UN RACCONTO DI STORIA
ROMANA
A me, l’ammetto – e quindi son qui ad ammetterlo
pubblicamente alle signorie vostre – Romolo è sempre stato antipatico. E non
tanto per l’ammazzatina del fratello che comunque avrebbe ammazzato lui, si sa
come vanno le cose nelle famiglie, né per il Ratto (che poi ce lo raccontano
“delle Sabine”, ma delle Amntennate, Crustumine e Ceniniensi parla mai nessuno:
stupisce se non indigna come al giorno d’oggi non ci siano ancora cortei di
protesta sotto al Campidoglio pure per questo…) che ancora i nostri Maestri
ammettevano con uno strizzio d’occhi come potesse esser stata una sorta di
“fuitina”.
Forse è perché dopo pare non aver fatto molto altro di
eclatante, oltre che fondante, o di edificante: qualche campagna contro i vicini
troppo vicini con qualche scusa improbabile, la prima guerra contro Veio che
aveva portato il controllo sul Gianicolo e le sue pendici (i Septem Pagi) e
soprattutto sulle saline, poi per vent’anni o circa, niente tranne qualche
Legge un po’ raffazzonata, un calendario in dieci mesi che probabilmente aveva
fatto qualcun altro, qualche cerimonia rituale dalle misteriose ascendenze.
E così per altri quarantanni con Numa Pompilio (felicità di
ogni ragazzino dai sei anni in su, disperazione di ogni imbattuto in Religione
Romana), finché non venne eletto Tullo Ostilio, già tarlato dal nome, e però…
E però, come la colpa dei padri ricade sui figli, così
risale dai nipoti ai nonni? E i prozii?
Insomma, per chi voglia inoltrarsi in questo racconto
ispirato in quei tempi, io non so se quest’uomo sia mai esistito e se questa
storia sia stata probabile, ma possibile sì… e pure le sue conseguenze.
Al vostro insindacabile giudizio, quindi, la prima parte (di tre, avrete pazienza se le altre due saranno parecchio più lunghe) de…
IL SEPTIMONTIUM
PARTE PRIMA
(Breve ma densa,
intervallo con brio. Seguirà lungo e variegato…)
LO SCRANNO DI ROMOLO
Roma Quadrata, anno
XXXVIII dalla fondazione
Ostio Ostilio alzò il lituo appartenuto a Romolo e prese con
esso le misure del templum a sole sorgente.
Nello stesso punto in cui ora seguiva col bordo bronzeo i
primi raggi per fissare le dovute stelle prima che i raggi le abbacinassero,
trentasette anni e ottantacinque giorni prima Romolo aveva preso i primi
auspici per la Città
nascente, e per trentasette anni e settanta giorni ne aveva rinnovato gli
auguri, intanto che la faceva crescere.
Impetuosamente e disordinatamente, troppo, tanto che da
quindici giorni i suoi carnefici ne gestivano le funzioni, consapevoli di dover
trasformare un regicidio in un atto sacro non tanto per la loro salvezza,
quanto per quella di Roma stessa.
E Roma per loro era l’Orbe, anche se non ancora l’Urbe,
seppur in nuce.
Ma non era più quella Quadrata irregolarmente fondata da
Romolo: ormai dall’Exquilinus si irraggiava su tutto il Septimontium, cominciava
ad essere un’altra Roma, la Roma
che avevano vagheggiato fin dagli inizi.
E Ostio in quell'attimo era consapevole di ciò, ma solo e
intuitivamente consapevole, ostinatamente puro di cuore e vuoto di mente se non
per i collegamenti automatici ormai istintivi che gli erano stati impartiti con
l’insegnamento dei riti, parte di ciò, ma una parte di sé rimaneva sempre
distaccata: quella parte rivolta al futuro e al di fuori dei gesti rituali,
mentre alzava lentamente, poi sempre più rapidamente il lituo del Fondatore, e
infine ruotava per fissare le ultime stelle del templum, quelle iperboree alle
quali era destinato Romolo.
