L’INSEGUITO DALLA FAMA
“Appena avranno smesso di darti fastidio le mosche, sarai
arrivato” gli aveva detto l’ultimo bifolco Sabino all’ennesima curva che saliva
nel bosco via via meno folto.
Non era stato facile trovare il podere dei Pomponii, e non
che non glielo avessero voluto indicare, i bravi contadini Sabini che aveva
interpellato dopo essersi alzato fin troppo tardi quella mattina, aver
sbocconcellato una lucanica secca e salatissima e qualche boccon di pane e
risciacquato la bocca con un sorso che pensava di posca, ma che invece si
rivelò del vino che Vipsio si era portato dalla fonte sulfurea, probabilmente
allungato con quell’acqua.
Era il classico scherzo da sacerdote che avrebbe potuto fare
un… Romano, aveva pensato Ostio sogghignando fra sé, e ripetendoselo rassegnato
quando, adempiuto agli adeguati stimoli, il vino e la salsiccia gli fecero
venir sete.
“Acqua di fonte, Romano! Noi ci abbeveriamo alle fonti della
terra o straniero delle generose terre Sabine! – gli aveva riso in faccia il
primo pastore cui aveva chiesto da bere, e indicazioni per il campo di Numa
mentre i suoi cani l’annusavano sottomessi ma sospettosi – Laggiù! E il campo
di Numa sta lassù, oltre ai sentieri delle tombe!” indicando alternativamente
il fondo della valle e la costa di una più stretta che vi confluiva poco
distante.
Poi le indicazioni erano state quelle dei bifolchi che
conoscono perfettamente la propria terra ma non la sanno descrivere: da quella
parte, c’è una quercia più grande… una macchia di tigli… una rupe a forma di
muso di tasso, una tomba scolpita così, vedi… sali il ruscello e dopo cento
passi guadalo, il terzo bivio, segui il suonar dei picchi… c’era voluto quasi
tutto il giorno per avere la certezza che quell’uomo dalla lunga barba più
bianca che grigia che lo faceva apparir quasi vecchio, che guidava un aratro
dietro a una coppia di buoi grigi in un podere a lieve pendenza nel mezzo di
una leggera boscaglia, fosse effettivamente Numa Pompilio nel mezzo del cammin
della sua vita, oltre che del suo campo.
E non c’erano quasi mosche.
“Benvenuto sui miei campi, Ostio Ostilio. Ti aspettavo. E
pure da tempo. Solo non sapevo che saresti stato tu: la tua fama ti ha
preceduto di poco” disse Numa appoggiandosi al manico dell’aratro, guardandolo
avanzare circospetto in mezzo alle stoppie.
Tullio storse la bocca in un ghigno rassegnato.
“E chi volevi, Proculo Julo con le sue farneticazioni?
Qualcuno come molti altri con la mente persa dietro alle Ninfe della Palus
Canapia da parecchi anni? – rispose riconoscendo nell’uomo curiose somiglianze
col ragazzetto che gli elencava i sacrari degli Argei trent’anni prima – Ma
forse proprio per questo le sue parole che immagino ben conosci son state
davvero ispirate dagli Dei: mi aspetto quindi che arrivi qui anche Proculo Julo
prima o poi, e non da solo.”
Numa fece un mezzo sorriso, poi indicò una grande quercia al
limite del campo arato ormai per metà, e l’altra ancora stopposa pattugliata da
una dozzina di oche.
Un paio di jugeri, giudicò ad occhio Ostio, forse tre, di
terra grassa ma sassosa. Un bel campo ma duro da lavorare, concimato
saggiamente con letame maturo (da cui le poche mosche, che c’era chi fra i
Latini bagnava di piscione la terra davanti all’aratro per ammorbidirla, e
allora i nugoli…), dai bordi puliti come il bosco ceduo che lo circondava,
ricco di cespugli di asparago, ben curati roveti di more, olmi e alberi da
frutto scalati da viti a intervalli ben regolati cui pendevano grappoli ormai
dorati e pomi ancora verdi. A monte, verso la nascosta rupe di Cures, era roccioso,
e il tronco dritto e slanciato dei pioppi e fortemente potato delle querce
rivelava come le matricine venissero attentamente accudite nella loro crescita
per garantire il giusto legname al momento opportuno; a valle s’ammorbidiva
come la pendenza, invitando a un eventuale allargamento del campo fino all’orto
vicino al ruscello in fondo alla valle, se la Gens Pomponia avesse aggiunto
altre braccia ma altre esigenze non le avessero allontanate, alzandosi poi
ripido a imbuto grigio di olivi fino ai confini bruni del bosco che
s’inerpicavano nell’azzurro ormai stinto.
E dalle pietre che facevano da sedili sotto la grande
quercia frinente che dominava il campo, sola nel coro della conca grigioverde e
perciò dominante rispetto i suoi scuri confratelli che coprivano i cocuzzoli,
si guardava spontaneamente verso il suo sbocco verso la valle del Tevere,
dritto verso Roma, l’Isola Tiberina verde come una mandorla in un giallo gomito
storto.
