mercoledì 24 febbraio 2016

SINECISMI E DINTORNI


IL LITUO DI ROMOLO

Gli Argivi pastori di Evandro e il povero Pallante

È un’altra alba, verso la fine di Marzo – il mese dedicato a Marte, l’inizio della stagione atta alla guerra oltre che l’inizio del nuovo anno stesso, la ripresa di ogni cosa dopo la stasi dell’inverno – quando Romolo dichiara guerra ai legittimi possessori del Palatino, per impossessarsene ritualmente.
Di legittimi possessori, in effetti, non ce n’è, se non metafisici e da affrontare metaforicamente, quindi appunto ritualmente. Il Palatino è infatti un monte cruciale, intersezione di troppi interessi, per cui coperto da una sorta di maledizione alimentante una voluta superstizione.
I suoi legittimi possessori dovrebbero essere Argivi, discendenti degli esuli Greci che avevano seguito Evandro subito prima della Guerra di Troia. Dopo aver accolto, consigliato e supportato Enea, Evandro morì lasciando una enclave di Arcàdi spocchiosi, che non confondendosi con gli Aborigeni italici dei Rutuli  o altri parenti di Turno, si erano pian piano estinti senza partecipare al sinecismo con cui si coagulava Roma attraverso il Septimontium.
Inizialmente, gli Argivi di Evandro erano parsi alteri pusillanimi, pacifici pastori dai lenti pensieri, e le scaramucce al fianco di Enea del disgraziato giovane Pallante contro l’altrettanto disgraziato rutulo Turno non erano servite gran che a cambiare il punto di vista degli ancora radi abitanti dei Colli sul Guado. Pochi, spocchiosi, autosufficienti nella loro lurida Pallantia, la città un tempo di Evandro ma quando mai di Pallante, se non per cuore di padre?
Sedici o diciotto generazioni a ingropparsi fra di loro, esclusivamente fra di loro – poche decine piuttosto che poche centinaia, fra maschi e femmine – quando non con le povere pecore che con le capre non conviene, avevano portato i Pallantei a divenire prima sozzi, impuri, estranei pazzi, intoccabili paria mostruosi da buttare a fiume quando li si trovava fuori dal loro recinto, infine Lemuri sempre più rari, popolanti ancora, forse, il Pallantino.
Il compito di Romolo, in quella ancora gelida alba di passaggio fra inverno e primavera, mentre si palleggia il giavellotto di corniolo fra le mani per riscaldarsi, è appunto di farlo divenire Palatino, purificandolo con una guerra simbolica ai fantasmi, prima di poterlo far divenire Roma.

Pian d’un pas e ragioniamo: Sinecismo, che è?

