martedì 18 febbraio 2014

PRIMA DEL MEDIOEVO PROSSIMO VENTURO CI FU... L'ALTRO


Le date si sa, sono simboliche. Quelle di inizio epoca o era poi, non ne parliamo… anzi, parliamone.
Perché è di questo che si sta parlando tanto in questi tempi di attesa chiliastica, di quando mai è cominciata un’epoca e di quando mai ne comincerà un’altra, e allora io ne approfitto – e approfitto della benevolenza di eventuali contradditori – per togliermi il sassolino dalla scarpa della data d’inizio del Medioevo.
Quell’altro, quello passato, non quello che presumibilmente ci attende…

MA QUALE 476!

Cosa era ancora Roma, quando il 9 Dicembre 1289 (536) il generale Belisario vi entrò con cinquemila soldati probabilmente Isaurici dalla Porta Asinaria?
Per tutti nel Mediterraneo e subito attorno, un simbolo e un problema. Per i Romani, ancora la Città, l’Urbe, impoverita dei suoi beni e della Maestà ma non ancora lesa nella sua maestosità.
L’ultimo Imperatore dinastico ad averla onorata di una visita era stato Onorio con un farlocco trionfo, proprio in quell’anno 1153 (400) dalla fondazione in cui i barbari sfondavano definitivamente sul Reno.
Per un’altra settantina d’anni i Romani de Roma avevano di nuovo provato a fare gli Augusti propri, casarecci diciamo, con quel che rimaneva del Senato e con le intrusioni sempre più forti del Vescovo di Roma, astutamente spesso in contrasto con quello di Costantinopoli per farsi definitivamente benvolere.
Ma con quell'ultimo fantoccio di Romolo, il piccolo Augusto, era bene che nel 1229 (476) anche le insegne imperiali se ne fossero andate definitivamente nella Nuova Roma degli Augusti, l’Urbe sarebbe rimasta comunque Urbe anche senza di loro.

Un primo colpo, però, l’Urbe l’aveva preso quando nel 1083 (330) Costantino aveva offerto ponti d’oro a quei Senatori che avessero accettato di trasferirsi nella Nova Roma, ma forse più sentito nei convivi e nelle celebrazioni forensi che alle terme o ai circenses.
La botta del 1163 (410) era stata dolente più per l’orgoglio che per i danni o le ruberie dei Visigoti, quella del 1203 (450) decisamente più pesante, perché quei pirati dei Vandali distruggevano per puro sfregio oltre a portar via qualsiasi cosa scintillasse, e per la prima volta da molti secoli dei Cittadini Romani venivano schiavizzati e deportati in quanto tali dalla loro Città, per essere venduti o fatti scambio in Africa.
Tuttavia, con i Goti di Teodorico era tornato un po’ di rispetto per la Città a cui tutti loro dovevano la legittimità su quelle terre al di qua dei grandi fiumi, circolavano solo meno soldi e c’era sempre più scontento perché c’erano sempre meno giochi e sempre più scadenti, ma l’Urbe era sempre grande e sozza come suo solito, alle prese con un’inondazione o un terremoto o qualche sommossa quando mancava il pane.
Pane che cominciò a scarseggiare sempre più spesso da quando, dopo la morte di Teodorico, Giustiniano si mise in testa di rivendicare coi fatti di essere l’unico Imperatore Romano, e i Greci Romanoi invasero la Sicilia con Belisario.

