domenica 28 febbraio 2016

RATTI E SABINE

IL PRIMO RE DI ROMA FURONO DUE

La Roma Quadrata, o circa…

Quando gli ultimi dardi di Apollo barbagliano dietro le creste dei monti Sabazi e Vulsini e i falò sacrali delle Parilia cominciano a spegnersi in dense volute di fumo appetitoso, Romolo è forse lì sullo sperone più alto del Palatium a godersi il primo tramonto della nuova Città, piuttosto che alla piccola capanna che gli fa da provvisoria e simbolica Regia, nell’angolo opposto di quel dado spaccato che era il Palatino.
Poco prima ha chiuso il tracciato delle mura alzando per l’ultima volta l’aratro nel segnare la Porta Romanula, poco lì sotto, da dove si distaccano i due sentieri che diventeranno il clivus Victoriae e il clivus Palatinus. L’ha fatto altre due volte, nel corso di quella faticosa giornata, per lasciare intonsa la soglia delle altre Porte, la Ruminalis* vicino alle Scale di Caco e la Mugonia a mezza costa della bassa Velia, che sarebbero state consacrate diversamente.
Il terreno gli è stato ovviamente accuratamente preparato, che invero dietro a lui seguivano già tutti gli uomini abili del Septimontium con zappe, pale e picconi, ad allargare il solco e a porre le fondamenta del muro, e del resto il terreno dal sacello di Larunda al sacello degli Argei era sì in lieve ma inutile discesa verso il Velabro, però colmo di sassi e cocci pallantei che intralciavano il puntone bronzeo del vomere e frenavano la placida coppia bianca, il toro all’esterno del solco e la vacca all’interno, che trainava l’aratro rituale.
Ma Romolo sapeva bene cosa aspettarsi: oltre il sacello degli Argei, verso l’imbocco delle Scale di Caco dove aveva alzato per qualche metro una prima volta il vomere, la pista stessa adeguatamente predisposta aveva guidato i bovini sacri lungo la base del Germalo per la valle Murcia, in una terra molto più morbida, quasi quanto quella della lieve salita dopo la sepolta ara di Conso che aveva portato bovi sacri, aratro sacro e Re sacro attaccato a tutto ciò, più che conducente di tutto ciò, in cima alla Velia. Qui si era rischiato un incidente rituale, perché i poveri animali, ormai assetati, avevano mostrato propensione più per la china che portava al pantano dove sarebbe poi sorto il Colosseo che per la Via Sacra, appena accennata come tratturo fra i radi cipressi che punteggiavano il da poco dismesso sepolcreto dell’antico Septimontium.
Però Romolo era riuscito a non perdere il controllo del puntone e dover fare una Porta dove non la voleva, a costo di farsi scivolare dal capo il cinto gabino a suon di urla, e due secchi d’acqua avevano ricondotto bovi e sacramentario tutto di nuovo verso il sacello di Larunda, e infine al sacrificio dei sudati bovi sacri sulla Porta Romanula, a chiudere il cerchio quadrato.
Un paio di migliaia di metri, una sorta di quadrato sbilenco, che le mura si incaricheranno poi di tracciare almeno dritto, ma c’era voluto quasi tutto il giorno. E questo ci porta a pensare che la lunghezza effettiva della originaria cinta di mura della Roma Quadrata dovesse essere di uno iugero lineare, osservato dal punto di vista dei Sabini, che con Tito Tazio seguivano tutto quel formicolio dal Quirinale.

Romolo accelera il passo

Formicolio che cominciò subito a farsi frenetico fin dai primi giorni successivi, perché Romolo aveva avuto tutto il tempo, fra un imbonimento e l’altro di tutti gli imbonitori del Septimontium e circondario Etrusco o Greco o Latino che fossero, di redigere un piano per un Progetto assieme ai suoi, ai sodali che aveva via via trovato lungo la sua breve ma già lunghissima strada.
Il problema più impellente era su come effettivamente popolare la Città, ma non era il preminente, per Romolo e per chi più strettamente gli stava attorno. Sì, vabbè le donne, ma non era procurarsi le donne il punto per i prischi Romani. Erano le loro doti, il Punto, e le loro doti erano terre coltivate, che avrebbero continuato a coltivare i loro padri finché un giorno chissà. E ai loro fratelli tutto ciò non sarebbe piaciuto per niente, ovviamente.
Quello era il Punto, perché se il Septimontium voleva una cittadella di guerrieri a sua scorta e garanzia, doveva mettere quei guerrieri nelle condizioni di sostenersi, dovendo costoro occuparsi di altro che della cura dei propri campi, o meglio di quelli delle proprie mogli e quindi suoceri e cognati e altre genti variamente imparentate.
Era una logica che, nonostante tutti gli strappi alle tradizioni che provocava, gli Anziani del Volcanal non potevano in coscienza confutare, ma che a fratelli, cognati e cugini, considerate le pretese dei Romani, pareva di latrocinio.
Latrocinio che avrebbero anche mandato giù pur fra mille brontolii, se proprio nel giorno dei Consualia i Sabini non avessero improvvisamente alzato la scusa che fece da primo casus belli della Storia di Roma.