Ma fermiamoci e riassumiamo, prima di inoltrarci nelle misteriche ore che precedettero la fondazione di Roma vera e propria, che si prolungarono per giorni, probabilmente per tutto il mese che precedette le Parilia di quell'anno.
Le piccole tribù transumanti per la penisola diecimila anni fa, dopo cinquemila si erano definitivamente stanziate in giro per l’Appennino, e assorbendo le continue piccole invasioni che l’inquieto Mondo Mediterraneo spediva per terra e per mare, divenivano piccoli Popoli e per gemmazione poi piccole Nazioni.
Da tempo immemorabile si era scoperto che in determinati periodi dell’anno – in piena estate in genere, o in inverni eccezionalmente freddi o secchi – a valle di una certa isola nel Tevere si apriva un largo e basso guado, atto a far passare i primi commerci bovini, salini, utensili, da nord a sud e da sud a nord.
Nel decimo secolo prima dell’Era Volgare, sui colli che sovrastavano il guado i piccoli Popoli erano divenuti abbastanza popolosi da avere lì parecchi villaggi, sempre più popolati, che però essendo sempre più contigui e di converso mal collegati con le piccole capitali montane cui teoricamente dovevano seguire le istruzioni, generazione dopo generazione si sentivano sempre più solidali fra loro piuttosto che con i reverendi Padri dei loro Popoli di discendenza.
Chi più chi meno, naturalmente.
I Sabini sono i più incombenti perché i più uniti: occupano una vasta zona fra il Guado e l’Umbria, ben innervata dalle piste del sale che si diramano dalla valle del Tevere fino al crinale con la costa adriatica, e questo li mette in condizione di mantenere stretti rapporti tribali coloniali con i villaggi sul Guado.
I Latini sono i più numerosi, anche se proverbialmente litigiosi fra di loro e con tutti: più pastori-cacciatori che cacciatori-pastori come gli originari Sabini (che affermavano di discendere dagli Spartani, e perciò allestivano le loro città senza uso di mura), i Latini hanno una forte identità religiosa centrata sui Monti Albani e la potenza di un santuario ben organizzato, aperto ad ogni influsso per quanto vagliato dai Sacerdoti Re di Alba Longa.
I villaggi Sabini occupano interamente il Quirinale con l’escrescenza del Pincio che domina il ramo ripario della antica Salaria e buona parte del Viminale, quelli Latini scendono dalle vie Tuscolane fino sul Celio e l’Esquilino, salgono da quelle Pontine fino all’Aventino e alla Velia.
In mezzo, fra il Viminale e l’Esquilino, qualche sparuto villaggio di Equi, di Marsi, di Ernici che si chiedono cosa stanno a far lì e lo chiedono più o meno rassegnatamente ai piccoli concili di anziani che governano le loro comunità di sempre più lasca appartenenza, lassù fra le montagne e in mezzo alle valli.
Generazione dopo generazione, ogni villaggio di quelle escrescenze sempre meno boscose e sempre più affollate – poche centinaia di anime ognuno, poche decine per colle, sette o più come li si vuol contare fra Colli e Monti – cerca di correlarsi con gli altri attorno piuttosto che continuare a pestarsi i comuni confini.
Sinecismo è il suo nome: la convergenza verso un interesse comune che crea una Comunità, e quindi poi per comodità di tutti, una Città.
Il Septimontium è il sinecismo di Roma: il punto di incontro più vicino per tutti è sotto al colle cornuto che infatti si chiama Capitolium, presso una fonte sulfurea denominata Volcanal, presso il più antico dei loro sepolcreti ancestrali comuni, vicino al corso dello Spinon, che raddrizzato dalle sue anse – una delle quali sarebbe diventata i Comitia – dovrà divenire Cloaca Massima (a cielo aperto) solo con i Re Etruschi.
Ma appunto gli Etruschi sono il problema principale degli Anziani che si riuniscono nel Volcanal già da qualche generazione, al tempo di Romolo.
Gli Etruschi erano arrivati proprio più o meno quando si stavano rassodando gli interessi Sabini e Latini attorno al Guado. Prima dell’anno Mille ante Era Volgare le popolazioni oltre la ripa settentrionale del Tevere erano ancora sostanzialmente Aborigene, solo con gli Umbri si aveva una contaminazione orientale attraverso i Piceni, vicini al mare e quindi grecizzanti.
Gente pacifica gli Aborigeni, placidi allevatori piuttosto che tignosi commercianti, pittorescamente esoterici, finché non erano arrivati i Tirreni, che nel corso di un paio o due di generazioni, avevano svuotato di uomini con la forza o con il miraggio di una miglior vita tutta la Foresta Sacra dal lago Vulsino alla costa su cui avevano fondato le città ferriere, e nel corso delle seguenti si erano messi in espansione, giungendo fin quasi ai Colli Gianicolensi al di là del Tevere: da qualche decennio infatti, forse un paio di generazioni, a monte del Guado sul Tevere, meno di una dozzina di miglia sull’altra sponda, era sorta Veio.
Tutti i Patres del Septimontium, da quel momento, avevano saputo che il loro compito era costituire una analoga città da quella parte del Guado, e da un paio o più di generazioni si discuteva sul come farlo.
C’erano quei tre montarozzi a sovrastare il Guado, a monte e a valle: il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino.
Il Campidoglio sarebbe il locus più adatto a una fortezza munita di guarnigione per il controllo del Guado, ma non per una vera e propria città, spezzato in due corni – uno acuto più alto, l’Arx, e uno piatto e leggermente più basso, il Capitolium – dalla profonda incassatura dell’Asylum; l’Aventino sarebbe il locus più consono a una vera e propria acropoli di una città che volesse estendersi a valle del Guado, volgendo però le spalle al Septimontium: solo il Palatino racchiude coi suoi due mammelloni del Pallatium e del Germalus entrambe le esigenze.
E siccome per esigenza di cose il Campidoglio era divenuto il monte sacro per tutti gli abitanti del Septimontium come degli abituali traversatori del Guado, piccolo santuario speculare del Monte Albano latino come del più indistinto Soratte sabino, sede pure da qualche tempo di un Auguratorium Aruspice etrusco sulla cuspide più alta dell’Arx, la scelta per il nucleo fondatore della città che per compiere il sinecismo avrebbe dovuto compattare tutto il Septimontium era forzatamente fra Palatino e Aventino.
Ma per l’appunto, l’Aventino era un Colle destinato a voltare le spalle al Septimontium, e i maggiorenti del Septimontium avevano già voltato le spalle a Remo quando era stata inscenata la presa di auspici dei due Gemelli qualche giorno prima.