Ma dove ancora non era probabilmente arrivato, e su ciò la
purezza di cuore di Ostio Ostilio s’incrinava.
Fissati i limiti del templum dies, sedette sullo scranno
augurale e si apprestò a coglierne gli auspici vulturini.
Il primo uccello, e a lungo l’unico, che vide però fu un
picchio volare bisecando esattamente il quadrante iperboreo-orientale in quella
lama fra luce e oscurità.
E al di là o al di qua dei Mani Consenti, quella era
comunque una direzione che aveva un suo significato concreto.
Si alzò a sole ormai conclamato, dubbioso ma determinato a
seguirla.
Il giorno stesso, più
tardi, nel Volcanal ai piedi del Campidoglio
“Non ha senso tutto ciò! Romolo non è un Dio, e non sappiamo
neppure se non sia ancora vivo!”
“Sarà andato alla ricerca del vello d’oro…”
“L’ho incontrato coperto di sacro argento screziato d’oro vi
dico e vi ripeto! E mi ha detto di confidare in noi perché Roma domini il
Mondo!”
“E nessuno ha governato mai così prima!”
“Appunto! Ora noi dimostreremo che si può!”
“Ad Atene…”
“Lascia perdere Atene tu, adesso! E voi cosa volete
dimostrare! Che il posto occupato da uno può venire occupato da cento?”
“O da duecento: Sparta per esempio…”
“Cosa centra Sparta! Sparta è roba dei Sabini!”
“Ma se Romolo e Tito Tazio stabilirono che…”
“A rotazione! Sappiamo tutti in che direzione condurre Roma!
Non lo stiamo già facendo?”
“O da trecento no? Ci sarebbero pure i trecento Celeres che
potrebbero voler dir la loro…”
“Stiamo facendo niente! Cinque giorni a testa di incombenze
per far cosa? Cosa si può fare in cinque giorni?”
“Cosa faceva Romolo in cinque giorni?”
“Dobbiamo seguire le sue istruzioni: un Re Sabino?”
“Ma siamo davvero sicuri di voler dar retta a Proculo Julo?”
“Io, Proculo Julo, affermo ancora che Romolo mi è apparso
sotto le vesti di Quirino dio dei Sabini!”
“E in otto? Cosa non riusciva a fare Romolo in otto giorni?
Già, perché non otto?”
“Taci che avevamo cominciato con sei ore di giorno e sei di
notte…”
“Trenta è un numero che ad Atene…”
“Chi, aveva cominciato con quei turni, a proposito…?”
“Lascia perdere Atene tu. Almeno trenta giorni però, è
vero…”
“Trenta?! Ma lo sai quanti siamo? Con quindici saremmo già a
millecinquecento giorni per un intero giro, e quanti di noi saranno ancora vivi
fra millecinquecento giorni?”
“Bel problema: io dico otto, almeno…”
“Meno di dieci è impensabile, a meno che non si registri il
passaggio come ad Atene…”
“Lascia perdere Atene tu!”
“Sparta ha due Re..”
“E lascia perdere pure Sparta tu!”
“Nove. Tre per nove ventisette!”
“Manca di uno, tante volte, per fare un mese… lunare.”
“Un anno!”
“Sì! Ma di quanti mesi?”
“E quali mesi?”
“E gli intercalari?”
“Numa Pompilio forse…”
Ostio si allontanò dal Volcanal scendendo nel piano
sovrastante il Comitium, profondamente disgustato.
Quella esedra, sorta attorno all’ara di Vulcano Ustore
vecchia di tante generazioni da non puzzar nemmeno più dello zolfo cadaverico
dei riti funebri, ricavata tamponando col tufo una spaccatura nella roccia
friabile del Campidoglio poi popolata di trofei delle prime vittorie di Romolo
sulle miserabili città vicine, dominata infine dopo la vittoria dei Septem Pagi
con la statua del Ramna incoronato da Bellona – spacciato per suo sosia o
antenato, dono dei Tarquini nemici di Veio – era già assurda con Lui assiso in quella sorta di trono di
tufo che sosteneva esser stato di Evandro, a placare le dispute con un urlo o –
più recentemente e con meno efficacia – un grugnito.