Ratti e Sabine nella Valle Murcia

Per millenni la valle Murcia aveva fatto da cassa d’espansione del Tevere, che piena dopo piena ne aveva fatto una valle alluvionale palustre, trovando comunque più comodo passare attorno all’Aventino piuttosto che incunearsi nel pertugio fra questo e il Celio. Poi, quando piena dopo piena anche l’ansa superiore allargata e dragata dall’isola Tiberina si riempì di sassi allargandosi come un embolo su entrambe le ripe e creando il Guado, gli abitanti del Septimontium avevano cominciato a drenarla e bonificarla per un unico motivo con due ragioni.
Pianta attuale del centro di Roma: per seguire un poco il racconto, la Vallis Murcia, tra Aventino e Palatino, è ora nota per il Circo Massimo costruitovi sopra, il torrente Spinon si trovava tra il Quirinale e l'Esquilino
Il motivo era l’aumentare anno dopo anno, generazione dopo generazione, della transumanza di piccole ma numerose mandrie bovine dirette verso lo stagno su cui sarebbe poi sorto il Colosseo, o direttamente verso la via Campana come le sempre più numerose piccole carovane di muli dei mercanti, le ragioni erano mantenere rotabile anche dai carri quella pista calpestata da tanti zoccoli, e coltivare ortaggi e allevare maiali per rifornire quelle carovane, alla fine o all’inizio o a metà delle loro strade.
Non erano grandi mandrie, spesso un capo solo, ma sempre maestoso: allora come ora gli allevatori si scambiavano il sangue ancor prima che l’animale in sé, la genetica da rimonta per il continuo rinforzo di razze non solo da lavoro, ma anche sacrali.
E non erano grandi commerci: il principale era il sale dalle saline poste – purtroppo – a ovest della foce del Tevere. Attraversato il fiume su piccole chiatte mentre i bovini, nei dedicati periodi dell’anno determinati dalle secche stagionali, riuscivano a passarlo con l’acqua appena sotto al gorgio, i muli degli acquirenti Sabini imbastiti di sacchi di sale grezzamente macinato sbarcavano sul Velabro per indirizzarsi subito verso la piana palustre del Campo Marzio e incamminarsi sul primo tratto della via Salaria sotto al Pincio, per poi cominciare a distribuirsi nei vari diverticoli montani già alla vallata dell’Aniene.
Però, da cinque o sei generazioni, forse qualcuna in più, c’era da sud a nord anche un sempre più fiorente commercio di coppe, vasi, anfore, quando prima non si erano visti più che utensili di metalli sempre migliori, condotti su muli più che su carri quanto più delicate le merci fossero, ma comunque il problema delle piste carrabili cominciava a farsi impellente, e lo sarebbe rimasto per secoli.
I mercanti di stoviglie erano quasi tutti Greci, che si erano fatti un quartierino a modo loro sulle pendici meridionali dell’Aventino prospicienti il Tevere con un proprio piccolo approdo, quelli di utensili prevalentemente Etruschi anche da prima di definirsi Tirreni, e gli piaceva ritrovarsi nelle taberne della valle dello Spinon a monte del Velabro, scavate nelle grotte ai piedi dei due Colli.
Gli esuberanti bovari invece si fermavano nella spianata puzzolente creata dallo sfociare dello Spinon fra Campidoglio e Palatino, attorno all’Ara di Ercole – un gigantesco masso crollato da tempi immemorabili dalla rupe soprastante il Lupercale – a offrire i capi migliori, quando non unici, e a ostentarne i pregi.
