domenica 15 dicembre 2013

Il sale di Romolo - Parte Seconda

IL SACERDOTE DI QUIRINO

Dopo il boschetto di allori, quello che non era più un sentiero ma non era ancora una strada, in effetti una larga pista per gli armenti che venivano condotti fin dai tempi di Ercole al guado del fiume, si distanziava dal fosso appena prima che fosse ancora ruscello, il principale che raccoglieva tutti gli altri discendenti dalle vallecole dei colli: ogni anno si spingeva un po’ più a monte la regimazione del fosso per drenare le acque stagionali e bonificare quelle terre comuni che col tempo sarebbero diventate la Subura, ma Romolo non era mai stato molto attento a questo genere di cose (a meno che non presentassero dei risvolti militari) e il Velabrum flumen cominciava in effetti qualche decina di metri dietro alle sue spalle quando Ostio prese ad inerpicarsi sulla sella che un giorno, ottocentocinquantacinque anni dopo, Traiano avrebbe sfondato e sostituito con la sua colonna trionfale.
Giunto in cima del collis Latiaris, si fermò a prender fiato guardando la piana verde, le distese di piantate di canapa intercalate dalle chiazze paludose squamate dai pennacchi dei canneti, limitata dalle anse erbose del Tevere vicine al lago palustre dove era sparito Romolo nella famigerata nube di nebbia.
Sospirò. Salire per la via Biberatica gli avrebbe in effetti risparmiato il discendere nel bosco e il risalire fra i massi verso la cima Curita, ma ancora era un sentiero per cacciatori, carbonai e portatori d’acqua potabile dalle fonti fra Quirinale e Viminale ai vecchi villaggi sull’Oppio e ai nuovi dell’Esquilino, e poi quella via diretta di crinale, sentiero armentale e sacrale ancora non strada, aveva un suo significato: non era un profugo o un viandante, doveva salire per la via principale, era un Senex di Roma si doveva sapere che stava salendo lassù.
E fra massi, rocce, cespugli arroventati dal sole, boschetti di querce come quello Marvortianus inframmezzato da allori e salici alla fonte col sacello della Ninfa ancella di Minerva e il suo piccolo coacervo di acquaioli, venditori di vivande o di ammenicoli sacri, arrivò in cima a metà del pomeriggio.

Il villaggio curita dei Sabini si presentava perfino più potente della stessa Roma, visto dall’ultimo tratto del sentiero: i muraglioni di tufo squadrato s’interpolavano perfettamente con le rocce della sommità del monte, incombevano sia pur a bassa altezza, perché quella in effetti non era una vera città, era una fortezza. E quelle non erano vere mura, era un bastione senza parapetti: come per tutte le loro città i Sabini avevano scelto il punto più naturalmente difendibile coi loro propri petti, in onore di un’arte che veniva invocata agli antenati Spartani. Di Tarentum, dicevano i più maligni.
E da lì si poteva veder tutto, ma controllar nulla, senza il Pincio più sotto tenuto dalla guarnigione Romana, e Antemnae pure, qualche miglio più in su. Dal Palatino si vedeva niente, difenderlo era difficile, ma da lì si poteva controllar tutto, e prenderlo era ormai impossibile: questo era il problema dei Sabini, e di tutti gli altri del resto…
Salita la breve e stretta rampa che sfilava fra le mura in una breccia fra le rocce, salutato negligentemente dalle guardie che comunque, dall’ultima volta che era stato lì tanti anni prima, gli parevano raddoppiate, attraversò la spianata per raggiungere il sacello di Quirino, considerando freddamente come le abitazioni si fossero addensate oltre la cima del monte e fra gli alberi sul basso cocuzzolo vicino.
Ma dopo pochi passi si arrestò di colpo, interdetto.
Era stato lassù l’ultima volta l’autunno prima della morte di Titio Tazio, e il sacello non era altro che un tumulo di pietre rozzamente squadrate e squadrato esso stesso, all’interno del recinto rituale di cui ora – il suo occhio esercitato lo colse al volo – il nuovo, incompleto tempio a copertura laconica che lo includeva, occludeva lo specolo augurale.
Il tempio aveva pochi anni, altri ce ne sarebbero voluti per completarlo e i Sabini l’avevano inaugurato senza troppa pompa, come se fosse un rito familiare, ma per conto di Ostio Ostilio quello di Quirino era un culto moribondo, se non morto, se mai era nato davvero un Quirino, cosa di cui non si poneva motivi per dubitarne, ed era divenuto un Dio, cosa di cui invece appunto dubitava.
Era ben vivo però il suo Sacerdote, un uomo sulla trentina con la barba a punta e un cappellaccio di paglia, ritto con le braccia allungate ai fianchi della tunica, le mani colme di erbacce appena strappate dal recinto sacro, avvertito del suo arrivo dal berciare acuto di alcuni piccoli cani dal pelo corto.
“Ti aspettavamo, Ostio Ostilio figlio di Quintillo…” disse, con voce grave ma tono stanco.
Ostio lo conosceva di vista, ma suo padre e Vipsanio Voltinio – padre del Sacerdote Quirinalis Vipsio Voltinio –si erano frequentati nei tempi precedenti all’avvento di Romolo, quando lui era bambino e il futuro sacerdote non ancora nato.
Ma ormai rispetto a quei tempi e a quelli che lui stesso poteva ricordare, la gente che si poteva e doveva conoscere era triplicata o più, e non tutti frequentavano il Foro Boario e l’Ara di Ercole…
“Ave Vipsio Voltinio. Ne sono lieto, sono stanco e chiedo rifugio alla casa del Dio Quirino e tua.”
“Le porte del Dio sono aperte, la nostra casa è tua!”