I Romani de Roma, quelli cittadini della Roma di allora ormai ibridati con tutti come stampo originale ha sempre voluto, probabilmente erano perplessi, di fronte a quel Belisario Magister Militum di un Impero che doveva essere anche il loro ma di cui ne capivano a fatica le parole, che del resto accolsero festosamente.
In soli due anni costui era riuscito a debellare il regno pirata dei Vandali che da ottant’anni taglieggiava l’afflusso del grano africano, contro cui s’erano arrotati i denti tre generazioni di sempre più deboli capitani navali dai tempi di Maggioriano e Genserico e le loro immense flotte in fiamme in poi. Non era ancora chiaro che quel grano era destinato a Costantinopoli piuttosto che di nuovo a Roma, non era ancora evidente che la “riconquista” romaneia dell’Italia era la riannessione di una vecchia provincia e non la “liberazione” dei Latini da un qualche presunto padrone barbaro.
Per la Corte di Giustiniano, Latini o Goti o Eruli, contava solo chi spettasse pagar le tasse.
Per Belisario, forse, non era solo così.

Flavio Belisario era un Illirico di circa quarant’anni, già famoso generale in Oriente contro i Parti. Uno stampo di soldato d’altri tempi, insomma, degno di quelli già non più tanto gloriosi di Diocleziano: l’Illirico rimase fino all’invasione slava un nucleo forte di tradizione “italica”, e così doveva esserlo la cultura di un ragazzo vocato all’esercizio del comando con spirito di servizio, anche a quei tempi magri.
Forse, entrando in Roma e prendendo subito a rafforzarne le difese settentrionali, era davvero convinto di esser là per difendere l’Urbe e difenderne i suoi abitanti dagli abusi dei Goti, come aveva difeso gli abitanti di Nisibis dai Parti e come aveva difeso quello smidollato di Giustiniano stesso durante la rivolta di Nika, a dire il vero lì calcando un po’ la mano sugli abitanti di Costantinopoli, ma solo e sempre per dovere istituzionale.
Difficile che fosse comunque molto interessato al benessere di chiunque, se non forse dei suoi soldati, tanto più che eran così pochi: gli altri – pochi comunque anch’essi: il sesto secolo dell’era volgare era molto vicino al culmine di quella regressione demografica dovuta alla Piccola Glaciazione che proseguì fino all’undecimo – erano sparsi in piccoli gruppi per la penisola, a tagliare i collegamenti dei Goti e a prender possesso degli archivi municipali: quelli da cui risultava quante tasse dovesse pagare qualsiasi terreno del municipio, se non addirittura chi in quel momento.

Anche i Goti erano pochissimo interessati al benessere degli abitanti di quella superba città, imbroglioni quando non ladri, mendicanti abituali abituati a pretendere, pretendere a prescindere, da chiunque passasse per la loro sozza Urbe, in nome della quale tanto sangue dei loro padri era stato sparso.
Quindi, quando vennero a sapere che Belisario per entrare a Napoli aveva deviato il corso di un condotto ed era passato per l’acquedotto, gli ufficiali di Vitige pensarono bene di fare lo stesso con tutti gli acquedotti che rifornivano Roma, trovando però già frane e voragini provocate dai soldati di Belisario al momento di mettersi nelle condotte ancora grondanti.
E, improvvisamente ma con l’inesorabilità di un incubo, nel corso del 1290 (537) le piscine delle terme divennero cisterne di scorta d’acqua potabile, poi acquitrini malsani, le fogne s’intasarono, le fontane prosciugarono.
Quando nel Marzo 1291 (538) Belisario uscì da Roma per la Porta Pinciana per inseguire i Goti in ritirata e rifilargli qualche calcione di stizza, la Roma Classica – forse non il concetto per cui lui e i suoi soldati parlanti dialetti greci erano lì a combattere, ma il concetto che abbiamo noi di un certo modo di vivere – aveva cessato di esistere: per quanto alcuni acquedotti venissero parzialmente rimessi in funzione, l’epoca delle terme iniziata da Agrippa al tempo di Augusto era finita per sempre, rimaneva solo la maestosità, sempre più marcescente.

Per l’Urbe, come per l’Orbe tutt’attorno, cominciava un’altra Storia.

2 commenti:

  1. Risposte
    1. Grazie. Son quelle pieghe trascurate della Storia che forse racchiudono più significati...

      Elimina