La valle dello Spinon – in cui al tempo di Romolo non c’era ancora forse il Vicus Tuscus, che forse però si stava già formando – i bovari la trovavano stretta e incombente, per non parlare della gente spocchiosa che si trovava oltre, nella angusta vallecola sfondata verso quegli artigli spelacchiati costantemente fumanti dei pomposamente definiti Monti del Septimontium.
Ma subito oltre l’Ara di Ercole e il sacello degli Argei, la valle Murcia offriva, lungo le due piste ben battute che divergevano ad arco di cerchio pur procedendo parallele per i piedi del Palatino e dell’Aventino, per poi separarsi dopo un migliaio di passi, ogni povero ma allegro divertimento che i tempi e i luoghi garantissero.
Però, considerando giuste le rimostranze di chi gli faceva osservare come ogni rifornimento di ortaggi, formaggi, carni e salumi poteva arrivare alle bancarelle della valle Murcia dal Septimontium meglio che da quei quattro orti e quattro porci rimasti là, Romolo aveva sgombrato tutti, rimesso decisamente mano ai drenaggi e alla bonifica dell’acqua Murcia – il ruscello fangoso che ricomparve poi nel Medioevo – per ottenere una enorme arena naturale di prati intervallati da alberi, boschetti, laghetti, in cui celebrare i principali ludi campestri comuni al Septimontium, a cominciare dai Consualia, terzi nel tempo del suo regno.
I Consualia erano i ludi rituali Latini e Italici di chiusura della trebbiatura, quando veniva fatto censo al Dio Conso del sunto effettivo della raccolta. Allora, nella atavica cerimonia di spartizione secondo Diritto Divino, si stabilivano pure matrimoni e doti. Soprattutto doti.
Maritare le donne del Septimontium con i più o meno nerboruti seguaci di Romolo aveva significato per le rispettive famiglie, comunque prescelte da quel destino rio, aspri litigi e notti insonni, sotto ogni punto di vista. Però si doveva fare, e in qualche modo s’era fatto, con molte urla e notti insonni anche fra i consiglieri più o meno richiesti di Romolo.
Le confarreatio erano state sottoscritte, aspettavano solo che i Sacerdoti riuniti si riunissero e fissassero il giorno della Festa giusta per essere depositate presso l’Arx Capitolina, dove gli Etruschi col loro ben noto senso pratico stavano allestendo un archivio pubblico per tutto il Septimontium.
Nelle intenzioni di Romolo, le Consualia di quel terzo anno di Roma sarebbero state un enorme matrimonio di massa, il giorno in cui il Punto si sarebbe fatto Momento, e i Romani sarebbero stati Cittadini con un loro Ager privatus, ossia Pieni Cittadini, i Cittadini Patrizi della neonata Urbe.
Senonché, i Sabini che se n’erano stati stizzosamente silenti fino ad allora, avevano scelto proprio quel giorno per saltar su e dire che la garanzia dell’Arx per loro era nulla, e che era meglio rimandare ad altra data per stabilire altri garanti che gli Etruschi.
Era ovvio a chiunque chi avesse innescato la rissa, e perché. Se per le sue intenzioni fosse andata troppo in là, fu la prima cosa che Romolo e Tito Tazio dovettero chiarirsi svaporato tutto il caos provocato dal Ratto delle Sabine, circa un anno dopo.