“Devo parlare con Numa.”
“Ce lo aspettavamo.”
“Bene.”
Ostio decise di accettare il duello laconico: come i Romani, anche i Sabini erano divisi, ma soprattutto confusi. Erano confusi non solo perché i Romani per buona parte erano Sabini, ma perché consapevoli che mancato Romolo toccava a uno di loro guidare i Romani, per quanto recalcitranti, Sabini Romani e Sabini montani compresi.
Quindi quel plurale che forse Vipsio voleva far passare per maiestatico riferimento alla volontà degli Dei, in effetti a quali Patres Sabini corrispondeva?
“Non sono mandato da alcuno, rappresento solo me stesso. Per il momento. Poi, non sono Nessuno: una casa ce l’ho. E ci torno quando voglio, anche senza alcuna Penelope ad aspettarmi tessendo tele.”
Vipsio sorrise fra sé: anchegli ricordava appena di aver intravisto Ostio da fanciullo, quando più o meno all’età che aveva lui ora, il Romano sfilava a cavallo nel ritorno trionfale di Romolo da Cameria, ma non sapeva che in quegli anni avesse anche avuto il tempo di ascoltare – e capire, quindi studiare – le narrazioni omeriche.
C’erano molte cose che non sapeva sulla vita privata dei Romani primi seguaci di Romolo, doveva ammetterlo, ma di sicuro nessuno s’aspettava che un Romano chiedesse asilo a Cures.
“Lo sappiamo. – disse nonostante ciò – Anche se in effetti speravamo che… portassi tu una soluzione. Invece vuoi solo parlare con Numa Pompilio, figlio di Pomponio.”
“Solo… sì, per il momento solo parlare. In qualunque direzione gli Dei indicheranno, non è ancora venuto il momento di agire. Devo parlare con Numa. A meno che tu non abbia qualcun altro da suggerirmi… Voi, intendo…”
Vipsio sospirò, contemplando perplesso le briciole di pane e formaggio, le gocce di vino e di puls sparse da entrambi più o meno volontariamente per i Mani tellurici nel corso del pasto, sparire nelle fauci dei suoi piccoli cani.
Quando si era sparsa la notizia della scomparsa di Romolo – e si era sparsa subito, perché Romolo era abitudinario in pace quanto sorprendente in guerra, e incontrava decine, centinaia di persone ogni giorno – dal Quirinale era partita per Cures, e da Cures era tornata presto indietro l’istruzione di aspettarsi presto una visita dal Volcanal. Probabilmente più d’una. E quella non era la prima.
Probabilmente Ostio non mentiva dicendo di non rappresentare nessuno, ma di certo rappresentava qualcosa, cosa non era compito suo deciderlo.
E anche Vipsio rappresentava qualcosa: cosa gli era sempre meno chiaro, tranne un unico punto fermo.
“Ti accompagnerò io stesso – disse infine lasciando il plurale, maiestatico o meno, ma non il tono grave – Scenderemo all’Anius e imboccheremo la via Salaria o la Ficulensis fino al sentiero dei Picchi. Ti lascerò lì, poi per trovare Numa segui le indicazioni di Picus.”
Ostio annuì tacendo. Aveva compreso che lo aspettavano. Chi, e che aspettassero proprio lui, si sarebbe visto. Versò un’ultima goccia di vino dal suo kylix di evidente fattura etrusca.
“Ora ti accompagno al tuo giaciglio, che non è qui – concluse Vipsio alzandosi dal tricliniare e indicando l’uscita della strana capanna trapezoidale – Domani e pure dopodomani avremo un lungo cammino da iniziare all’alba.”
La capanna che invece fungeva da foresteria, l’aedes pietorum per antichi presunti pellegrini, intonacata e affrescata come quella più piccola del Sacerdote Custode fuori dalla quale avevano mangiato e discusso, si trovava dall’altro lato del recinto sacro e del sacello di Quirino, e un sentiero stopposo costeggiava il malridotto muraglione di rinforzo alla platea per evitare il giro attorno allo spiazzo.
Vipsio vi condusse Ostio, mentre gli ultimi raggi del sole ancora rovente contrastavano la notte crescente da oriente e allungavano le ombre sotto gli asperi boscosi della Tuscia, verso i laghi dei Tirreni volti famelici verso il controllo anche di quel fiume che, preponderante cornice al centro della scena, qualche lega più in basso e più in là oltre la piana del Campo Marzio, scorreva lento, tortuoso e dorato.
“Anche questa è ortogonale, anche se non perfetta” notò Ostio mentre Vipsio gli mostrava il giaciglio, la caraffa, il bacile, una coperta supplementare…
“Fu Numa, più di una generazione fa, a ricostruirle così. Prima erano ortogonali all’etrusca, ma crollavano sempre ad ogni terremoto.”
Ostio annuì senza realmente comprendere, e decise di essere troppo stanco per celebrare gli Auspici Minori Serotini: sperava che Vipsio non gli chiedesse di assisterlo perché immaginava sarebbe stata la scarpinata del giorno dopo a dargli la possibilità di interpretarli comunque.
Ma Vipsio s’accomiatò, e salutandolo chiese altro, in tono di affermarlo.
“Non deve esser stato facile.”
Se lo doveva aspettare, da un Sabino, Sacerdote di Quirino per di più, prima o poi quel colpo basso. E non aveva voglia di scansarlo.
“Non era un uomo tanto più forte come una volta”
“Non intendevo questo.”
“Non era più l’uomo forte di una volta.”
“Nemmeno questo.”
“Non era più forte come una volta.”
“Nemmeno.”
La Sibilla non ti dà tre risposte manco se paghi il quadruplo di sette assi, Vipsio Voltinio! Ma io la quarta te la do gratis: no, non è stato facile. Ma era necessario. E tanti come me avrebbero voluto farlo fin da quando ci siam conosciuti da ragazzini, questo è vero. Ma non c’è mai stato un vero motivo per doverlo fare, prima, avendolo accettato come Capo. Mio fratello Osto è morto per lui, e questo per il passato… Romolo è passato, e adesso c’è un patto da rispettare. Per i Sabini, per i Romani, per Roma e per tutto il Septimontium…”
Vipsio tacque, gli consegnò la lucerna scuotendo la testa, e sparì nella notte ormai scesa a coprire anche il Quirinale, oltre alle valli già immerse nell’ombra.

