Le date si sa, sono simboliche. Quelle di inizio epoca o era poi, non ne parliamo… anzi, parliamone.
Perché è di questo che si sta parlando tanto in questi tempi
di attesa chiliastica, di quando mai è cominciata un’epoca e di quando mai ne
comincerà un’altra, e allora io ne approfitto – e approfitto della benevolenza
di eventuali contradditori – per togliermi il sassolino dalla scarpa della data
d’inizio del Medioevo.
Quell’altro, quello passato, non quello che presumibilmente ci attende…
MA QUALE 476!
Cosa era ancora Roma, quando il 9 Dicembre 1289 (536) il
generale Belisario vi entrò con cinquemila soldati probabilmente Isaurici dalla
Porta Asinaria?
Per tutti nel Mediterraneo e subito attorno, un simbolo e un
problema. Per i Romani, ancora la
Città , l’Urbe, impoverita dei suoi beni e della Maestà ma non
ancora lesa nella sua maestosità.
L’ultimo Imperatore dinastico ad averla onorata di una
visita era stato Onorio con un farlocco trionfo, proprio in quell’anno 1153
(400) dalla fondazione in cui i barbari sfondavano definitivamente sul Reno.
Per un’altra settantina d’anni i Romani de Roma avevano di
nuovo provato a fare gli Augusti propri, casarecci diciamo, con quel che
rimaneva del Senato e con le intrusioni sempre più forti del Vescovo di Roma,
astutamente spesso in contrasto con quello di Costantinopoli per farsi
definitivamente benvolere.
Ma con quell'ultimo fantoccio di Romolo, il piccolo Augusto,
era bene che nel 1229 (476) anche le insegne imperiali se ne fossero andate
definitivamente nella Nuova Roma degli Augusti, l’Urbe sarebbe rimasta comunque
Urbe anche senza di loro.
Un primo colpo, però, l’Urbe l’aveva preso quando nel 1083 (330)
Costantino aveva offerto ponti d’oro a quei Senatori che avessero accettato di
trasferirsi nella Nova Roma, ma forse più sentito nei convivi e nelle
celebrazioni forensi che alle terme o ai circenses.
La botta del 1163 (410) era stata dolente più per l’orgoglio
che per i danni o le ruberie dei Visigoti, quella del 1203 (450) decisamente
più pesante, perché quei pirati dei Vandali distruggevano per puro sfregio
oltre a portar via qualsiasi cosa scintillasse, e per la prima volta da molti
secoli dei Cittadini Romani venivano schiavizzati e deportati in quanto tali
dalla loro Città, per essere venduti o fatti scambio in Africa.
Tuttavia, con i Goti di Teodorico era tornato un po’ di
rispetto per la Città
a cui tutti loro dovevano la legittimità su quelle terre al di qua dei grandi
fiumi, circolavano solo meno soldi e c’era sempre più scontento perché c’erano
sempre meno giochi e sempre più scadenti, ma l’Urbe era sempre grande e sozza
come suo solito, alle prese con un’inondazione o un terremoto o qualche
sommossa quando mancava il pane.
Pane che cominciò a scarseggiare sempre più spesso da
quando, dopo la morte di Teodorico, Giustiniano si mise in testa di rivendicare
coi fatti di essere l’unico Imperatore Romano, e i Greci Romanoi invasero la Sicilia con Belisario.
I Romani de Roma, quelli cittadini della Roma di allora
ormai ibridati con tutti come stampo originale ha sempre voluto, probabilmente
erano perplessi, di fronte a quel Belisario Magister Militum di un Impero che doveva essere anche il loro ma di cui ne capivano a fatica le parole, che del resto accolsero
festosamente.
