venerdì 12 febbraio 2016

I TEMPI CHE SI AGGIRAVANO IN QUEI GIORNI


In questo post faccio largo uso dichiarato delle considerazioni portate da Andrea Carandini nel suo ROMA Il Primo Giorno, anche se nel precedente ho anticipato l'impresa di Alba per esigenze logiche, più che di narrazione. Comunque, ne farò probabilmente massiccio uso nel prossimo.
Mi scuso per tutte le imperfezioni narrative o oscurità interpretative e ringrazio preventivamente chi avesse la bontà di segnalarmele: questi sono più che altro appunti che stilo per me stesso, pezzi di mosaico che per me stesso sono pezzi di puzzle. Malta, più che altro, insomma...

E VENNE IL TEMPO DI OGNUNO

La piccola banda di Remo e Romolo, che rispetto a prima dell’azione di Alba Longa si era molto ingrossata, ma in fin dei conti non era che un grosso seguito di giovani banditi intimiditi da un luogo che già da molte generazioni aveva qualcosa di sacrale, era arrivata al Septimontium forse nell’autunno già inoltrato dell’anno precedente alla fondazione di Roma.
Si era probabilmente predisposto per loro un piccolo accampamento di capanne provvisorie in quella conca mal esposta eppure protetta dalle intemperie che divideva le due parti del Campidoglio, e lasciati ad aspettare che i loro capi, i due Prescelti, venissero informati su cosa si voleva loro facessero.
Non prima, però, che avessero ben compreso la situazione, una situazione che del resto, logisticamente e strategicamente parlando, i due Gemelli cresciuti sulle pendici lupercali del Palatino, conoscevano bene.
Ma mentre Remo e Romolo – come erano stati battezzati dal nonno Numitore licenziandoli da Alba Longa come Rex potenziali – venivano istruiti su ogni particolare significativo sacrale dell’auspicio augurale che erano destinati a prendere e manifestare, nello stesso tempo venivano plausibilmente coinvolti e in qualche modo compromessi con tutte le varie fazioni che spingevano sull’una o sull’altra soluzione.
Due erano le situazioni che si prospettavano, due gli antagonisti, due i colli. Due, forse, i mesi per istruire gli Augùri designati e gli interpreti delle loro percezioni. Gli Aruspici etruschi, aspettavano pazienti i Tubilustria, l’unzione delle trombe bovare che precedeva le Parilia, le feste per la nascita degli agnelli.