“Manca ancora molto al tramonto – disse Numa asciugandosi il
sudore con uno straccio di canapa – ma infine volevo arrivare solo alla spalla
del fossetto e molto non manca ancora per arrivare a quella: abbiamo
approfittato bene della pioggia della scorsa notte, io e i miei figli. Le prime
zucche sono ancora da cogliere, ma i piccoli poponi sono già zuccherini, te li
farò assaggiare. Poi dovrei andare nell’oliveto, dall’altra parte della valle,
che i miei ragazzi stanno raccogliendo le olive immature scrollate dallo stesso
temporale. Là è esposto a sud, ed è più protetto dai venti gelidi iperborei, ma
per la grandine c’è solo da invocare con i giusti termini la giusta divinità,
cosa che io ieri non ho evidentemente saputo fare… con la giusta loquacità
avuta per gli Dei di questa parte!”
Forse non quella giusta, pensò Ostio considerando i venti
passi che mancavano ancora al solco per arrivare parallelo agli altri al fosso
di capezzagna del campo, ma doveva averne senza dubbio messa tanta, più che per
fermare il placido bue.
“La tua loquacità con gli Dei è proverbiale qui e quindi in
tutta la Sabina ,
e ben nota anche a Roma – rispose senza trattenere una nota d’ironia – È con
gli uomini che non ti esprimi, né ti vuoi più esprimere giustamente…”
Numa appoggiò la schiena alla quercia e s’attaccò a
gorguzzolo all’otre di pecora con la sua acqua, poi lo passò a Ostio lasciando
cader le braccia, le gocce scivolanti sulla lunga barba sporca di terra e
sudore e lo sguardo volto all’ansa dei colli di Roma.
“Avete accelerato i tempi” disse, atono.
“Non ci sarebbe stata occasione più ideale in chissà quanto
tempo. – rispose fermo Ostio – E da fin troppo tempo. Ne stava preparando una
grossa davvero, per cui non son pronti i tempi, ammesso che lui fosse ancora
l’uomo che non era più…”
“Una guerra? Più grossa delle altre? Romolo voleva rompere
il patto secolare? Voleva finalmente la dimicatio
ultima di Veio?” si scosse sarcastico
Numa.
“Naturalmente, a suo tempo. E creare una flotta. E
riconsacrare Lavinium. E riprendersi pure Alba Longa, per crearvi un santuario
a Remo.”
A questo punto Numa lo fissava con la schiena ben ritta,
distante un palmo dalla corteccia della quercia.
“E il sepolcro di Tito Tazio che fine avrebbe dovuto fare
allora? E Remo chi l’avrebbe divinificato, ammesso si possa deificare per un
qualche motivo?”
“Appunto, Numa Pompilio. Tu.”
“CHI!?”
“E chi altri? Il Rex Nemorensis?”
Numa scrollò la testa sorridendo enigmaticamente, come chi
trovi un incastro in un intrico e non voglia compiacersene troppo.
“Questo dunque era il significato di quelle confuse
interpellanze che mi mandava sull’incidenza del fratricidio nella Legislatura
della Koiné. Che Romolo s’interessasse delle Leggi degli altri per forgiare le
proprie era abbastanza incoraggiante, ma legarlo alla mitologia dei fratelli
omicidi alquanto complesso… comunque poco elegante da parte sua. Però se debbo
interpretare la tua domanda come un’affermazione, Romolo senza questa soluzione
avrebbe potuto cercare risposta e soluzione al Santuario di Diana Nemorensis…”
“Una Lega Latina e Italica volta a conquistare Cuma. Se voi Sabini ci
foste voluti stare, bene. Altrimenti gli Etruschi. Altrimenti pazienza, da soli.”
“Sì, avete fatto bene a fermarlo ora.”
Man mano che il sole scendeva nell’incavo della piccola
valle facendo scintillare il Tevere e il lontano mare confuso nell’orizzonte,
Numa e Ostio continuarono a immergersi nelle schermaglie linguistiche,
semantiche, logiche che li univano e separavano come onde sul bagnasciuga.
Erano – e forse la loro sensibilità legata a tradizioni
millenarie gliene rendeva pure merito – nel punto d’incontro dove la Storia presentava una
biforcazione: Roma doveva guardare a sud, alla Magna Grecia, o a nord, ai
Popoli Italici, posto che alle spalle aveva sempre gli Etruschi, e non solo
quelli di Veio?
Ma la domanda, se mai posta, sarebbe stata malposta: Roma
era un vortice inevitabile, era ciò che stava attorno a lei a dover temere – o
sperare – di esserne prima o poi attratto, e questo fin da prima di Romolo.
Perché quel punto sul Tevere era da generazioni
l’intersezione fra tanti flussi di interessi non solo sul sale tirreno in
concorrenza a quello adriatico, passaggio di mandrie e di greggi, di carri e di
barche, di persone e di pensieri, di merci, commerci e operazioni che andavano
sempre più organizzate, qualsiasi motivo ci fosse perché le cose dovessero
muoversi invece di stare ognuna ferma al proprio posto, come ogni Dio volesse.
Ma questo non lo facevano nemmeno le stelle che
traspondevano il volere degli Dei… ed era proprio studiando e verificando il
loro lento muoversi che c’era chi riusciva a meditare su tutto ciò.