Senza Lui era
semplicemente ridicolo continuare a scannarsi lì, tanto valeva convocare le
Curie al Comitium. Ma senza lui non si potevan convocare le Curie, nessuna
assemblea poteva farlo.
L’assemblea dei Senatores nel Volcanal non era altro che la
rappresentazione alta di quel che stava succedendo da qualche giorno nei
mercati, sussurri più che grida perché ancora nessuna causa era impellente al
giudizio di Romolo, ma mischiando comunque ogni tipo di argomento attorno alla
sua scomparsa ora secondario, un giorno chissà, riguardante una comunità che
andava ben oltre quei cento bercianti alle sue spalle, e anche gli altri cento
che aspettavano di saper cosa quei cento decidessero, e anche gli altri cento,
o più, che non aspettavano altro che i primi duecento si scannassero fra loro…
per non parlare dei trecento Celeres, una volta la cavalleria della Legione,
quella guardia del corpo cui Romolo aveva promesso esattamente non si sapeva
cosa dopo la vittoria sui Tusci Veienti.
Ostio lo sapeva invece, fin troppo bene, e sapeva anche
quanto ormai fosse grande la comunità dei Sette Monti, e quanta la pressione
interna che montava verso quella, inevitabile, esterna: per ciò era tempo di
farla breve.
E dopo l’intervento visionario ma fin troppo sospetto di
Proculo Julo qualche giorno prima e le sue costanti orazioni apparentemente
vaneggianti ma inconcepibilmente contagiose, era ormai indispensabile.
Si guardò attorno, nell'aria calda e umida vibrante del
sordo frinire delle cicale che confondeva il ciarlante disputare nel Volcanal.
Davanti a lui stava la fossa imbutiforme del Comizio dove
Romolo usava tenere le allocuzioni alle Curie riunite, un’ansa erbosa
abbandonata dal fosso creato dai torrenti dei colli circostanti, che nel corso
del tempo si era spostato più in là e nel corso di altro sarebbe diventato la Cloaca Maxima. Oltre i salici e
i pioppi che lo contornavano, a qualche centinaio di passi si vedevano
ondeggiare nel calore estivo le pendici del Viminale, i suoi sprazzi chiari di
vigne legate coi vimini agli aceri e ai cornioli, il Cispio cipiglioso che si
perdeva nel’alta boscaglia delle exquilie, l’alto Fagutal grigio di faggi e
olivi posto col suo piccolo villaggio a guardia della graziosa Velia, la sella
dolcemente concava come un sorriso assoggettata alla mole di roccia scura e
cespugliosa del Palatino, che chiudeva la vista alla sua destra.
A meno che non si girasse, come fece assorto e corrucciato,
e non guardasse il Tevere dalla profonda, aspra spaccatura fra Cermalus e
Capitolium dove s’infilava il fosso che stringeva verso il Velabro: là con lo
sfondo del colle di Giano si intravedevano alcune barche colme di sale e un
pontone di quelli che aiutavano l’attraversamento del guado agli armenti, un
paio di carri si muovevano lungo il Clivo Palatino, alcune donne affaccendate
apparivano e sparivano vicino alle capanne seminascoste dai sarmenti là in
alto.
Ma lungo il sentiero che allungandosi oltre un ponticello di
legno superava la polla del Lacus Curtius e saliva dolcemente attraverso quelle
che erano state le ultime tombe degli Aborigeni e fino a una generazione prima
necropoli degli abitanti di tutti quei colli, perdendosi nella rada alberatura
palustre in quella sorta di dito disteso dalla Velia querciosa oltre l’ara di
Giove Statore, nell’aria afosa e tremolante non si vedeva anima viva, nemmeno
uccelli, giusto mosche.
Un merlo fischiò invece dietro di lui, in alto, sopra i
berci soffusi di quel centinaio di compari di Romolo, che erano anche i compari
suoi.