L’alba sale rapida ad aprir le giornate estive fra i berci dei corvi e i trilli delle allodole, e Ostio era già vestito quando Vipsio lo mandò a invitare all’Auguratio Matutina da un giovane inserviente che non si era visto la sera prima.
Il Sacerdote di Quirino gli indicò col suo lituo le stelle cardine di quella giornata, il templum celeste che li racchiudeva all’interno del recinto sacro col nuovo punto di riferimento alla cuspide del timpano del nuovo tempio, che così Ostio comprese come esser stato riconvertito e riconsacrato secondo altre costellazioni per interpretazione di Numa, poi aspettarono assieme i primi uccelli seduti fianco a fianco sul sedile augurale e concordarono sulla loro provenienza e indirizzo.
La destinazione, come quella dei loro intenti, tacitamente non la condivisero.
Svestiti infine i panni di lino degli Auguri, i cappelli di feltro a punta e le pantofole di cuoio consacrato, indossati i sandali di pelle di vacca dalle suole di legno e le tuniche di canapa da viaggio, agguantate le sacche con le vesti di scorta e gli otri con la posca acetosa, presero la loro via.

La via Alta Semita scavalcava uno dopo l’altro i cocuzzoli retrostanti la cittadella, comunque presidiati da folte guarnigioni sabine sempre più stanziali a quanto pareva, poi si allungava dritta nel bosco ampio, con querce ramose ma non molto alte, stenti aceri, rari faggi, pioppi snelli, ripulito e nutrito dagli armenti in sosta nel loro avvicinamento ai macelli del foro Boario che – ognuno come la sua divinità disponeva, bovino, suino, ovino o caprino fosse secondo stagione – lo nettavano da erbe e cespugli e lo nutrivano con le loro deiezioni.
Dopo poche centinaia di passi, in una radura nel cui centro sorgeva un’antica ara in pietra consunta, un’analoga pista si distaccava ortogonalmente verso oriente, verso il Viminale e l’Esquilino, in quell’ampia piana boscosa che faceva da spalla comune al plateau dei colli del Septimontium e che digradava aspera ma non ripida verso la valle dell’Anius.
Vipsio si fermò scrutando Ostio.
“Salaria o Ficulensis? Io ho visto quelle sette gazze puntare ad est, dall’Auguraculum.”
“Io quelle nove a nord, ma dopo di te” ammise Ostio.
Vipsio lanciò un paio d’occhiate in tralice, sia a lui che alle due strade di fango secco davanti a loro in mezzo al bosco.
“Per la Salaria dobbiamo passare sotto Antemnae, fra poche centinaia di passi, e lì ci siete voi Romani. Ma giù al ponte sull’Anius ricostruito da Numa Pompilio l’anno del patto coi Veienti, ci siamo assieme. Però a Crustumerium ci sono ancora i tuoi amici, compari di Romolo.”
“E a Fidenae discendenti di antichi Latini, ricorda, che anche loro si fidarono dei Veienti…”
“D’accordo. I Tuschi son nostri nemici comuni da molte generazioni. Ma a Eretum ci siamo ancora noi: è già casa nostra.”
“E lì attorno si incrocia la via Ficulensis diventata Nomentana, passando sull’altro ponte costruito sempre da Numa e che teniamo assieme come tutti i passaggi sull’Anius – l’interruppe Ostio accennando al sentiero alla loro destra – La via che s’inerpica attorno al monte sacro agli Augurali per arrivare a Ficulae, la città dei vasai. E poi Nomentum, che è una vostra città sottratta ai Latini…”
“E quindi sempre Eretum, ma dopo un percorso di valli e salite fra i pascoli assolati, assediati da tafani e banditi, invece per la ombrosa Salaria…”
“Le tue stesse gazze ti han detto che dobbiamo prendere la via a est, Vipsio Voltinio!”
Vipsio annuì.
“I banditi non possono certo spaventare un compagno di Romolo... pensavo solo alle tue giunture…”
“O alle tue, Sabino! – sogghignò Ostio – E ricorda che io, oltre che compagno di Romolo, io sono Senex di Roma!”
Il Sacerdote di Quirino scosse il capo, lisciandosi la corvina barba a punta.
“Io spero che Numa ti ascolti, e che venga a imbrigliare il vostro impeto, Senutes di Roma, perché da quando son nato io non ho visto altro che guai, combinati da voialtri…” borbottò inchinandosi davanti all’ara, ponendole in un piccolo incavo alcuni semi di farro tostato e indirizzandosi poi verso la pista a destra che s’inoltrava piana nel bosco.