I colli son Monti e i monti son Colli

In quegli anni, nei mesi attorno a quelle Parilia che avrebbero segnato la nascita di Roma, se il Destinato, comunque si fosse chiamato prima di esser denominato Romolo, si fosse seduto su una delle tante rupi del Palatino prospicienti la valle acquitrinosa che sarebbe poi stata il Foro, guardando verso la bassa cortina boscosa screziata di vallecole e bozzi dei Colli che sarebbero poi stati definiti fatali, lontanamente dominata dall’immanente contorno del Monte Albano, avrebbe visto un pacifico agglomerarsi qua e là del fumo di piccoli villaggi di qualche decina di case, separati da frutteti a vigna e piccoli recinti, orticelli, boschi cedui, olivi nei punti più riparati. Villaggi di capanne apparentemente tutte uguali, dimensioni a parte, fra loro e a quelle dell’Età del Bronzo a cui ancora appartenevano, in disposizioni non casuali ma sempre più complesse man mano che le prime famiglie si arricchivano con i servizi ai commerci del guado.
Era quello il Septimontium che richiedeva un Giudice, un Protettore, un Capo, non necessariamente una Guida. Era l’addensarsi di posizioni a macchia di leopardo sempre più vicine al guado di tutti gli interessi coalizzati per averne il controllo: colonie di Sabini, di Latini, di Osci, di Equi, di Volsci, tutti più o meno infiltrati da consiglieri Etruschi fra le famiglie più abbienti, su tre dita di una mano distorta e scarnificata – il Quirinale, il Viminale, l’Esquilino – che producevano varie nocche – il Pincio, il Cispio, l’Oppio, il Fagutal, la Velia. E naturalmente le unghie: il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino, col grosso pollice del Celio. Poi c’erano i colli Gianicolari al di là del guado con i loro esuli Umbri e Falisci sospinti dagli Etruschi, ma non erano, strettamente parlando, Septimontium.
Ed era destino che quelle piccole comunità strettamente interconnesse, dopo varie generazioni impegnate a insediarsi e integrarsi, spesso smazzolandosi a vicenda in piccole battaglie scatenate da risse per il miglior accesso a fonti, boschi cedui e fruttiferi o piccoli pascoli in cui si riversavano centinaia di contadini strappati dai campi a suon di tube, pifferi e cornamuse, a un certo punto cominciassero a sentirsi più sodali fra loro che con i popoli originari, sparsi fra i monti Tiburtini e ancora più su.
Probabilmente già da qualche generazione avevano preso l’uso di radunarsi, i loro anziani capi villaggio rappresentanti piccole tribù interconnesse da vincoli familiari che sarebbero divenute le Gens, in un punto comodo da raggiungere per tutti a valle dei loro villaggi, e questo era fra una fonte sulfurea che poi sarebbe diventata il Volcanal e il bordo dello Spinon, il torrente che – non ancora Cloaca Maxima – si scavava faticosamente il percorso di drenaggio di quella che sarebbe poi diventata la Suburra, ma ora era ancora una spianata acquitrinosa di orti, prugni, meli, cespugli di pruni, more e bacche, olivi, fichi, viti arrampicate agli alberi cedui nel primitivo arbustum italicum.
Nell’ansa creata dal fosso e poi interrata da una delle tante piene del Divo Tevere con cui il Genius dello Spinon doveva combattere per arrivare a sfociarvi, una sorta di anfiteatro naturale sarebbe stato poi trasformato nell’imbuto dei Comitia, e poco più in là un altare in pietra nera segnava il punto in cui tutti sacrificavano per avere il consenso dei propri Dei ad aver ragione nella discussione.
Il Lapis Niger, sarebbe poi stato così conosciuto, ma per altri e successivi motivi, lì ai piedi del cocuzzolo irsuto che coronava una sorta di dorso cespuglioso, incorcato in una sella che poi sarebbe stata colmata dal Tabularium – la conca dell’Asylum dove ora è la piazza michelangiolesca – e inarcato in quella piattaforma che poi sarebbe diventata l’acropoli di tutta Roma, coronata di querce: il Campidoglio.
Seduto su una rupe del Germalo, che del Palatino era il blocco più grosso, diviso dal resto di blocchi e lapilli cespugliosi e di folte querce storte da una profonda forra tellurica, invero una piccola valle sboccante nella grande valle Murcia, l’eventuale Fondatore avrebbe potuto osservare sia il conciliabolo di Notabili che gesticolavano per meglio intendersi nei linguaggi similari a dialetti spesso incomprensibili, sia l’affollarsi di commercianti in un scorcio di foro Boario dall’altra parte, verso il Tevere che, da lì, pareva sciacquare contro il Campidoglio. Per quanto più lontani, avrebbe potuto comunque intuire il loro analogo gesticolare, con l’analogo motivo: avevano bisogno di una lingua comune. E possibilmente scritta, per poter supportar una o qualche Legge. Cosa che non sarebbe successa prima di altri trecento anni.

Perché non due da subito?

Non sappiamo nulla sulla vera personalità dei due Gemelli, ammesso che dobbiamo riconoscerne l’avvenuta esistenza. Non sappiamo se accettano di impersonare, per indole o per convinzione, o per sottilmente concepito gioco delle parti, le due principali pulsioni del Septimontium per condizionare il futuro di quella Città che sono chiamati a dirimere sul come fondare. Tuttavia, si può intuire come Romolo avesse un’indole più volitiva, Remo dovesse essere piuttosto il contrappeso ragionante in una diarchia carismatica fin lì dominante le loro azioni.
Ma ora, gli è richiesto di dirimere su una questione che non possono condividere: Aventino o Palatino.
In realtà le opportunità per continuare a governare assieme, come avevano fatto con la loro banda di ora perplessi compagni, scegliendo assieme il sito della stessa Città, ci sarebbero, per quanto vacue: una fondazione di rito sabino, cardinale più che orizzontale, senza mura come da tradizione spartana, come a Sparta avrebbe compreso il Governo di due Re. La possibilità, se pur presa in considerazione per uso scolastico, nel Volcanal doveva suscitare alquanta ilarità, se non indispezione nei Sabini stessi, che Aventino o meno, se due dovevano essere i Re, uno almeno doveva essere Sabino.
Il rito di fondazione, però, non poteva essere Sabino, né Latino, né Greco: il concilio di più o meno Saggi del Volcanal aveva deciso che sarebbe stato Etrusco. O meglio, misto, che era quel che meglio sapevano fare gli Etruschi.
Roma doveva nascere multietnica, poligenica, inclusiva, moltiplicante, se ne rendessero conto o meno i Padri Septimontici. E gli Etruschi avevano dimostrato, attraverso i riti Rasna fusi con quelli Aborigeni, di saper come fare ad augurare ed auspicare tutto ciò attraverso l’Ars Aruspicina.