Latini Padri di Roma, Sabini Madri?

Ai Sabini non piaceva per niente la piega che avevan preso le cose con Roma. Avevano gettato il loro pugno di terra simbolico nel pozzo sacrale presso la Regia di Romolo il giorno della fondazione assieme ai Latini e tutti gli altri, gli riconoscevano una preminenza teorica nella formazione di una amministrazione civica militaresca del Septimontium – dal quale, millantavano spesso, si potevano astrarre quando volevano, se necessario – ma non volevano certo farsene comandare. Però comprendevano che con uno come Romolo sarebbe stato inevitabile.
Tito Tazio soprattutto lo comprendeva, e comprendeva pure come Romolo non avesse bisogno tanto di briglie, quanto di gorgiera. Senza la provocazione delle Consualia i Romani avrebbero messo le mani a macchia di fegato praticamente su tutto il Septimontium, e le macchie di fegato fanno presto ad addensarsi nell’oscuro accartapecorarsi della pelle, notava Tito Tazio e notavano i suoi consiglieri.
Questo dal punto di vista di Cures e dei suoi Anziani, naturalmente, che data la distanza poco partecipavano alle riunioni nel Volcanal, dove Romolo ogni nundina di mercato spiegava a chiunque con la sua innegabile facondia i suoi mirabolanti piani, e negli intervalli si agitava per applicarli.
Il più personale punto di vista di Tito Tazio era su come manovrare, comunque utilizzare quella potenzialità, sottraendola ai Latini. O almeno bilanciandoli.
Era chiaro come nessun bilanciamento fosse stato previsto per i poteri di Romolo, anche perché non era stato previsto ne avesse alcuno. I Padri volcanali avevano davvero ingenuamente pensato che il comandante di una cittadella fortificata a controllo del Guado si accontentasse dell’insignamento di Rex Sacrorum e poco più? Romolo poi?
Il Potere di Romolo finché non stabilirà lui stesso i delimitatori del suo potere, è illimitato.
Ed è a questo Potere Illimitato che Tito Tazio reagisce, prima con la provocazione del Ratto, poi sinceramente spaventato dalle conseguenze – Romolo da Amntennatae a Ceninum a Crustumerium passa di casa in casa dei promessi suoceri a far valere i contratti di confarreatio seguito da un vero piccolo esercito, e quando Acrone scende fino a Roma con i suoi fabbri e maniscalchi per farlo smettere una volta per tutte, gli rifila una lezione che il povero Acrone può ormai solo discutere per l’eternità con Giove Feretrio, dove Romolo appende le sue armi e panoplie – con tutta la forza che i Sabini possono mettere in campo.
Ma non per attaccare il Palatino, bensì per occupare il Campidoglio.

Il Destino bino

Tarpea o meno, Tito Tazio occupa il Campidoglio non solo con soldati ma anche di sacerdoti addetti agli svariati sacrari che gli abitanti del Septimontium nel corso delle generazioni hanno installato lì, cacciando più o meno cortesemente quelli che già ci sono: se gli viene riconosciuta come prassi una qualsiasi egemonia, l’intero Monte Capitolino, indispensabile simbolo sacrale dell’apertura a chiunque voglia diventare Romano, lì dove c’è l’Asylum dove Romolo ha svernato appena giunto al Septimontium e dove intende creare l’accoglienza per chiunque voglia essere Romano, diviene Sabino, e il culto di Quirino preminente su qualsiasi altro.
Là sotto nel Volcanal, i Padri del Septimontium strillano come pazzi, improvvisamente consci – o forse no, ma avran strepitato comunque – di cosa abbiano combinato portando a termine il compito assegnatogli dagli avi, forse picchiando il capo contro il plinto basaltico del Lapis Niger che sostiene l’antico simulacro del Genius Loci aborigeno.
I Romani sfociano dalla Porta Romanula, sfidano i Sabini a scendere dal Campidoglio. I Sabini scorrono saltellando fra i cespugli del Clivo Capitolino come dalla via Biberatica, si affrontano dalle parti di quel laghetto che poi diverrà il Lacus Curtius, e i Romani si prendono quella suonata di legnate che si meritano, urla belluine di Romolo o meno per farli rifluire verso la Porta Mugonia, dato che era stato tanto bravo a tenere infisso il puntale quel giorno fatale là da non fare una Porta in cima alla Velia.
Ma Tito Tazio non vuole umiliare Romolo, e non gli interessa niente se da Cures gli si chiede – non da tutti, dalla maggioranza – di giustiziare tutti i Romani e di stabilire sul Palatino come sul Campidoglio un presidio Sabino. E poi una cosa è bastonare Romolo e i Romani, altra conquistare Roma ai Latini: facile per assedio, ardua per assalto.
Così, prima in camuffa e poi con grande risalto, Romolo Fondatore e Tito Tazio Tutore si accordano, raccontano e fanno raccontare le cose a modo loro, e prendono a governare assieme, con gran sollievo dei padri del Septimontium e con gran scorno dei Rasna Etruschi, che comunque continuano imperterriti a tramare sottotraccia.
Non regneranno in completa concordia, certo, tanto che dopo la morte di Tito Tazio oscuramente avvenuta a Lavinium cinque o sei anni dopo, Romolo riuscirà a rifilargli la prima damnatio memoriae della Storia di Roma, prendendosene qualsiasi merito, eccetto quello di avergli rifilato una bella suonata.
Che indubbiamente gli era servita, ma non rimase segreta come sperava lui.



*Il nome della terza porta della Roma Quadrata ci è sconosciuto. Io ho ipotizzato che essendo vicino al piede della Scale di Caco e quindi vicino al Lupercal, potesse esserle stato dato un nome riferito al Fico Sacro. Nulla osta, diciamo...

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