“Quale Argeo è stato, quello?” chiese Ostio in tono conciliante riferendosi all’ara, dopo qualche centinaio di passi nel gioco di ombre e luci della giornata fresca e sfavillante, con i cespugli di asparago a succedersi ai rovi da more ai piedi dei tronchi delle querce, siccome non era ancora tempo di portare capre al Velabro per di lì, in quel periodo.
“E chi lo sa? Anzi, sicuramente Numa lo sa: lui sa tutto su queste cose. Saturno, Ercole, Evandro e Pallante, anche su tante altre… tutte forse…”
Qualche altro passo silenzioso accompagnato da ripetuti fischi di merli e ribattuti tocchi di picchi, un distante tubare di colombe, qualche lontano grido dai villaggi che si stavano spargendo a macchia d’olio sui versanti tiberini del Septimontium, colpi di ascia soffusi, poi Ostio riprese in tono sordo:
“Raddrizzammo questa via quando Numa Pompilio era ancora un ragazzo: lo ricordo fra i fratelli peripatetici delle processioni Arvali terrorizzati dalla possibilità che potessimo toccare qualcosa di sacro attorno alle are degli Argei... dovremo prima o poi cominciare a scavare ed edificare l’aggere per proteggere il Septimontium, qui lungo. – scosse la testa – Abbiamo tutti una gran fede in Numa, vero? Eppure è ormai quasi una generazione che non getta più ponti e non alza più muri…”
Ce ne vollero molti di più, perché Vipsio rispondesse, in tono cupo.
“Da quando è morta Tazia, tredici primavere fa, dopo tredici di matrimonio e tredici di fidanzamento. Promessi alla nascita per sugellare la fusione delle due più antiche Gentes della Sabina, ma in effetti teneramente legati e prediletti da ogni divinità dell’Amore e della Famiglia, tranne che dalla Proserpina Levatrice dell’ultimo parto, quello di Pompilia. E parte del popolo non rispettò lo strazio del suo dolore, contestandone negli stessi giorni di lutto la legittimità alla successione a Tito Tazio, quando ancora non si sapeva se Pompilia sarebbe sopravvissuta. Successione che lui nemmeno aveva chiesto ma di cui venne impietosamente chiesto di renderne conto… In effetti il frutto di molte gelosie sull’unificazione di tanti poderi nelle mani di un’unica Gens, che infatti non è poi avvenuta: Titii e Pomponii continuano ad essere due Gentes distinte, a meno che Pompilia…”
Un grugnito di Ostio, che parve come sovrapporsi a un lontano raspar di seghe e colpir di asce, gli rammentò che stava raccontando al Romano vicende interne alla politica Sabina che non dovevano interessarlo, e probabilmente infatti non lo interessavano.
“È già molto che non allevi i figli a fuggire a Roma dalla Sabinia – concluse tanto in fretta da accorgersi con raccapriccio solo mentre concludeva la frase, di aver tappato il buco con una toppa peggiore di esso – ma non so se se la sente lui…”
“Questo è il problema, pare…” borbottò pensoso il Romano, inconscio delle tribolazioni del compagno.

