamata, una sorta di pensione eterna, ammesso ci credessero veramente. Però era lustro vivendi, e avrà avuto la sua importanza, che a seconda delle ambizioni dei personaggi sarà stata utilizzata in maniera più amministrativa che politica o viceversa, ci fosse mai un sistema per distinguere le due cose. Il Principe Augusto si stava trasformando in Dominus Augusto, sacro ipso facto al di là del fatto che fosse anche il Pontefice Massimo del culto tradizionale che ormai si esercitava solo a Roma, e nelle sue svariate manifestazioni panteistiche nelle campagne e nei pagi dei coloni italici, nell’Illirico e oltre.
I riti dei Sodales Augustales cittadini probabilmente non variavano molto nella forma, ma avevano variabili sostanziali per dimostrare la lealtà – personale o della comunità - all’Augusto di Treviri piuttosto che a quello di Roma o dovunque stesse in quel periodo. Era tutto simbolico il mezzo privilegiato per intendersi a quei tempi, e tutto andava più o meno bene quando i Simboli di riferimento coincidevano col buonsenso, come con quasi tutti i culti religiosi Orientali e con tutti quelli Occidentali, ma con uno pareva davvero difficile accordarsi.
Era quello Cristiano, naturalmente.

Retropasso

Ora il passo indietro è dovuto.
A parte la persecuzione di Nerone, che a conti fatti sembra più che altro un ciapamò sul primo che capita, basta sia la folla a indicar quello, i Cristiani non danno fastidio a nessuno fino a che non vengono interpellati da Adriano se interessati al suo Pantheon, e coortati da Eliogabalo nel suo emetico culto Solare.
Dopo il 235, scatenano pian piano l’inferno.
I “mezzi tecnici” con cui si diffuse il Verbo Cristiano sono più o meno evidenti: erano inizialmente una setta ebraica sparpagliata in giro per il Mediterraneo e fuori dalle purghe Romane successive alle guerre Giudaiche di Vespasiano e Tito, iniziate ancor prima della morte di Nerone.
Pietro e soprattutto Paolo erano consapevoli dell’inevitabile destino del Popolo Ebraico e furono fra i fautori di una rete d’assistenza per gli esuli futuri, solo che a Paolo l’entusiasmo prese un po’ la mano…
Di una cosa sicuramente ci si deve liberare per provare a capire l’ascesa del Cristianesimo: non erano dei poveracci, nemmeno all’inizio. Erano dei potenti – se non come denaro in sé, come rete di conoscenze – che aiutavano i poveracci, ma non i poveracci in quanto tali, li aiutavano solo se ‘sti poveracci davano segno e dimostrazione e atto di aderire alla Causa. La Causa del Cristo: cosa esattamente costui avesse detto era confuso e in continua diversa interpretazione, però buono per tutti e soprattutto per i poveracci, ma comunque si fidassero, comunque magnassero, che prima o poi avrebbero compreso, e se no li avrebbe comunque attesi una eternità di beata comprensione, bastava credessero. Al Cristo e alla Sua Chiesa e al Vescovo di riferimento.
Una organizzazione potentissima, forse non diversa da quella Mitraica, Isiaca o Serapica, ma ostinatamente e ostentatamente antagonista a qualsiasi compromesso. Questo era probabilmente dovuto alle origini giudaiche: la spinta all’ecumenizzazione di Paolo fu decisiva per far distinguere il cristianesimo dalle altre sette ebraiche della diaspora, ma un sincretismo inizialmente troppo forte avrebbe probabilmente avuto l’effetto opposto, ossia di mantenerlo nell’ambito dell’indistinto – ma sempre più deciso e simbolicamente preciso – panteismo Romano.
In effetti, per meglio comprendere gli aspetti religiosi del III e IV secolo si dovrebbe far riferimento alle attuali fibrillazioni – interne e fra di loro – dei moderni partiti politici: quello era la religione del tempo per le classi agiate, influenti e dirigenti dell’Impero, politica pluri-partitica che nel V e VI secolo si riassumerà all’interno del Cristianesimo prima nella polarizzazione niceno-ariana (risalente ancora al IV assieme alle principali “eresie”), poi in quella romanocattolica-ortodossobizantina.
L’impetuosa crescita del Cristianesimo dalla irrilevante ininfluenza del II secolo alla definitiva presa di potere con Teodosio e Graziano alla fine del IV è insomma da leggere come l’ascesa di un partito politico alla fine trionfante, dominante e tirannico, ma sempre litigioso al suo interno e turbolento con gli avversari.
Non voglio discutere la spiritualità del Cristianesimo originario, s’intende, come non voglio paragonarla o contrapporla alle altre spiritualità che in quei tempi coltivavano i seguaci degli altri culti: questo è il mistero di ogni fede, che non si accende o spegne ad ogni decreto “Cuius Regio Eius Religio”.
Ma questo è il dato brutale: Teodosio impose per imperio la messa al bando dei culti non cristiani perché i loro seguaci erano ancora maggioritari in tutte le campagne e in buona parte delle città, forse solo Costantinopoli esclusa.