La fessura del colle che formava il Volcanal era solo una
delle tante rughe nel collasso fra il Capitolium e l’Arx, che incombeva sopra
di lui e sopra al merlo. Al di là della cresta lunata, finalmente erbosa dopo
il brunito cespuglioso di tanti antichi crolli e frane, ombreggiata da platani
maestosi c’era la scodellona frantumata dell’Asylum, protetta come da braccia
dalle rude asperità querciose dei due capi del colle verso la insidiosa piana
retrostante delle paludi caprine.
L’asilo per i senza patria dove Romolo aveva preso ad
accogliere e a smistare tutti gli abbandonati dalle città del Lazio e della
Sabina che accorrevano al suo richiamo, e da dove Tito detto Tazio l’aveva
fatto perciò sloggiare, convincendolo che era molto meglio usasse a quello
scopo l’Esquilino per una miriade di motivi, dopo la farsa del ratto e le risse
successive, non ultimo fra gli altri che anche gli Etruschi potessero venir a
reclamare i loro diritti su quell’arce augurale polietnica.
Il merlo sfrullò le ali, poi spiccò il volo, verso nord,
basso sul boschetto di allori che nascondeva la sella del colle Latiaris da
dove avrebbe dovuto iniziare a inerpicarsi.
E questo lo sapeva anche senza bisogno del merlo, pensò
abbandonando gli altri pensieri, senza per ciò sentirsi meno devoto ai suoi
Numi e agli intrecci che provocavano nella sua mente.
L’ora media era vicina a giudicare dalla pendenza dei raggi
del sole, e Ostio si chiese se non fosse il caso di tornare alla sua capanna
sul Cermalus e rimandare al giorno dopo, all’alba, l’inizio del suo lungo
cammino.
Ma si disse che in fine, fino alla fine del giorno, era
ancora Augure, sia pur non più in carica: aveva interpretato per quattro volte
in quindici giorni il ruolo di auspice in vece di Romolo e le facenti funzioni
in innumerevoli occasioni giudiziali in tutti gli altri, e avrebbe voluto avere
il cuore di riposarsi un po’ fra le proprie mura, ma aveva pure ormai deciso di
assumersi un compito che andava oltre quel cerimoniale ben confuso che il
Fondatore aveva disegnato per se stesso.
L’avesse pur considerato traditore chiunque, lui aveva
deciso, e per far decidere l’unica persona che potesse darci un vero
significato era il caso di mettersi in cammino, proprio adesso, di buon
augurio.
Il boschetto di alloro fissava in effetti il punto dove
Romolo e Tito Tazio avevano siglato l’armistizio sulla neutralità del Campidoglio:
lì cominciava la Via Sacra
che si dirigeva dritta sulla Velia attraversando la porta Mugonia nelle mura
romulee per poi diramarsi nei santuari argivi e di Evandro sul Palatino; lì
confluiva l’Argiletum dalle umide coltivazioni di canapa ai piedi dei colli, lì
cominciava pure, opposto, il contorto tratto iniziale del sentiero che avrebbe
raccolto gli altri sui due versanti del Collis Latiaris per confluirli
nell’Alta Semita, la strada che torcendosi attorno all’Arx saliva poi al Mons
Quirinalis.
Da lì cominciava il suo cammino per Cures.
Ho letto perché mi piaceva il suono delle parole una dietro l'altra. Giuro che ho letto tutto, ma giuro anche che non c'ho capito quasi niente, se qualcosa c'era da capire. Ma è sicuramente a me che manca qualche pezzo. Con un aiutino potrei arrivarci o non è roba per me?
RispondiEliminaFides...
RispondiEliminaMi era tornato in bozza, sia mai che sia un messaggio e me lo devo tornare a leggere pure io un'altra volta... ?
RispondiEliminaLa butto lì, chissà che non serva anche a me (quando sarò vecchio): potrebbe essere utile, nel senso di propedeutico, accostarsi a Joyce.
RispondiElimina