Interrogare gli Dei non significava solo saper interpretare
correttamente quegli ancestrali simboli delle variazioni climatiche attraverso
– anche – il volo degli uccelli da dove a dove quando e perché secondo
condizioni cosmiche strettamente variabili, ma soprattutto come trasferire le
corrette interpretazioni a tutti quelli che avevano a che fare con quel
complesso incrocio in una lingua comune, anche simbolica: una koiné che sapesse
interferire con tutti quelli che cercavano in quei Mani lì immanenti riferimenti
ai propri Numi abituali.
E interrogare tutti i Numi su come orientarsi nel governare
quel che era il varco sul Tevere da quando Saturno, Ercole o chi per loro ci
aveva messo piede la prima volta, sorgeva insomma spontaneo nella mente sia di
Numa che di Ostio, ma mentre Ostio considerava pragmaticamente a spese di chi farlo, Numa era considerato qualcuno
a cui chiedere come farlo, fosse un
ponte, una casa ortogonale, una religione o l’organizzazione di qualsiasi altra
cosa.
Un popolo, magari.
E Ostio era lì per quello, per indurlo a farlo, per Ercole e
per Roma!
“Mamerco! Io e il mio amico passiamo questa notte in città –
gridò Numa al figlio minore che saliva dall’orto ormai nell’ombra – Sarò di
nuovo qui quando il sole toccherà il terzo terminus di ponente. Sapete cosa
dovete fare coi poponi immaturi.”
Prese il cesto di legumi che il ragazzo gli porgeva, indicò
a Ostio il sentiero fra le rocce chiazzate di licheni, poi aggiunse, accennando
alla capanna dallo spigolo curiosamente rigorosamente ortogonale, come si
diceva fossero le celle dei templi Greci ed Etruschi, celata da una pergola di
cespugli di rose e sarmenti di vite rampicanti su un vecchio fico e un antico
ulivo: “E non esagerate. Sapete cosa dovete fare, ma qualunque cosa facciate in
mia assenza, non esagerate.”
Decisamente, pensò Ostio, era un comando sobrio da dare a
chiunque, non solo alla propria prole.
La strada per la città, come del resto il Romano immaginava,
non fu né lunga né aspera se accompagnato da Numa e dai suoi cani cirenei
(dono, si mormorava, degli Spartani di Tarentum), fino alla cima gibbosa che si
prolungava in tre cocuzzoli diretti verso il Tevere e la Tuscia come nocche di un
artiglio verso gli ultimi bagliori del tramonto, dove le capanne si rifugiavano
fra gli alberi ben potati per garantir più ombra di giorno che frutti sul
desco, e alcune melodie di flauti s’intrecciavano nell’aria ormai fresca.
“Pater! – li accolse sulla soglia della capanna più ampia e
più in alto, subito sotto al muro dell’Ara di Quirino Maius, una ragazzina appena pubere in tono di
tedioso rimprovero – Era tempo che rimettessi piede in questa casa! I Sabini
vogliono sempre una decisione da te! A filare non si parla d’altro...”
“Lo so, Pompilia, lo so, non petulare come al solito gli
stessi argomenti… i nostri campi ora vogliono me, lo sai anche tu. – rispose
con un sospiro Numa consegnandole il cesto colmo di baccelli di cicerchie e
lupini da cui spuntava qualche smunta zucchina – Fai piuttosto allestire un
giaciglio per il nostro ospite che viene da Roma, e portar porri e olive e
formaggio e puls farrata nel patio pergolato.”
Alla luce della lucerna appesa a fianco dell’uscio, Ostio
potè intuire uno sguardo di diffidenza e istintiva antipatia, e con un
infantile eppur femminile scrollar di spalle la figuretta velata sparì reggendo
sussiegosa il cesto all’interno della grande capanna perfettamente ovale,
interamente circondata da un portico largo un paio di passi.
“Vogliono te anche d’inverno i campi, Pater! Ma i tuoi
diritti non li avanzi!” non si trattenne comunque dall’ammonire nell’ombra
tagliata dai raggi del focolare penetrale.
“Questa è la casa dei Titii – spiegò Numa in tono rassegnato
aggirando la capanna dalla parte opposta all’Ara, e conducendo Ostio sotto al
portico sostenuto da colonnine di legno scolpite a intagli geometrici, fin dove
cominciava il pergolato di vite i cui grappoli eran appena stati colti per far
bollir la salsa dell’agresto, come testimoniava l’aroma diffuso dal focolare
acceso in uno dei meandri della capanna – I Curiti la considerano una sorta di
Regia perché il Re Sabino di Cures sposa
sempre una discendente femminile dei Titii. Io in effetti la considero casa di
mia figlia.”
“Vedo” rispose asciutto Ostio, affilando lo sguardo nel buio
ormai denso in cui cominciavano a frinire i primi grilli.
Improvvisamente, due luci giallastre illuminarono sotto al
pergolato un basso tavolino con un’orcio d’acqua di fianco a due larghe sedie
sannitiche di vimini, con schienale e braccioli di olivo levigato.
Pompilia e un’altra donna più anziana vi deposero alcune
scodelle e un’anfora di fattura tarentina, mentre un fanciullo più o meno
coetaneo della principessa Sabina reggeva due lucerne.