Quando la pista sterrata incrociò a un’identica ara decine di volte restaurata la via che usciva dall’Esquilino, Vipsio svoltò a manca, cominciando a scendere fra una boscaglia più ispida e via via sempre più ripida.
“Quando ero un ragazzino, Numa diceva sempre che questa strada prima o poi sarebbe stata da variare, che questo punto è tremendo per i carri con le anfore.”
“Usano i muli, infatti” osservò Ostio.
“Infatti…”
Dovettero cedere il passo in salita a parecchie carovane cariche di ceste di pietre rozzamente squadrate o blocchi di tufo, carni salate, rape e altri ortaggi destinati ai mercatini che si moltiplicavano assieme alle capanne dell’Esquilino e degli altri Colli, prima di arrivare in piano e dopo poco, nella boscaglia sempre più rada, al ponte sull’Anius.
“Così com’è, è solo temporaneo, anche se ancora va bene – disse Vipsio indicando la passerella di tronchi dalla sghemba testata a contrafforti, che costringeva la rampa a una curva per allinearsi con la strada – Dovrebbe diventare come quello sulla Salaria, che mi spiace tu non abbia mai visto. Là ci passano buoi e carruche, qua al massimo asini…”
“E carretti, perché altro al momento non ci deve passare” concluse Ostio considerando quello a due ruote spinto a mano da due bifolchi sui lunghi tronchi della passerella.
Il bosco si diradava in una piana ondulata avvicinandosi alle sponde del fiume stretto e profondo, ricco d’acqua vorticosa come in ogni stagione nonostante la siccità si prolungasse da qualche mese. Verso la foce che confluiva nel Tevere come verso il contrafforte dei monti Tiburtini, i prati ancora in ombra, non più calpestati dalle greggi che li avevano lasciati dopo la nascita degli agnelli per salire ai freschi pascoli Ernici, spiccavano smeraldini a confronto col verde grigio dei boschi cedui che avevano attraversato e il giallo palustre della valle palatina lasciata alle loro spalle, con solo qualche mandra di giovenche sparse a distanza assieme ai vitelli tignosi, e qualche pigra cavalla col vispo puledro vicino.
Su quella sponda la testata del ponte era poggiata sulla rampa di terra curvilinea rinforzata ai lati da contrafforti di tronchi di quercia, che costringeva la strada acciottolata a fare un’ampia curva fra le capanne del corpo di guardia Sabino.
Per una loro strana intesa infatti, Romolo e Tito Tazio avevano stabilito che la sorveglianza dei passaggi sull’Anius sarebbe stata comune, ma che ogni contingente avrebbe stanziato sul territorio dell’altro.
In effetti, considerando Romolo la linea dell’Anius come un limes difensivo (che aveva sempre avuto altri metodi per trasferire all’attacco i suoi uomini oltre i fiumi che farli passar su ponti che non c’erano, e spesso manco per i guadi, ma a nuoto sia pur non nelle rapide), era uno stratagemma per riconoscere a Tito Tazio una sorta di piede sul territorio Romano, ormai riconosciuto con lo scambio di guarnigioni implicitamente tale.
Ostio scrollò dal capo le proprie considerazioni sulla finezza della politica di Romolo, e lanciò appena uno sguardo incuriosito alle capanne grezzamente affrescate a zolfo dei Sabini, dato che loro stavano scrutando lui con diffidenza, mentre salutavano con calore Vipsio.
Sapeva che erano ventisette per via di una vecchia clausola di Tito – non per niente detto Tazio, il “tafano” – per punzecchiare Romolo: ventisette erano stati gli Argei chiamati da Ercole per cacciare dal Latium Vetus i pirati Siculi. Ma Romolo sapeva esser altrettanto tafano quando voleva – o poteva – e aveva risposto che ventisette erano stati anche i compagni di Argo, fatti a pezzi e buttati nel Tevere.
Erano andati avanti a dibattere sulla questione dell’origine degli Argei, sempre con l’aria di sfottersi a vicenda, per tutti gli otto anni del loro regno congiunto; poi Tito era andato a prendersi quelle coltellate a Lavinium e Romolo non aveva più cambiato le disposizioni sulla composizione delle guarnigioni ai ponti e ai guadi, né l’avevano fatto i Sabini.
A quel tempo – e anche al tempo della presa di Cameria otto anni dopo, l’ultima volta che era passato per di lì – il ponte era una larga passerella appena poggiata su due montanti di terra, che comunque non ne impedivano il trascinamento e la ricostruzione dopo ogni piena dell’Anius.
Ora, nonostante quell’apparentemente assurda curva imposta dal cambio di orientamento dell’altra testata del ponte, la maestria nella costruzione di terrapieno e la misura di spalla dei tronchi di testata che gettavano l’unica campata, lo impressionavano davvero.
Quali maestranze, quali conoscenze erano state messe in opera lì, e quando?
“Numa fece rialzare di una misura d’uomo la testata del ponte dopo l’ultima piena che portò via quello precedente – sbuffò Vipsio arrampicando di traverso la rampa – quindici primavere fa, e modificò l’orientamento secondo un Auspicio preso sul Sacro Monte. Infatti, di là trovò un basamento di roccia e da quella parte non c’è stato bisogno di costruire rinforzi.”
“Ecco il motivo di questo curioso imbocco curvo. Pensavo avesse motivi difensivi.”
“Anche…” borbottò il Sacerdote di Quirino.
Avevano appena fatto un passo sulla ghiaia compressa nella terra che copriva le traverse di legno, che il suolo parve come rabbrividire sotto ai loro piedi, e qualche richiamo esasperato s’alzò alle loro spalle.
Si volsero. A oriente, dalla boscaglia che contornava i prati verso le lontane rupi delle cascate tiburtine, ovvero dalla strada per Tibur l’antichissima Superba, era sbucata una turba di cavalieri in tunica svasata, agitanti lance di canna dalle estremità appesantite da pietre, che si stava avvicinando al galoppo al ponte.
“Non vorranno passar qua sopra!” esclamò Vipsio, proteggendo gli occhi dal sole col dorso della  mano.
Ostio scosse il capo, imitandone il gesto.
In poco tempo furono lì, frenando le cavalcature sudate: erano una decina, dieci esatti probabilmente, se Vipsio intuiva giustamente chi fossero, non solo dal berretto frigio di pelle di palle di toro.
“Celeres?” chiese al compagno, che annuì.
“Celeres Luceres.”
Più in basso di qualche metro, si era subito accesa una burbera discussione fra i giovani a cavallo e i poco più attempati Sabini appiedati. Quello che pareva essere il capo dei cavalieri indicava il ponte e annuiva vigorosamente, il capo dei Sabini scuoteva altrettanto decisamente la testa e allargava e chiudeva le braccia con un movimento orizzontale delle mani all’altezza del petto suo e del cavallo, che faceva intendere anche senza parole come da lì, almeno in groppa, non si passasse.
I suoi pedoni intanto parevano prepararsi a uno scontro: controllati con lenti movimenti delle cavalcature dai Celeres, stavano avvicinandosi più alle armi appoggiate ai muri delle capanne che alle spalle del loro Primiceparus, il quale a un certo punto cominciò a berciare indicando il cielo come a chiedere l’assistenza degli Dei.
A questo punto Ostio ridiscese la rampa dal suo lato convesso e si diresse verso i contendenti, con passo pacato ma scandito. Vipsio lo vide rivolgersi al Decano della turma ignorando ostentatamente il Primiceparus Sabino ancora col braccio teso verso l’alto, poi volgersi alteramente a questi, che abbassò lentamente l’arto fino a indicare un punto più a ovest nella valle.
Ostio disse ancora qualcosa al giovane cavaliere, che annuì e lo salutò con un largo gesto, concludendolo poi in un richiamo al resto della turma e lanciandola al passo, al trotto e di nuovo al galoppo verso la confluenza nel Tevere o più probabilmente, concluse Vipsio, al ponte Salario.
Tornando a non degnare l’ormai inflaccidito comandante temporaneo dei Sabini, che si stavano intanto allontanando con aria rilassata dalle armi per tornare borbottando verso gli alberi ombrosi ancora ammutoliti di tutte le loro cicale, Ostio risalì la rampa e lo superò senz’altre parole avviandosi per la passerella larga quanto un uomo e mezzo.
Vipsio preferì non indagare su quel che avesse detto e con quale autorità l’avesse fatto: presto l’avrebbe saputo comunque.