Persecutio?

Costantinopoli, del resto, ancora fondata col rito tradizionale Etrusco-Romano, solo “benedetta” da un ancora incerto rito Cristiano, probabilmente sempre consacrata dai culti militari o mercantili che dovevano poi essere assorbiti ex lege in quelli ormai definiti dai vari Concili.
Che Costantino intendesse usare il culto Cristiano (o Galileo come ancora, disprezzosamente, per Giuliano detto l’Apostata) come suo alfiere politico nello scacchiere imperiale razionalizzato da Diocleziano, è indubbio. E io ho pure pochi dubbi sul fatto che Costantino in sé fosse assolutamente agnostico, alla fine in un certo senso autodivinizzante nella sua velleità di essere un nuovo Alessandro Magno. Il titolo di “Grande” insomma, gli interessava molto più di una qualsiasi eternità paradisiaca, concetto che Augusto avrebbe perfettamente compreso, ma la maggior parte dei posteri (e forse pure dei contemporanei) no.
Ciò che fece probabilmente propendere Costantino, fu la tenacia dei Cristiani a risorgere dopo ogni persecuzione.
Persecuzioni che, e sfatiamolo anche questo mito, non erano state mai particolarmente sanguinose. Nerone è un caso estemporaneo, gli ad bestias sono sane balle quanto le allegre storie dei Santi Martiri e dei loro miracoli con le graticole o senza: la “persecuzione” era una proscrizione dai pubblici uffici e dalle cariche onorifiche, quando ancora gli uni e le altre garantivano lauti profitti e prestigio sociale.
La botta peggiore che i cristiani presero fu da Decio nel 250, che impose un “libello” di certificazione dell’adesione ai riti degli Augustales. Era una sorta di giuramento allo Stato, insomma, che mise in crisi il senso di lealtà dei notabili cristiani verso la Res Publica o verso la propria fede-partito. Ci fu chi aderì e poi obliato l’obbligo lo rinnegò (i “lapsi”), ci fu chi comprò con corruzione il libello pur non aderendo mai personalmente (i “libellatici”).
Belle storie, ma evidentemente alla morte di Decio dopo solo due anni di completo potere, i cristiani erano già abbastanza forti nell’amministrazione Imperiale periferica da far cadere presso i successori questa pratica burocratica. Almeno fino ad Aureliano.

Ecco il Sol Invictus! Ma quale?