In soli due anni costui era riuscito a debellare il regno
pirata dei Vandali che da ottant’anni taglieggiava l’afflusso del grano
africano, contro cui s’erano arrotati i denti tre generazioni di sempre più
deboli capitani navali dai tempi di Maggioriano e Genserico e le loro immense
flotte in fiamme in poi. Non era ancora chiaro che quel grano era destinato a
Costantinopoli piuttosto che di nuovo a Roma, non era ancora evidente che la
“riconquista” romaneia dell’Italia era la riannessione di una vecchia provincia
e non la “liberazione” dei Latini da un qualche presunto padrone barbaro.
Per la Corte
di Giustiniano, Latini o Goti o Eruli, contava solo chi spettasse pagar le
tasse.
Per Belisario, forse, non era solo così.
Flavio Belisario era un Illirico di circa quarant’anni, già
famoso generale in Oriente contro i Parti. Uno stampo di soldato d’altri tempi,
insomma, degno di quelli già non più tanto gloriosi di Diocleziano: l’Illirico
rimase fino all’invasione slava un nucleo forte di tradizione “italica”, e così
doveva esserlo la cultura di un ragazzo vocato all’esercizio del comando con
spirito di servizio, anche a quei tempi magri.
Forse, entrando in Roma e prendendo subito a rafforzarne le
difese settentrionali, era davvero convinto di esser là per difendere l’Urbe e
difenderne i suoi abitanti dagli abusi dei Goti, come aveva difeso gli abitanti
di Nisibis dai Parti e come aveva difeso quello smidollato di Giustiniano
stesso durante la rivolta di Nika, a dire il vero lì calcando un po’ la mano sugli
abitanti di Costantinopoli, ma solo e sempre per dovere istituzionale.
Difficile che fosse comunque molto interessato al benessere
di chiunque, se non forse dei suoi soldati, tanto più che eran così pochi: gli
altri – pochi comunque anch’essi: il sesto secolo dell’era volgare era molto
vicino al culmine di quella regressione demografica dovuta alla Piccola
Glaciazione che proseguì fino all’undecimo – erano sparsi in piccoli gruppi per
la penisola, a tagliare i collegamenti dei Goti e a prender possesso degli
archivi municipali: quelli da cui risultava quante tasse dovesse pagare
qualsiasi terreno del municipio, se non addirittura chi in quel momento.
Anche i Goti erano pochissimo interessati al benessere degli
abitanti di quella superba città, imbroglioni quando non ladri, mendicanti
abituali abituati a pretendere, pretendere a prescindere, da chiunque passasse
per la loro sozza Urbe, in nome della quale tanto sangue dei loro padri era
stato sparso.
Quindi, quando vennero a sapere che Belisario per entrare a
Napoli aveva deviato il corso di un condotto ed era passato per l’acquedotto,
gli ufficiali di Vitige pensarono bene di fare lo stesso con tutti gli
acquedotti che rifornivano Roma, trovando però già frane e voragini provocate
dai soldati di Belisario al momento di mettersi nelle condotte ancora grondanti.
E, improvvisamente ma con l’inesorabilità di un incubo, nel
corso del 1290 (537) le piscine delle terme divennero cisterne di scorta
d’acqua potabile, poi acquitrini malsani, le fogne s’intasarono, le fontane
prosciugarono.
Quando nel Marzo 1291 (538) Belisario uscì da Roma per la Porta Pinciana per inseguire i
Goti in ritirata e rifilargli qualche calcione di stizza, la Roma Classica – forse non il
concetto per cui lui e i suoi soldati parlanti dialetti greci erano lì a
combattere, ma il concetto che abbiamo noi di un certo modo di vivere – aveva
cessato di esistere: per quanto alcuni acquedotti venissero parzialmente
rimessi in funzione, l’epoca delle terme iniziata da Agrippa al tempo di
Augusto era finita per sempre, rimaneva solo la maestosità, sempre più
marcescente.
Per l’Urbe, come per l’Orbe tutt’attorno, cominciava
un’altra Storia.
Molto interessante, Un saluto
RispondiEliminaGrazie. Son quelle pieghe trascurate della Storia che forse racchiudono più significati...
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