A fianco della testata fidenate del ponte, al posto delle varie e squadrate e variopinte capanne dei Sabini, c’era ancora quella grigia, unica, fatta costruire da Romolo trentacinque anni prima, dopo la trasposizione dei Ceniniensi verso l’Esquilino, perfettamente ovale e intonacata in stinto rosso argilloso, senza disegni o altre colorazioni, col tetto di giunchi strettamente intrecciati e pacciamati.
Lì dormivano i ventisette giovani Romani che cambiavano turno a rotazione trimestrale di quattordici e tredici, ma appena più in basso, dove la strada battuta s’inoltrava nel bosco di una vallecola che s’infilava fra il piatto colle Fidenate e il Sacro Monte Augurale, ce n’erano altre e più rozze per quanto più allegre, una dozzina, con fumi che svaporavano dietro i tetti a punta nell’aria già calda del primo mattino, qualche porco, alcune oche, dei cani e qualche bambino nudo a razzolare intorno.
“Riuscite a trovar da fornicare ovunque voi Romani…” non si trattenne dal dire con sarcasmo Vipsio.
Stavolta Ostio sbottò.
“Ancora con quella storia? Fu una stupidaggine simbolica di Romolo quel ratto, non eran per lui le cose simboliche… E fu anche per via di quella faccenda dell’interdizione ereditaria fra Sabini e Latini. Solo che noi Romani non siamo strettamente Latini…”
“Solo quando vi fa comodo” stilettò con un ghigno il Sabino.
Ostio fece un sorriso ferino.
“Sai dove sono nato io, Vipsio? A Medullum, fondata dagli Albani nel territorio dei Sabini diciassette generazioni fa. Ceduta e ripresa più volte, saccheggiata da entrambi più volte, e sempre – nel racconto dei padri dei padri – quando la pace riportava un po’ di agio sulle mense. Gens albane e gens sabine, gens miste ma tutte vessate da quelli che si credono “puri”.
Di chi credi che siamo figli, noi di Medullia? Di quella minuscola città o dei suoi campi?”
Vipsio si trovò d’un lampo a considerare quanto importante potesse essere la purezza del suo sangue, quanto l’integrità della sua stirpe, e in cosa consistesse questa “integrità”.
“E questo sono i Romani, per questo siamo Romani. Non è che noi affasciniamo le donne, Vipsio! Noi affasciniamo i giovani, i soprannumerari, gli espulsi, i banditi. Offriamo un futuro a uomini che possano proteggere e ben nutrire le proprie donne. Roma offre opportunità: di Romolo si potrà dir tutto ma non che non abbia saputo far rispettare il nome della sua Città quanto il suo stesso. E quindi quello dei suoi Cittadini.”
Fece un saluto verso i militi del corpo di guardia Romano che si stavano allenando in una piana assolata lungo la sponda del fiume, ogni tanto gettandosi dentro le acque turbinose con fragore e risate, poi proseguì sopravanzando di qualche passo verso il bosco l’attonito Sacerdote di Quirino, ma continuando a parlare oltre la spalla.
“Ogni quanto sostituite il corpo di guardia ai ponti, fra l’altro costruiti dagli Etruschi, che si vede la mano? Interamente una volta al mese, non è certo un segreto. E perché? Questo si capisce guardandoli: padri di famiglia, con uno, due, forse già tre figli e forse solo uno già atto a lavorare i campi, o forse già uno di troppo. Che vorrebbe venire a Roma ed essere a fare un tuffo fra quei ragazzi pure lui, forse… Ma il punto è un altro!”
Si fermò improvvisamente, voltandosi e scostando da sé Vipsio che gli era finito contro, tenendogli le mani sulle spalle.
“Quei Sabini, per il patto fra Tito e Romolo, dovrebbero comunque essere Romani, della Tribù dei Tities ma pur sempre soprattutto Romani, come i Ramnes da questa parte sono sì Latini, ma prima di tutto Romani. Come lo erano quei Luceres a cavallo, in buona parte Tusci e Umbri. Questo ultimamente non è, vengono mandati da Cures, il patto non è rispettato e non so per chi sia peggio” concluse lasciando le spalle del Sabino e riprendendo il cammino.
Vipsio si volse un istante a considerare i suoi compatrioti che bivaccavano all’ombra di tettoie di felci dall’altra parte del fiume, poi seguì il Romano di nuovo nel bosco frinente di cicale oltre le capanne, scrollando sempre più la testa.