“Siedi. E sorbisci la puls intanto che è ancora calda”
invitò Numa indicando a Ostio il desco e una delle sedie, e alla figlia con
un’occhiata la porta della capanna.
Con lo sguardo alteramente corrucciato la ragazzina volse le
spalle con uno squillante “Vieni Priscilla!”, la vecchia salutò con un gesto
del capo e il giovane le seguì con un mezzo inchino dopo aver lasciato una
lucerna al centro del tavolino, fra i piatti di porro, olive e formaggio
fermentato spaccato in minuscoli pezzi.
Lo strano sapore della liquida polentina distrasse Ostio dai
pensieri che l’avevano accompagnato lungo la salita: non era solo il
caratteristico tostato delle puls farrate sabine – anche la sua prima moglie la
faceva con quelle farine di semi arrostiti – né il condimento acido di
formaggio misto di pecora, capra e vacca, che lo conosceva per tanti pasti
condivisi con militi Sabini al seguito delle guerre di Romolo. Il sale era
giusto, non eccessivo come nei piatti di chi a Roma voleva manifestar la
propria ricchezza. Mancava qualcosa piuttosto, come di spessore per quanto
fosse piacevolmente speziata di fresche erbe aromatiche che si potevano trovare
solo su quei monti… poi istintivamente comprese: Numa era vegetariano, la puls
era fatta senza brodo, di ossa o di carne, secca o fresca che fosse.
“Vedi se ti conviene berla piuttosto che usare il cucchiaio
– disse Numa come se ne avesse intuito i pensieri – la faccio far così liquida
col farro ben tostato e finemente macinato perché è rinfrescante, oltre che
rinfrancante per via del formaggio ben stagionato. Sostituisce il brodo forte
che apre lo stomaco dei contadini carnivori” concluse in tono che, nell’ombra,
sottintendeva a un sorriso ironico.
“Ogni cosa ha il suo pregio quando si ha fame” concordò
neutro Ostio.
“Questa è la saggezza che mi aspetto da un Romano!”
Il Romano stava per ribattere acidamente, quando lo distolse
un guaito ai suoi piedi.
“Falla pur finire a lui: è l’ultimo a mangiare e il primo a
lavar le stoviglie…” sogghignò Numa abbassando la sua ciotola rotonda al
livello del muso del cucciolo.
“Non mi stupisce non ce ne sian altri: i cani sono carnivori…
come noi.”
“Come voi Romani, intendi?”
“Come chiunque, potendo. Tranne tu, che io sappia.”
“Tu non sai tutto, Romano!”
Ostio sogghignò.
“Infatti è per questo che son qui. E non perché mi illudessi
che sapessi tutto tu. Ma ora una cosa la voglio sapere, perché penso sia mio
diritto.”
Numa sospirò.
“Parla.”
“Da quanto sapevi della morte di Romolo?”
“Da subito, o quasi: passati forse tre giorni.”
“Qualcuno di noi te l’ha fatto sapere, quindi.”
“O qualcuno vi ha visto: nomi non ne avrai da me. In tanti
han visto Romolo scomparire in quella nuvola ai bordi del lacus caprinus, e
tutti davvero credono che sia stato asportato dagli Dei, e aspettano di sapere
quali…”
“Quasi tutti…”
“Chiunque dovesse sapere la realtà, ormai la sa. O la
immagina, è lo stesso. Tutti vedevamo che Romolo ormai aveva esaurito la sua
forza propulsiva, tutti respiravamo meglio per questo, ma la pace che regna da
quasi vent’anni è artificiale: Romolo non era un uomo capace di pace…”
“Né da pace infatti… Rissoso, magnifico duce in battaglia, grande
motivatore, affabulatore quanto nessun altro… ma l’ultima guerra con i Veienti
non ha portato solo le saline e i Septem Pagi del Gianicolo, ci dissanguò pure,
entrambi: quella dei cent’anni non è una Pace, ma una tregua… tecnica.
E aldilà di un carisma devastante quanto la sua sagacia
tattica, non c’è mai stato nulla gran che in più, in Romolo. Non puoi condurre
tutto un popolo come fosse sempre in guerra, confrontarti con gli altri popoli
come se tu stesso fossi il loro Re, e quel calendario… che pasticcio!”
“Va un po’ sistemato, sì…” riconobbe Numa, che l’aveva, per
quanto potuto, ispirato.
“Remo era diverso, più riflessivo e meno impetuoso, forse
più strategico… ma non lo sapremo mai se Remoria sarebbe stata migliore, a meno
di non visitare gli inferi” si lasciò andare Ostio.
“Siamo tutti destinati là, a meno di non venir deificati…
Davvero Romolo avrebbe voluto far consacrare un santuario a Remo sui colli
Albani?”
Ostio si versò quel che pensava vino dall’anfora in una
coppa, ma scoprì che era posca, più aceto che acqua.
Scherzo da sacerdote pensò, ma da sacerdote Sabino, non
Romano…
“Aveva cominciato ad esser tormentato dallo spettro del
fratello già da qualche stagione, parecchie stagioni: dall’inverno successivo
alla vittoria dei Septem Pagi in effetti… c’era chi sobillava il passato
dicendo che avrebbe dovuto inumare Remo nel Mundus sul Palatino invece che
nell’Auguraculum sull’Aventino, interdicendo la costruzione di abitazioni su
quel colle che fa buon controllo sul Tevere, fra l’altro. Per cui altri
suggerivano che quindi doveva riconsacrare tutto anche come fusione con gli
ormai estinti Lemuri di Evandro, i cui ultimi superstiti trovammo lì quando
esplorammo per la prima volta quel colle fessurato.”