Tirem innanz…

Romolo non ha più pensieri né per gli auspici presi quel giorno né di quelli appena presi al tramonto e all’alba, mentre palleggia quell’asta di corniolo fra una mano e l’altra per riscaldarsi, mentre l’aria si fa sempre più chiara, mentre attende che il primo raggio di sole scocchi dal sacro Monte Albano.
Si trova sul più basso sperone dell’Aventino, dominante la valle Murcia, una distesa paludosa di fossi che da generazioni drenavano la terra per gli orti che rifornivano di ortaggi le taberne e gli ostelli per i bovari, i pecorai e i mercanti di passaggio sul Guado, e quindi fornita di un tratturo per carri tutto attorno per quanto era lunga.
Si trova a un centinaio di metri dalla base delle Scale di Caco, un sentiero che invece di assecondare le pieghe delle rupi del Palatino, le aggredisce dove necessario con gradini scavati alti nel tufo pur di arrivare dritta sulla cima del Germalo.
Si trova, in effetti, a pochi passi dalla grotta lupercale dove è stato allevato diciannove anni prima, e a pochi altri in salita verso la capanna di Faustolo dove è cresciuto fino a che non s’è illuso di potersi gestire da solo la propria vita, assieme al gemello Remo e agli altri figli di Nessuno in cerca di una propria Itaca, dopo aver messo a sacco quella Troia di Alba Longa.
Ma i mesi passati presso Numitore e quelli poi venuti al Septimontium, hanno convinto ormai Romolo di essere erede di Enea, piuttosto che di Ulisse come invece aveva continuato a voler credere fino alla fine Remo. Perciò Remo era caduto come Turno, o almeno così si doveva far credere e pensare.
Tutto ciò ha poca importanza, ora.
L’asta di corniolo è uno strumento più di gioco sacro che da guerra: legno di pruno leggero, vola lontano ma non si conficca facilmente, sta nella lavorazione del bilanciamento e dell’affilatura della punta che si trova il dono segreto dell’Arte divina.
E l’asta di corniolo di Romolo vola ben lontano quando il fatidico primo raggio di sole si scaglia dal Monte Albano, mentre le tube e i corni raccolti in attesa dell’alba si intonano cacofonicamente per tutto il Septimontium a celebrare il Tubilustrium, o meglio i Tubilustria, alla ricerca di un accordo comune.

Fiorì il corniolo?

Certamente non era miracolosamente fiorita, l’asta di corniolo, quando Romolo e tutto il seguito sacerdotale e popolare che doveva sicuramente seguirlo la raggiunsero, nei pressi – pressi quanto? boh, abbastanza: quel tanto che bastava – della capanna di Faustolo, ma probabilmente era in piedi ben conficcata dovunque fosse, e magari bilanciata dai rametti che Romolo le aveva lasciato con le foglie adeguate, poi si adeguò politicamente il miracolo, ovviamente.
La vecchia capanna del povero Faustolo doveva fungere da prima Regia per la futura Roma, e come tale venne conservata finché la venerazione per Roma rimase tal quale, ma la disposizione della futura Città Quadrata ne doveva essere indipendente.
Essendo stata indicata dai Latini la data delle Parilia come fausta per l’evento, avendo i Sabini accettato che la Città avesse mura – ma basse, non in alto – Romolo non aveva molto altro da fare in quel mese se non assuefarsi alle istruzioni metodiche etrusche e alle metodiche lamentele di chi gli doveva preparare il terreno per tracciare il solco del fatidico pomerio. Come fosse abitabile il Palatino, da quando era bambino lo sapeva già: una affascinante distesa di sterpi giallastri e cespugli di mirto divorati dalle capre, intervallata da querce e squarciata da un vallone boscoso che s’allargava sulla valle Murcia.
In questo periodo Romolo è un Re senza effettivo regno, perché il territorio di sua competenza non è ancora stato delimitato. Il mandato conferitogli dal sinecistico consiglio del Volcanal è di dare un perno a una organizzazione del Septimontium che gli permetta di contrastare efficacemente la già più potente Veio.
La stessa Veio è frutto di un sinecismo di villaggi un tempo Falisci, ora pienamente Etruschi, ma gli Aruspici che istruiscono Romolo sono probabilmente di un altro ramo Rasna, tarquiniense se non vulcino, che pare difficile Veio conferisse alla erigenda rivale i suoi segreti sacrali.
Che sono complicatissimi comunque, dovendo in più integrarsi con le esigenze sacrali Latine di coincidenza con i Sacri Laziali, oltre che alle prescrizioni notturne Sabine.