La strada, pista battuta, sentiero largo qualche metro nel sottobosco ora roccioso, ora polveroso, muschioso in prossimità del torrente che guadarono a un bivio e di nuovo oltre un ruscello, in una radura con alcune giovenche e i loro vitelli e il bovaro addormentato sotto un salice, saliva dolcemente fino a sbucare in una sorta di ronzante piana di crinali a mammellona, di ampi prati rinsecchiti intervallati da rade querce e intersecati da improvvisi fossi o valloni profondi poche decine di metri fino ai torrenti sottostanti, nereggianti di cespugli di rosa canina, sorbi, carrubi e quercioli.
Tutto attorno, in distanza, sotto il sole sempre più alto che offuscava ogni percezione, le sagome dei monti Ernici, Equi, Sabini, Lucretili, la groppa del Soratte, i tusci Sabatini a far da contraltare vulcanico ai Nemorensi di Tuscolo e Alba Longa.
In basso, al centro immanente di ogni cosa, ogni tanto fra due mammelle boscose serpeggiava un’ansa del Tevere.
Era ormai vicina l’ora media quando giunsero in una sparpagliata cittadina di capanne latine difesa da un misero aggere erboso trascurato da tempo, la cui parte più antica s’addensava fra due fossi con due famose sorgenti ferruginose nascoste da una boscaglia ben curata.
“Si dovrà trovare chi ci dia da mangiare, qui a Ficulae” sospirò Ostio togliendosi il cappello di paglia che il previdente Sacerdote di Quirino gli aveva affidato appena usciti dal bosco, e sventolandosi per allontanare le mosche e i tafani indicò con l’altra mano le capanne decorate fra i radi alberi a cavallo della strada.
“Sì, ma  non con quel tono” affermò Vipsio deviando fra la matrice dei due fossi verso l’apice del piatto sperone tufaceo dove si addensava la cittadina.
Si inoltrarono in mezzo alle ben distanziate capanne convesse, alcune porticate, tutte col loro piccolo patio davanti alla porta, rallegrate da intonacature geometriche a diversi colori pastello e disegni di facile o più oscura interpretazione, occhieggiati curiosamente da donne intente ai loro lavori domestici e bambini traballanti che li scrutavano allibiti o sorridenti, fra oche sospettose più grandi di loro e cagnini spauriti, piccoli porcelli, pulcini pigolanti, fino a un minuscolo tempio tuscanico, leggiadramente bardato con antefisse fittili dipinte, come dipinte erano le colonne intonacate a varie sfumature di giallo, fino all’ocra del plinto e i piatti capitelli sanguigni.
“Lars Arns!” sussurrò ma con decisione Vipsio battendo con le nocche alla porta della capanna più vicina, unita al tempio da un boschetto di allori.
La vecchietta che venne ad aprire li degnò di un’occhiata truce e sospettosa.
“Sono Vipsio Voltinio figlio di Vipsanio, nipote di Vespio. Io e il mio amico Ostio Ostilio figlio di Quintillo chiediamo ospitalità al nobile Lars Arns.”
“Nipote di?” chiese la vecchia.
“Non conosco i miei ascendenti, nemmeno di mia madre che morì mettendomi al mondo” rispose Ostio, atono.
“Non ha importanza – disse una voce sottile ma ferma nell’ombra dietro di lei – Sei tu stesso un Ascendente, o Romano, questo solo importa alla tua stirpe…”

Dietro al boschetto di allori c’era una grande quercia, aggettante i suoi rami oltre le branche sul più profondo dei due fossi, e lì sotto Lars Arns fece servire dalla vecchia e da un paio di ragazzini un pranzo a base di formaggio fresco, cipolle selvatiche, olive salate arrostite, fave secche rinvenute nell’aceto, una puls cicerchiata insaporita da porro e pezzi di carne di vacca salata bollita nel latte.
“Non mangi carne? – chiese Vipsio indicando i bocconcini che Ostio spostava sul lato della scodella – Nemmeno Numa. Dice che non c’è un preciso motivo rituale, ma che depura, e lui ha molto da depurarsi…”
“Immagino da quando è morta la moglie, Tazia…”
“Sì. Più o meno…”
“No. Io mangio carne quando ce n’è. Fresca o frollata, o anche questa secca e bollita, in caso di necessità. Ma ora come ora mi fa pensare a qualcosa che… non me la fa mangiare…”
“Posso prenderla io allora? C’è qualcosa che sfugge in te, o Romano…”
“Il Mondo non riuscirà a sfuggire ai Romani, se il motivo è quello che so io…” affermò flebilmente il vecchio Lars, smettendo di succhiare il suo boccone e lanciandolo ai cani che ciondolavano attorno, pronti appunto a inferocirsi su quello.
Ostio gli lanciò uno sguardo intento, mentre sorseggiava l’acre vino sia pur mescolato ad acqua freschissima e leggermente ferruginosa.
“Troppa gente non riesce a tener un cece in bocca. Non che ci fosse da sperarlo, d’altronde.”
“Quel cece, se sputato non è arrivato fino a me” disse Vipsio con voce che faceva intendere come il vino gli piacesse comunque berlo puro.
“Meglio, Vipsio, meglio, credi a me, meglio…” concluse Ostio alzandosi e allontanandosi bruscamente verso il sentiero che scendeva alla fonte nel canalone, mentre il vecchio Lars tentennava il capo in direzione del sempre più disorientato Sabino.

Dopo un breve sonno ristoratore, Vipsio scese il sentiero scavato fra il tenero tufo e il duro calcare, e lo trovò che osservava con occhio acuto gli scavatori di argilla che portavano le loro ceste alle vasche di depurazione, dove dopo il lavaggio i pani salivano alle officine e alle botteghe nelle capanne più in alto, sopra i sentieri fra le tombe.
“Ammirevole – disse Ostio mentre il Sabino gli calcava in testa il cappellaccio mercureo di paglia e si asciugava la fronte sotto al proprio, di feltro e di foggia frigia – Lars Arns saprà sicuramente chi sia stato il primo che ha scoperto quella strana vena d’argilla, e vicino al tempio ci sarà l’heroon del primo a cui è venuto in mente di fare vasi qui, immagino…”
“Dovrebbe essere proprio sotto le fondazioni del tempio, infatti. L’heroon del fondatore di Ficulae se è questo che intendi, un Tracio a quanto si sa. Per l’argilla, è stato Ercole in persona a plasmare i primi vasi qui…”
Ostio lo guardò inaspettatamente ilare.
“Ha fatto proprio di tutto Ercole, eh! Pure il vasaio… Bene, ci riavviamo? Dove dormiremo?”
“Nomentum è a portata di passo prima di sera ed Eretum non molto più lontana. Altrimenti qualche stazzo si troverà.”
“Portiamoci a Nomentum, quindi, che di stazzi ne ho avuto fin troppi con Romolo…”