“I Lemuri di Evandro! Mi son sempre rammaricato di non… gli
chiedeste se veramente il Mundus originario di Evandro fosse sul Campidoglio e
poi trasferito sul Palatino su pressione di Saturno?” chiese Numa, ferino di
curiosità.
Ostio lo guardò con la severità autorizzata dai suoi venti
inverni più dell’Inseguito dalla Fama, come a Roma alcuni Sabini,
rammaricandosi della sua pusillanimità, chiamavano Numa.
“Sapevano appena parlare una lingua arcaica, con poche
parole riconoscibili. Saran stati una dozzina, a meno non ce ne fossero altri
morti poi nelle loro grotte che nessuno ha ancora esplorato.”
“E come sapete che fossero proprio discendenti di Evandro e
Pallante e non ultimi Aborigeni?”
“Perché ancora veneravano, a modo loro, il Mundus di
Evandro. Che per disposizione di Romolo, alla morte dell’ultimo di quei
disgraziati è stato coperto e nascosto.”
Numa assentì lentamente.
“Continua.”
“Aveva mandato anche a interpellare l’oracolo Sibillino dei
Campi Flegrei. Profezia di sciagura naturalmente. Se, nell’interpretazione di
alcuni, non avesse lasciato tutto così senza osare aprir altre guerre, per
altri se non avesse esumato le ossa di Remo per inumarle nel Mundus originario
di Evandro, per altri ancora pure quelle di Tito Tazio, per altri ancora
entrambi in cima al Gianicolo per garantire l’eternità dei Septem Pagi, per
altri ancora sul Quirinale o sull’Esquilino per…”
“Immagino. – tagliò corto Numa, mugugnando e sputando un
nocciolo di oliva – E immagino pure arrivassero anche una quantità di omaggi e
doni e inviti dalla nuova città Greca che ormai ospita la Sibilla. E la controlla…”
“Bella roba! – annuì Ostio illuminandosi – Originale focese.
Ben sostenuti dalla madrepatria, ci sono andato qualche anno fa… comunque –
continuò tornando serio con un pelo d’imbarazzo – convocò e interpellò anche
gli Aruspici Tusci. I migliori, di Volsinii. Son stati mesi in giro sui colli a
compulsare le are degli Argei e ogni altro punto consacrato del Septimontium,
infine han stabilito che il Mundus originario di Saturno è sul Campidoglio. Ma
si son divisi se sia sul Capitolium o sull’Arx…”
“Oh! Numi…!”
“Però pare concordassero esserci un Mundus di Ercole
nell’Asylum, per quanto non risulti abbia mai inteso voler fondare una città di
vaccari… Romolo li cacciò, perlomeno loro. Ma lasciarono una quantità di
assistenti fra quelli che li avevano raggiunti, diciamo che a Roma non si fa
fatica a trovare un’aruspicina Tuscia in caso di necessità…”
“In più di un senso e a prezzi ragionevoli, suppongo.”
“Naturalmente… Però intanto da Alba arrivavano fervidi
consigli sul come fosse possibile l’affrontare il Rex Nemorensis e inaugurare
un nuovo culto omicida-fratricida erculeo, base di una nuova Lega
Latino-Italica…”
“Nientemeno!”
“Capisci come questa prospettiva potesse allettarlo?”
Numa annuì. Sempre più le schermaglie di provocazioni per
interposta persona degli anni precedenti, e anche gli ultimi confusi approcci
personali, prendevano contorni sia previsti che imprevedibili.
Romolo voleva fondere Latini e Sabini IN Roma. Aveva la sua
logica: anche se Numa non era convinto di condividerla e i suoi compatrioti la
detestavano decisamente, la comprendeva e la trovava in un certo senso
inevitabile. Ma non come, e se dunque
l’idea di Romolo era stata di fondere a forza Latini e Sabini, e per farlo era
disposto a scatenare guerra a chiunque, Greci, Ernici, Etruschi, Equi, Sanniti…
oppure fra sé stessi se necessario… era plausibile.
“Ma il fatto è che Roma non è Latina! – concluse però Ostio,
scuotendolo da vecchi e nuovi pensieri – Non lo sarebbe stata nemmeno se Remo
l’avesse fondata come Remoria sull’Aventino: Roma è quella federazione di
persone che sostituisce quella federazione di popoli che i nostri padri non son
riusciti a fare per generazioni!”
“Questo non solo è giusto! – esclamò Numa battendo una mano
sul bracciolo di vimini – Questo è MOLTO giusto!”
“E in gran parte i Romani sono Sabini. Vecchi Sabini
infiltrati o giovani figli di Sabini e Sabine, e non tiriam fuori ancora la
baggianata del Ratto…”
“So tutto, se mi è stato raccontato il vero – ridacchiò
Numa, grato di poter glissare sull’anzianità dei Sabini – non m’interessa.”