Strana Fama, quella di Aureliano Restitutor Orbis. Uno dei più grandi e sottovalutati Imperatori Romani di tutta la Storia, in tutti i sensi politici, militari, umanistici… però sì bè… ha riconosciuto la decadenza dell’Impero facendo le mura e ritirando il limes dalla Dacia (però sì bè… paraculo ne fece due Province nuove sotto al Danubio…), convinto Tetrico a governar la Lucania dopo esser stato Augusto Galliarum (però sì bè… Tetrico non vedeva l’ora di veder il mare vero…) e fatto risiedere a Tivoli Zenobia, tolta dalle manie di grandezza di Palmira per pensionarla fra quelle di Traiano (però sì bè… se avesse lasciato in piedi uno Stato autonomo contro i Parti, invece di sacrificare le Legioni italiche…), impostato una riforma monetaria attraverso la razionalizzazione delle zecche imperiali senza cui il Solidus di Costantino non avrebbe potuto essere la moneta dominante l’economia del Mediterraneo per sei secoli… però sì bè… un colpo di testa nella decadenza…
Forse perché sei anni son pochi, forse perché i sei successivi di Probo furon conclusi a badilate, ma il tentativo di Aureliano di ridare stimolo all’orgoglio e alla speranza di essere Cives Romanis è uno degli argomenti che ho trovato maggiormente trascurati nella storia di questo periodo chiamato “dei Trenta Tiranni”, che se trenta giusto fossero non si sa ma di cui lui certo non ne fu uno.
Forse perché è imbarazzantemente superficiale riconoscere che il Natale l’ha “inventato” lui: con quel culto solare sincretico che per alcuni pare fosse originato dall’appartenenza di sua madre a chissàqualchequale setta esoterica solare… e chissàchi gli avrà invece suggerito di portare a termine un progetto filosofico iniziato fin dai tempi di Adriano se non di Nerone, di un culto Apollineo sintesi Universale del Pantheon comunque conosciuto da chiunque? Il Sole come Symbolum? E chi può disconoscere il Sole? Quale notte può sconfiggere il Sole?
Io penso sia ipotizzabile che la querula, ossessiva richiesta che al centro del Sole ci fosse una Croce, un Pesce o qualsiasi altro comprensibile simbolo chiarificante che ce n’era uno meglio degli altri, di culto, abbia innervosito parecchio Aureliano, Probo e i suoi successori, che intanto avevano anche da chiedersi come utilizzare la rete di Sodales Augustales, ormai apparentemente politicamente inutile.
Successori, oddio… Caro, Carino e Numeriano, e bastan i nomi a dir quasi tutto, se non la cosa più importante: le Legioni d’Oriente eran gonfie di armati e voglia di menar finalmente le mani contro i Parti, Mitra o Sol Invictus che fosse si doveva partir! E partiti che furono, e datesene e presesene coi Parti come facevano oramai dai tempi di Crasso, per tornare dal travaglio dovettero affidarsi a Diocleziano.

E quanto dura 'sto Sol Invictus?

Il quale Diocleziano, da parte sua, constatato che intanto a Roma il Senato era ormai estenuato dagli ultimi tentativi di imporre Augusti a proprio piacimento con il patetico putsch africano dei Gordiani (vetusto il I, inadeguato il II, ma soprattutto grandiosamente patetico il III, Imperatore ragazzino ultima grande speranza senatoria di rinnovare i tempi degli Antonini, l’ultimo divinizzato voluntas populi, spodestato dall’oscuro ma capace celebrator del Millenario, l’Arabo Filippo, altro discendente della diaspora italica dei tempi di Crasso), e soprattutto non controllando più da tempo truppe in proprio, fu risolto nell’utilizzare con i cristiani metodi e sistemi sicuramente più brutali di Decio e meno persuasivi di Aureliano e Probo, anche senza arrivare a vere e proprie stragi come spacciato dai martirologi. Perché poi nel frattempo demoliva fra gli altri anche l’importanza del Sodalizio degli Augustali, aggiungendovi o sovrapponendovi il culto statale dei Gioviani e degli Erculei che caratterizzava la Tetrarchia: entrambi s’intende servitori di un Sol Invictus sempre alquanto indistinto, se non in una indiscutibile interpretazione: anche a questo andava giurata pia fidelitas, ma alle spicce, con confische e requisizioni ai renitenti.
I cristiani insomma per Diocleziano erano nient’altro che un ceto reticente abbastanza ricco e influente da entrare nel consueto tritacarne Imperiale quando si doveva far cassa ed esigere fedeltà ridistribuendo cariche.
Costantino evidentemente ritenne invece che convenisse farsi alleato quell’avversario cocciuto, e del resto a lui dei Gioviani e degli Erculei interessava ancor meno che di Ario e Atanasio: lui puntava a diventar Magno, e non Divo, e quello cristiano era il partito più potente che potesse supportarlo verso quell’obbiettivo, come infatti lealmente ha fatto nei secoli successivi.