E Perché l’Aventino e perché il Palatino

L’Aventino, per le ultime due generazioni e qualcosa in più, probabilmente aveva preso un grosso fascino per via della sua disponibilità a tracciare comodamente i presupposti di una città greca. Diviso in due pianori da una morbida conca, uno più stretto e poco più alto, uno largo, piatto tanto da ospitare ormai già piccoli poderi a farro, frutti e biade. Facilmente fortificabile. L’acropoli e l’agorà fatte e finite, già prima di costruirci qualsiasi cosa. La sua vista sui sacri monti Albani la migliore che tutto il complesso del Septimontium offra, tranne che dal Monte Sacro oltre l’Aniene, che ne faceva da termine estremo.
Il Palatino è un trocco piatto vasto la metà del solo Aventino maggiore, diviso in due pianori più simili per le dimensioni che diversi per altezza da una stretta valle, comoda per far precipitare rapidamente uomini armati nella valle Murcia e da lì ovunque, incombente sul Velabro come sul Volcanal.
L’Aventino, anche il solo Maggiore o il solo Minore, è più grande, più comodo, più adatto per insediarci già di primo acchito una Città, rispetto al Palatino. Meglio difendibile, pure, se adeguatamente munito fin da subito di più cinte di potenti mura, ciclopiche magari, su tre lati col quarto protetto dal Tevere.
Ma appunto questo tutti sanno e nessuno vuole. Nessuno, né sul Septimontium né altrove attorno, vuole una nuova Troia, sul Tevere invece che sullo Scamandro. Tutti, Etruschi compresi, vogliono una cittadella fortificata ben organizzata ma comunque eventualmente conquistabile con ogni mezzo approvato dagli Dei qualunque siano, per definire una volta per tutte da dove si sarebbe esercitato il controllo sul guado da allora in poi.
Tutti sanno che il posto prescelto sarà il Palatino, l’unico dei Monti del Septimontium a non ospitare ancora villaggi, se non quelli dei Lemuri. Ma tutti accettano la farsa rituale, e confermano la decisione di utilizzare l’Aventino stesso per determinare quale dei due sarà il Fondatore, e quindi quale dei due il Colle fatale.

Sta di fatto che…

Non sapremo forse mai se Remo fosse convinto o sospinto nella scelta del greco Aventino, e nemmeno se la decisione di utilizzarlo per gli Auguratoria che dovevano dirimere su chi fra lui e Romolo sarebbe stato il Fondatore sia stata una concessione alla sua causa o a una tradizione che non conosciamo.
Di Romolo possiamo essere abbastanza convinti che avrebbe comunque scelto il Palatino: tutta la sua Storia seguente di scaltro guerriero e goffo legislatore lo dimostra, e in fondo di quello i Padri del Septimontium oscuramente sentivano di aver bisogno: un Capo. Ma non necessariamente un governante.
Sta di fatto che all’alba di un giorno di fine inverno che i Sacerdoti dei vari Culti interessati all’avvenimento avevano determinato come il primo del nuovo anno al quindici di Marzo, i due Gemelli si trovano in posizione gelidamente ieratica ognuno seduto sul proprio scranno di pietra nel punto focale del proprio Auguratorium, probabilmente coperto ognuno dal manto sacrale assegnatogli, incappucciato di pesante e puzzolente lana, agitanti goffamente il proprio lituo nel tentativo di dar senso al Templum aereo che devono collegare a quello segnato dai nove cippi dell’Auguratorium, con l’ancora indistinto punto focale dell’Ara di Giove Laziare sul Monte Cavo a far da riferimento per stimare correttamente la direzione di volo dei primi uccelli che sarebbero entrati in quel campo visivo, alla fine probabilmente delimitato dalla tesa del cappuccio.
Remo stava sul punto più alto dell’Aventino Minore, o monte Murcio, Romolo su quello più alto dell’Aventino Maggiore, un po’ spostato ma alla stessa altezza, a circa un chilometro di distanza in linea d’aria. Entrambi a poco più di venti metri di altezza dal suolo delle valli e dall’alveo del Tevere.
Più o meno, si sa come andò: Remo vide i suoi uccelli per primo, Romolo ne vide di più, e i sostenitori del Palatino acclamarono a gran voce che andavano dalla parte giusta, mentre quelli di Remo andavano perlomeno storti, se non addirittura dalla parte opposta. Questo non piacque ai pur numerosi sostenitori di Remo e dell’utopica Città sull’Aventino, e si scatenò una rissa. Nella quale, Remo probabilmente si prese una mazzata in testa e schiattò.

Dopo i Tubilustria, le Parilia

Quando, pochi giorni dopo, durante il giorno in cui – da concorde decisione dei Sacerdoti dirimenti – per il calendario di quell’anno cominciano i Tubilustria, la lustrazione rituale delle trombe belliche, e Romolo scaglia la sua lancia di corniolo dall’Aventino contro il Palatino per iniziare i riti fondativi con una dichiarazione di guerra simbolica ai legittimi proprietari di quel luogo, Remo è già morto e sepolto.

Non avrebbe comunque mai saltato quel fosso, secondo me, quando ancora un mese dopo, in coincidenza con le Parilia che celebrano la nascita primaverile degli agnelli, Romolo comincia a scavare il solco, per proteggere il quale avrebbe scannato altro che agnelli…

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