“Ti interessa invece il fatto che del resto ben conosci,
come cioè tutto quello spargimento di sangue fu fatto per tener libero il
Campidoglio dai Romani, come da tutti gli altri fin da quando il prozio di Tito
Tazio aveva stabilito la ridotta sul Quirinale, perché sede delle dispute
ereditarie in Gentes dalle ascendenze miste. Poi si accordarono per mantenerlo
zona neutrale di Auspicio e Aruspicina perché i Tusci di Veio non aspettavano
altro che uno scontro definitivo fra noi per occupare l’Arx e tutto il
Capitolium, bastava meno di un’altra Tarpea ad aprirgli la strada, infine gli
esperti in queste cose son loro...
Ma dopo la morte di Tito - e per una vendetta legata a
un’ingiustizia ereditaria, io glielo dissi a tempo che le questioni di
Giustizia non erano né per lui né per Romolo e di lasciar fare agli Etruschi,
come poi Romolo fece - l’equilibrio si mantiene per volere di non so quali Dei
senza l’assenso ultimo di Romolo!”
“Ero bambino al tempo, anche se poi ho studiato i fatti:
Tito aveva ragione.”
“Hai viaggiato fino a Lavinium? Ognuno dei superstiti o il
suo erede di ogni parte ti avrà raccontato la propria versione, i propri fatti. Gli Atti li conoscono solo gli scriba dell’Arce Capitolina, se li hanno
ancora, in qualche archivio di Veio probabilmente.”
“Che sono Etruschi – colse finalmente il punto Numa – Tu mi
stai dicendo che l’archiviazione di ogni atto giuridico compiuto in Roma viene
curata da scriba Etruschi?”
“E chi altri?”
“E in che lingua?”
“Bella domanda.”
Il silenzio che li colse fu istantaneo, come un vuoto
pneumatico avesse risucchiato la loro consapevolezza in quell’universo infinito
in cui erano racchiusi gli Dei coperti dal manto stellato, che improvvisamente
pareva sbucare da ogni dove in una sfrondata di vento che scosse il pergolato.
“Interessante questione…” borbottò Numa, improvvisamente
spiazzato.
“Riguardante il passato e probabilmente importante in futuro
– incalzò Ostio – al momento meno importante del saper a chi dedicare la nuova
fonte drenata sotto all’Arce, poco più sopra del Volcanal. Le decisioni di
Romolo erano draconiane, nessuna assemblea potrà mai governare così, questo è il problema adesso. Ci vuole un Re. Non come Romolo, ma ci vuole un Re.
Romolo è stato un Re Latino,
autoritario ma fortunatamente baciato dall’autorevolezza, che non è facile da
trovare tanto quanto la misura nell’autorità. I Sabini hanno altre tradizioni
riguardo alla monarchia, forse ora più adatte a far crescere Roma… o deve
comunque un Re Sabino cominciare ad occuparsi dei tanti giovani Sabini che
scappano dai campi e vengono ad arruolarsi nelle Curie di Romolo…”
“Ma ora che Romolo è morto…”
“Appunto: che opportunità avranno tutti quelli che si stanno
dirigendo verso Roma convinti che Romolo gli darà delle opportunità… di vita
almeno, se non di ricchezza? Ieri sera a quest’ora ero in una grotta a
raccontare a dei giovani uomini come al tempo Romolo e Remo ed io e pochi altri
della loro età eravamo come loro stessi adesso, solo che aggredivamo chi sapevamo
aver aggredito per primo. Proteggevamo gli anziani, le donne, i bambini,
colpivamo i prepotenti, risarcivamo i derelitti con i proventi delle nostre
scorrerie. Perché questo ci piaceva! Ci faceva sentir forti assoggettar i
forti, non colpir i deboli! Oltre che esser giusto e approvato dagli Dei.
E ci piaceva irridere i superbi, come Amulio. E quando Remo
venne preso prigioniero dai militi di Alba e ci fu proposto di punire Amulio e
di liberare non solo Remo, ma anche Numitore…”
La sua voce si spense pian piano, e seguì un profondo
silenzio, solo ritmato dal frinir dei grilli e dal grido di qualche assiolo, e
un’upupa lontana che pareva voler rispondere a una civetta inquieta.
Torpido ma vigile, Numa rievocò i rari incontri con Romolo,
che aveva fondato Roma l’anno della sua nascita (lo stesso giorno, affermava
sua madre e aveva confermato Tito Tazio fidanzandolo infante alla coetanea
Tazia; ma lui era certo di esser nato l’inverno precedente): un omaccio
atticciato, biondissimo la prima volta che l’aveva visto, bianco, stempiato e
smunto l’ultima, giusto l’anno prima.
Indubbiamente Romolo aveva dominato con esuberanza ogni
situazione pubblica in cui si fosse trovato nella sua vita, da lontano
schierato sul campo di battaglia o da vicino in un corteo trionfale,
sfolgorante di armi e armatura con l’elmo troiano dal vasto pennacchio come in
tunica quando conduceva in esercitazione i suoi uomini, o così goffamente
avvolto in una stola gabina come quando conviviava sul Palatino con gli
ambasciatori Ernici, Rutuli, Volsci, Osci, Capenati, Gabini, Ardeatini,
Campani, Punici, Greci, Etruschi, perfino Egizi e via e via chiunque avesse
interessi su quel guado sul Tevere che lui ormai controllava.