Apré Julianus le delugee

L’ordine rimesso da Costantino nel disordine poliarchico succeduto immediatamente dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, tornò in fibrillazione alla sua morte e finché Costanzo il giovane non ebbe eliminato o fu sopravvissuto a parenti e concorrenti. Avrebbe eliminato anche il ribelle Giuliano, non fosse morto appena prima di morte apparentemente naturale.
Giuliano – tramandato alla posterità dal curioso appellativo di “Apostata” opposto a quello che in effetti era e sentiva d’essere – al di là dello spessore umano indubbiamente singolare e alle sue personali ferree credenze in una Religione unificante di stampo esoterico ancor più che ellenistico, politicamente si trovava ormai condizionato dalla predilezione del suo predecessore per gli Ariani sui Niceni, quando tutto l’Occidente – cristiano s’intende – era compattamente niceno, e l’Oriente – pure, ma più diffuso – prevalentemente ariano.
È impressionante come in soli trent’anni dalla morte di Costantino e cinquanta dal Concilio di Nicea, il Cristianesimo da antagonista fosse diventato protagonista della conduzione dell’Impero. E nel frattempo, tre generazioni di credenti cristiani erano cresciute nell’adorazione rabbiosa di quelle precedenti perseguitate che avevano generato gli eroici Martiri.
Questo spiega le violenze che già al tempo di Giuliano connotavano le dispute religiose e che portarono alle oscenità della fine di Ipazia e dei roghi nei boschi sacri, tutte comunque coinvolte nel generale malessere economico che stava montando in un Impero – e in un Mondo – in crisi d’insicurezza costante e crescente.
Giuliano governò cinque anni come Cesare d’Occidente in Gallia – governo prima essenzialmente teorico, alla fine prevalentemente militare, nel mezzo autorevole e illuminato come legislatore – e uno e mezzo come Dominus, nel quale emanò una quantità di decreti e rescritti impressionante, tale da far pensare che quei cinque anni in Gallia fossero stati effettivi da Cesare che volesse divenir Augusto, e Dominus vero.
Che ci credesse o meno, a quel partito dominante, turbolento e diviso che era il Galileo, Giuliano voleva contrapporre una analoga struttura utilizzando forse il culto degli Augustales coordinato a quello del Sol Invictus, assieme, davanti o a fianco di qualsiasi concorrente e antagonista potesse opporre a quella minoranza prepotente che si ostinò sempre a definire “Galilea” o “seguace del Galileo”
Si trattava comunque, all’atto pratico, di dar meglio da mangiare attraverso i templi urbani a quanta più gente possibile, in un certo senso, che attraverso le comunità eucaristiche. Da qui lo scannamento di tanti buoi e la circonvenzione di tante galline…

Ad limina infidelibus

Come se ci fosse stata una effettiva regia politica, anche se non la provoca come da relativa leggenda, il Cristianesimo reagisce decisamente alla morte di Giuliano.
Gioviano, l’immediato successore, è un uomo d’emergenza; Valentiniano e suo fratello Valente – capostipiti della dinastia esiziale per Roma – furono uomini di paglia.
Flavio Valentiniano era un soldataccio iracondo che delle beghe interne della Respublica non voleva saperne, Valente un inetto vanesio che provocò il collasso principale del sistema difensivo Romano sul Danubio non solo per la disastrosa sconfitta di Adrianopoli, ma anche per la corruzione e il malgoverno che avevano portato i Visigoti a diventare da popolo richiedente accoglienza in nemico organizzato, ormai interno. Graziano, figlio e successore di Valentiniano, era un ragazzetto bigotto, coraggioso soldato, pavido Imperatore che chiamò a suo aiuto Teodosio, suggerito da chissà chi, eh…
Graziano fu il primo Augusto legittimo a deporre il Pontificato Massimo, a mio avviso fu il primo vero Imperatore Cristiano.
Teodosio fu una sorta di Imperatore a servizio del Cappellano di Mediolanum, Ambrogio, e dal complotto di loro due cominciò la storia vera del Cattolicesimo, e del Cristianesimo politico tutto, con gli Editti e i brutali Rescritti del 391…