Il lituo di Romolo

Prima della terza alba cruciale di questa storia, Romolo esce dalla piccola capanna che ha sostituito quella eccessivamente grande e fatiscente di Faustolo il Porcaro, e si porta in quella contigua maggiore, doppia, dove poggiano i simulacri di Marte e di Ops, la Dea dell’Opulenza. Sacrifica, poi s’inerpica verso il pianoro soprastante, verso l’auguratorium sullo sperone più alto fra Palatium e Germalus dove per il primo raggio di sole proveniente da Albano doveva esser pronto a fissare il templum celeste, da cui sarebbero stati fissati i primi confini tellurici dell’Urbe.
Il lituo a quello serve. Il lituo, non solo quello Etrusco, giustifica con le sue volute una geometria celeste ben definita, e a questa funzione può aggiungere quella di emettere un afflato sacro se modellato in forma di flauto.
Così, probabilmente, era il lituo di Romolo: un flauto dalla lunga e stretta impugnatura di legno cavo a becco d’anatra o di qualche uccello sacro avesse il becco confacente, innestato in un breve manico bronzeo che si assottigliava e si appiattiva in una falce ritorta a chiocciola, cava e bucherellata a sua volta.
Quel 21 Aprile, mentre l'alba prende a punteggiarsi dei primi fuochi dei falò delle Parilia attraverso i quali i pastori balzeranno fino a sera, le spirali del lituo di Romolo probabilmente tangevano alcune stelle – un’ultima Venere, un basso Marte, un tardivo Giove, chissà – mentre il cielo si tingeva di rosa, e quando i raggi dell’Apollo retrostante lo Zeus Latino sorsero dietro il Monte Albano a cancellare tutto, Romolo vide chiaramente i punti attorno al Palatino dove avrebbero dovuto sorgere le porte, ancor prima che le mura.
E allora portò il lituo alle labbra, e sussurrò nel flauto il Nome Segreto di Roma. Che è, notoriamente, Amor. Ma forse no: Diva Angerona punisce i profanatori del Nome Segreto, che segreto non è.
È rimasto gentilmente nascosto per generazioni e generazioni successive, finché Roma è stata la Roma di Romolo, in un gioco per bambini, per farli star zitti e andare a letto: la Diva Angerona e la Roma-Amor.
E il segreto del Nome Segreto di Roma, che è Roma, ma solo insufflato nel lituo di Romolo potrà produrre il suono esatto, la esatta pronuncia del suo essere, Amor.

E il lituo di Romolo, chissà dove è finito…

3 commenti:

  1. Salto i convenevoli; ormai si sa cosa penso di questi post.
    Ma in me c'è --come dire-- la necessità di dirlo, davvero non ce la faccio a trattenermi, porta pazienza: "[...] le Parilia dell’anno Zero".
    Ecco, devi definire Zero, usato anche oltre. In via del tutto informale come suggerimento (ma il mio eloquio è quello che è) proporrei "della Fondazione", ma forse si può fare di meglio (anzi, quasi sicuramente).
    Tutto questo in attesa di vedere il destino di questa start-up; sai ne nascono tante ma quante ce la fanno?

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    1. Era superfluo, infatti. Discendeva da qualcos'altro che volevo dire e poi ho omesso, perché al momento superfluo pure quello. Grazie: ho eliminato e fatto qualche altra piccola modifica, di cui mi scuso.

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    2. Niente scuse, anzi! Sono partito da quello per deformazione professionale ma era un modo giocoso (noi diciamo LOLloso).
      Adesso rileggo (con piacere), in attesa della prossima puntata.

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