Ma quello che aveva incontrato nel Volcanal l’ultima volta
che era sceso a Roma era un uomo consumato dall’interno, più che dalla vita
attraversata, con una simpatia forzata solo imitazione di quella empatica di un
tempo, un uomo che cercava di sopravvivere a se stesso e alla sua gloria e alle
sue forze svanenti.
“E Remo, che tipo era…” cominciò lentamente a chiedere, ma Ostio
si svegliò d’improvviso, sobbalzando come colto da un lampo.
“Proculo Julo! Ecco cosa ha visto Proculo Julo!”
“Ha visto qualcosa, sì. – borbottò lesto Numa, che nel
dormiveglia non aveva mai perso il filo con cui le Parche tendono gli
avvenimenti umani prima di tagliarli – Ma non fu lui a riferirmi il fatto
preciso, fu un messo di uno dei tuoi compari. Non importa quale. Però quel che
ha visto Proculo, al di là delle sue consuetudinarie visioni, non mi è certo
chiaro…”
Ostio si ritrovò improvvisamente completamente sveglio al
cospetto delle stelle scintillanti fra le foglie del pregolato.
“Procul meius proculus fuisset… ci ha visto metterlo sotto
sale.”
IL SALE DI ROMOLO
La prima domanda che venne in mente a un uomo pratico come
Numa, fu quanto sale ci volesse per mettere in salamoia un omaccio qual era
Romolo. La seconda, da uomo pio che era, fu di interpretare il perché, a modo
suo.
“Dopo che l’avete ucciso…”
Ostio lo guardò malissimo, o almeno l’ombra mobile che
poteva intuire nell’etereo delle stelle che brillavano fra le foglie.
“No, certo, prima…”
Cogliendo il suo tono ironico, Numa decise di giocar sporco,
pur di conservare il vantaggio dialettico.
“Son stati presi Auspici, in seguito al suo ingresso nel
Volcanal, il giorno che lo faceste?”
Tullio tentennò, sorpreso dalla situazione: era questo che
doveva aspettarsi da Numa Pompilio, l’Inseguito dalla Fama, l’uomo a cui stava
implicitamente offrendo il trono di Roma, di fronte alla rivelazione dell’aver
messo Romolo sotto sale?
“Svariati. Disordinati, anche come interpretazioni” rispose
comunque.
“E Romolo? L’avete ucciso lì?”
Ostio sospirò pesantemente.
“No. La tentazione era forte da tempo, ma il Volcanal è
troppo in vista e non tutti erano convinti. E in effetti non entrò nel Volcanal
quel giorno. Finita l’allocuzione alle reclute vicino alla Palus Caprina, è
andato a pisciare nel Tevere, approfittando della nebbia. Chi doveva sapere,
sapeva che quel giorno ci sarebbe stata nebbia già da tempo.
E quando si è chinato a bere gli abbiamo tenuto la testa
sott’acqua”.
Numa scosse la testa, lentamente, con mestizia e
comprensione.
“Il Tevere l’ha salvato, il Tevere l’ha ucciso…”
“Poi l’abbiam portato nel Lupercale…”
“E anche questo è stato indubbiamente corretto,
consequenziale…” assentì Numa meditabondo.
“Poi l’abbiamo messo sotto sale. Però estraendo prima i
visceri e messi in salamoia anche quelli dentro canopi… all’Egizia con vasi
tusci purtroppo…”
Il grido di Numa rimbalzò fin sotto al tetto del portico e
si abbassò via via come se stesse facendolo passare sotto al pergolato e nella
notte ormai rischiarata solo dalle costellazioni.
“E questo no! Che facciate a pezzi Romolo ci può anche
stare! Lo si sistema e il sale si scioglie, o lo si nasconde… o lo si esalta,
dipende! Ma che mi abbiate seguito un rituale egizio, come lo sistemo io! I
vasi canopi, Tusci o Greci che siano pazienza, fossero stati di Ficulae meglio
ma…”
“Non si può conservare un corpo a breve o a medio termine
solo coprendolo col sale! – protestò Ostio – C’è anche un egizio a Roma, sta
per conto suo in una catapecchia quadrata ai piedi del Fagutal. L’abbiamo
mandato a prendere. Borbottava le sue preghiere squartando Romolo e mettendo in
salamoia le sue parti, chiedi a lui cosa diceva. E Fortuna ha voluto che
passasse proprio in quei giorni un carro di salnitro per le fonderie Tirrene!
Non possiamo metterlo in un heroon così, subito, non
vogliamo creare un Mito senza saper quale: l’abbiam fatto sparire, l’abbiam
conservato, vogliamo solo sapere cosa farne e se sai cosa farne tu… Magari pure
un Dio!”
“Intanto, sta sotto sale…” bofonchiò Numa, incredulo.
“Nel Lupercale…” confermò Ostio, abbacchiato.
La notte finì come in un sospiro di flauto poco dopo che
ebbero infine ceduto al profondo sonno nelle larghe sedie sannitiche, più
comode dei soliti rudi giacigli di contadino o di soldato, giacigli sempre
identici da millenni e per millenni ancora una sedia comoda come quelle sarebbe
stata nemmeno osabile ambire al di fuori di una casa di un Re.