Ab pontifices ad Pontefice

Mentre subito dopo il 400 Onorio celebrava l’ultimo trionfo Romano su non si sa bene chi, probabilmente il primo e unico con simbologie solamente cristiane e che non si chiudeva sul Campidoglio o sui Rostri, ma in Vaticano, e faceva irrobustire di qualche metro in alto e in largo le mura aureliane, in Gallia si stavano per fare i conti con la rotta di Magonza – la breccia attraverso la quale le tribù Franche e i popoli germanici si riversarono definitivamente oltre il Reno – e dalla Britannia si ritiravano le ultime truppe legionarie per tamponarla, e pure la Spagna veniva abbandonata a se stessa per lo stesso motivo.
Dieci anni dopo i Visigoti di Alarico misero a sacco l’Urbe per la prima volta dal tempo di Brenno ottocento anni prima, più o meno giusti giusti, e quarant’anni dopo ancora fu la volta di quello ben più disastroso dei Vandali di Genserico. Tutti ariani, fra l’altro, ovvero para-ortodossi, in un certo senso, come pure gli Ostrogoti di Teodorico.
Anche se gli ultimi inutili Augusti dell’Impero d’Occidente furono effettivamente “Romani” e Senatorii dopo più di un secolo a quella parte, erano pure cattolici, perché ormai a Roma l’autorità costituita più efficiente era la struttura elemosinaria del Patriarcato. Il Vescovo di Roma utilizzò pure per qualche tempo i Palazzi Palatini come sede di rappresentanza, ma poi si assestò in quelli Laterani, più nuovi e funzionali avendo fatto parte del Palatium Sessorium di Costantino.
Non mi è ben chiaro quando i Vescovi di Roma cominciarono ad assumere il titolo di Pontefici Massimi, dalla rinuncia di Graziano del 375 alla abolizione di Teodosio del 391, probabilmente qualche decennio dopo. Sarebbe una storia interessante, che io al momento non saprei dove trovare.
Però è indubbio che nella Roma che dal milione di abitanti del tempo di Costantino sarebbe passata ai trenta-cinquantamila di due secoli dopo, la Chiesa ormai trionfante dopo aver ben maramaldeggiato recuperasse dalle spoglie del nemico tutto ciò potesse essere funzionale al benessere spirituale del popolo, convinto a forza di spinte ad essere Cristiano. Le terme erano ormai irrecuperabili dal 535, i templi degli antichi dei ormai inutili da molto più, i palazzi e le ville urbane crollanti, ci si poteva consolar e trovar conforto solo nelle chiese.
È anche vero che i primi Vescovi venivano eletti dal consorzio dei fedeli, e altrettanto i Pontefici al tempo della tarda Repubblica, e che nell’alto Medioevo ci fu una bella sfilza di Papi Pontefici scandalosi e mascalzoni da far invidia al basso Impero, tutti nobili o presunti tali mentre quei poveri successori della plebe romana, superstiti di tanta gloria manifesta nei ruderi imponenti, pretendevano di formare un Comune a loro volta, come il Mondo Occidentale un tempo Romano si accingeva a fare.
Carlo dei Franchi, Magno pure lui, venne incoronato e consacrato Imperatore dei Romani a Roma nella notte di Natale dell’800. Ci teneva tanto che qualche anno dopo lasciò circolare la voce che gli fosse stato imposto, per non irritare ulteriormente l’impotente Basileus di Costantinopoli. Nel ritorno, era ancora in Umbria quando quella primavera uno spaventoso terremoto atterrò definitivamente i fori imperiali e gran parte degli edifici abbandonati ancora in piedi che aveva visitato ancora un quarto di secolo prima, dopo due e mezzo di abbandono o riutilizzo senza che un Imperatore Romano si preoccupasse più di loro.
A dispetto o conferma di tutte le forme, la sostanza diceva che la Storia di Roma antica e della sua originaria religiosità era definitivamente finita, cominciava davvero quella della Roma cristiana medievale, e andrà avanti ancora per un po’, con altri Sodales e altri Augustales, o meglio Papales…

3 commenti:

  1. Ih! troppa grazia sant'Antonio!
    Scherzo, ovviamente. Grazie per avermi accontentata, gli ho dato una scorsa rapida e me lo rileggerò con la calma e l'attenzione che merita.
    Auguri di buone feste e soprattutto di un nuovo anno migliore! <3

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  2. Conosci la mia amica Enza Cavallero, ampelografa?
    A parte questo incipit-off-topic, il tuo luuuuuuunghissimo articolo me lo sono bookmarkato e quando mi sentirò in vena lo leggerò assai volentieri, nel frattempo che palle 'sta storia "perché i laici festeggiano il natale?"!!!
    Personalmente mi sono stufato di sentirmi in dovere di giustificarmi, al posto comunico l'idea che io NON sono a-qualcosa (tipo a-teo) ma semplicemente "normale", sono quelli che obbediscono ai comandamenti degli amici immaginari ad essere "stramboidi"!
    Aspetto con ansia il capodanno ed il carnevale, per chiedere agli stramboidi perché mai festeggino tali eventi, dopo avermi criticato per i aver fatto i regali di natale!
    A me non me ne frega una cippa nè di Gesù ne del Sol Invictus, per convenzione in quei giorni non si lavora e tanto basta per mettermi nelle condizioni di spirito di festeggiare! :D

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    1. Io sì che la conosco (e saluto, buon anno!) ma non avrei mai immaginato che fosse un'ampe--quella-roba-lì.
      Per le feste noi pastafariani abbiamo una regola semplice: quando è festa per qualcuno è festa anche per noi.
      & vist la stagione: buon anno!(nèh!).

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