E piuttosto che l’aurora li svegliò l’aspra voce della
vecchia Priscilla, in tempo perché Numa potesse farsi portare il lituo e
misurare il templum del giorno nel recinto dell’Ara di Quirino Maius.
Quindi presero insieme gli auspici e li interpretarono assieme
all’alzarsi dell’alba.
Non era solo un eseguire riti arcani e ormai
inintelleggibili, con la confidenza del non poter comunque saper cosa sarebbe
successo il giorno stesso, ma comprenderne l’accaduto per imparare in futuro:
era un sottinteso intendere la propria competenza e controllare la competenza
altrui, che ormai, fra loro, era comunque consolidata.
“Puoi restare qualche giorno a ritemprarti. Quanto vuoi, se
ti rimangono buone braccia, gambe e volontà per lavorar la campagna” disse Numa
respirando a pieni polmoni l’aria ancora fresca del primo mattino, deposti i
paramenti sacri di lino egizio che Ostio si guardò bene dal chiedere come
fossero pervenuti lì.
Ostio scosse il capo.
“Questa missione in conto di Roma l’ho compiuta. Ora,
tornando a Roma – che è lì che si compiono i giochi – ho un altro compito da
svolgere. Ed è bene che lo cominci subito.”
“Da Senex di Roma?”
“Da Senex Se-nator di Roma.”
Fu il turno di Numa a scuotere il capo, ora.
“Si potrà dir tutto nell’Ade a proposito di Romolo, ma non
che non sia riuscito a creare un immenso orgoglio in chi l’ha seguito. Sei pure
tu uno dei famosi, o famigerati, trecento Celeres?”
Annuendo leggermente ma ripetutamente col mento tirato sotto
la barba acetata, Ostio prese il sentiero principale che scendeva dalla città
di Cures fino al passo sul Tevere del torrente che tutti chiamavano Curita,
dove la Salaria
passava su un ponticello ogni anno ricostruito, chiamato Pomponio da chi viveva
lì da generazioni, indubbiamente gettato da un antenato dell’Inseguito dalla
Fama…
“Ne sono stato il Tribuno. Lo ero quel giorno… quando
inseguimmo i Veienti sotto le loro mura come quando lo uccisi. Era il mio
turno.
Romolo mi ha indicato come Patericius che eravamo ancor fin
troppo giovani, me ne ha fatte combinare fin troppe in guerra come in pace, e
ora che Senex lo sono davvero lo devo dimostrare, di potermi far chiamare
Senatore.”
Si fermò un istante rivolto al cosmo azzurro e verde della
calotta che attorniava il serpeggiare del Tevere fra piane bozzose, isolotti
boscosi, colli vulcanici e aspre montagne scandite dalle ombre fuggenti i raggi
ancora obliqui del sole alle sue spalle.
“Eravamo la cavalleria in guerra, ci ha fatti diventare la
sua guardia del corpo in pace… oh certo, senz’obbligo! Ma era implicito che quel
che lui voleva si facesse, quel che lui pensava si eseguisse. E in pace ha
trattato come per preparare a una Grande Guerra il suo popolo per quasi
vent’anni, spargendo promesse che solo così, con una insostenibile grande
guerra avrebbe potuto mantenere.”
“Siete un popolo nato da un fratricidio e creato con le
guerre: il Fato è quello.”
“Il Fato dell’inizio sì. Fino alla strage e deportazione di
Cameria. Fino alla guerra dei Septem Pagi. Ma l’ultima generazione si è formata
senza vere guerre, e quindi senza vera disciplina di battaglia, Roma si gonfia
di giovani che nascono e che arrivano ogni giorno, si arrangiano, si
addestrano, ma senza guerre Roma scoppia. Magari fosse possibile sempre così,
ma Romolo non preparava un’altra Era di Saturno aratore…”
“Almeno, gli avete fatto far la fine del Saturno precedente
solo dopo morto…” non potè trattenersi Numa, consapevole di non saper nemmeno a
quali Numi avrebbe dovuto chiedere espiazione per tale blasfemia.
“L’ho ucciso, l’abbiamo soppresso, perché stava preparando
una guerra infinita che non avrebbe mai potuto concludere, né le generazioni
successive, che come le precedenti avranno le loro, ma almeno non per sorte
sua” sorrise Ostio senza raccogliere, cinicamente amaro come un’erba officinale
infusa nel vino.
“Ma come vedi da solo son venuto, a piedi… e a piedi adesso
me ne vado. I turni non funzionano, credimi… Senza Romolo a Roma sarà un
delirio nelle prossime settimane e mesi, e ascolta quel che già sai: prima o
poi arriverà una missione ufficiale con Proculo Julo in testa a offrirti lo
scettro di Priamo e la mummia di Romolo. Accettali, per favore…”
“Ma lo scettro di Priamo non compete a nessuno, a Roma…” gli
gridò dietro Numa.
“E tu accettalo lo stesso, per gloria dei Romani, assieme ai
canopi con le palle di Romolo…” concluse Ostio, sparendo dietro a una roccia.
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