Sarebbero certo arrivati a Nomentum prima del tramonto, se un temporale grandinante non li avesse costretti in una grotta calcarea, appunto uno stazzo comodo per una trentina di pecore, con delle fascine di stocchi di canapa a ripararne l’entrata.
“Ora la strada sarà un pantano fino a domattina, e col sole già alto” sbuffò Ostio.
“Ho portato con me gli avanzi di formaggio e di focaccia – disse neutro Vipsio – e un otriculo di vino.”
“Acqua?”
“Acqua? Piove! Oh…”
“Piove, certo… beh, c’è della paglia pulita qui in giro…?”
Avevano appena finito di appendere le tuniche alla roccia prima di cercare d’accendere un fuoco con i rimasugli rimasti dal precedente di chissà quale pastore, che le fascine all’ingresso della grotta si sfasciarono bruscamente e irruppero una mezza dozzina di uomini fradici e altrettanti cani ringhianti e uggiolanti.
“Cosa fate qui?” chiese il più anziano, atticciato, con parecchi inverni meno di trenta nella memoria di sé, considerò Vipsio, e gli altri molto più giovani, poco più o poco meno che ragazzini.
“Quel che penso ci facciate voi – rispose senza scomporsi Ostio riuscendo finalmente ad accendere l’esca – stiamo al riparo.”
“Riparo? Questo locus è nostro. È vocato alla Fortuna: la Mala, la vostra se non avete pecuniae da farle omaggio!”
Lo schiocco d’un lampo caduto vicino e poi il tuono sembrarono voler sottolineare la risata del bandito e dei suoi accoliti, prima che Ostio potesse ribattere, sempre in tono piano:
La Dea Mala Fortuna è più potente di quel che tu stesso pensi, e pone la sua mano su chi più la onora combattendola.”
Guardando la reazione a quelle parole mentre Ostio lentamente si alzava dalla posizione prona di fronte al fuoco appena acceso a colpi di pietra focaia, Vipsio non potè fare a meno di pensare che in quella grotta, durante i temporali autunnali ci si radunavano le pecore; ora in questa bufera estiva i lupi.
Solo coperto dal sublicula, Ostio oppose il suo torace robusto ma decadente sotto al mento sbigottito del suo antagonista, i pugni piazzati sui fianchi, la barba grigia fremente.
“Il sacello della Dea Mala Fortuna sai dov’è…”
“Ma quello è Ostio Ostilio!” esclamò soffocata una voce fra i lupi umani, mentre un calcio e un guaito frenavano un cane dall’avventarsi sulle sacche dei due peregrini.
Improvvisamente a Vipsio parve che nella caverna, illuminata più dai lampi che si susseguivano all’esterno che dal languido focherello, i lupi diventassero pecore, o almeno lupacchiotti.
“È vero! – disse un altro prima che il tuono ne soffocasse il tono – Mi ricordo quando ci condusse a ripopolare Cameria con Romolo!”
“Io ero bambino e molto piccolo, ma mi ricordo che Romolo… sì lui alla distribuzione delle terre di Crustumentum era al suo fianco!”
“Era con Romolo quando batterono i Veienti e conquistarono i Septem Pagi! Me li ricordo assieme! Passarono a cavallo per Fidenae al ritorno!”
“No! Era Osto Ostilio!”
“Che ne sai tu che non eri ancora nato!”
“E tu?”
“Osto fu molto generoso con i Ceninensi, diceva mia madre…”
Ostio alzò le braccia per chiedere silenzio, a due spanne dal loro ormai presunto capo, frastornato e sbigottito.
“Il sacello della Dea Mala Fortuna è sull’Esquilino, perché l’Esquilino è la porta di Roma! E Roma è la patria di tutti gli sfortunati in cerca di nuova fortuna: Mala Fortuna la si lascia all’ingresso, per trovare Bona Fortuna poi! Così per decisione e auspici presi da Romolo e da tutti i Senutes!
Fidatevi: Fides è un’altra Dea portata a Roma con le guerre combattute da Romolo e da tutti noi, e Roma è pronta ad accogliervi con fiducia! La vera Fortuna, la Bona Fortuna, protegge le opportunità, non i latrocinii: noi questi cominciammo a combattere con Romolo, la Mala Dea sottoponemmo alla Bona Dea, la Fides conquistammo per ottenere la fiducia degli Dei!
Noi eravamo come voi, a quei tempi: non c’erano campi che potessimo coltivare se non con le spade…”
Il temporale scemò allontanandosi in un borborigma sempre più confuso, e avvolgendosi nel leggero manto di lana estratto dalla sacca per approcciare la notte vicino alle braci, cui cercavano di accostarsi sgomitando pure i puzzolenti ribelli domati, ognuno con una nuova domanda per Ostio, Vipsio considerò che tutto sommato i Romani avevano qualcosa di convincente, non solo nel loro fare…

La mattina dopo ripresero il cammino verso monte, mentre i giovani – ormai già Romani dopo quella notte passata a interpellare Ostio sulla storia di Romolo, sulla morte di Remo, sul combattimento di suo fratello Osto contro Mettio Curzio e via via su quei fatti che già nei loro racconti avrebbero cominciato a diventar mitici – scendevano verso l’Anius per salire i Colli e farsi inquadrare nelle Curie romulee.
“Forse è il caso di fermarsi un poco sotto Nomentum e prendere un infuso caldo?” propose Vipsio, che nel proprio dormiveglia ormai aveva incorporato parole, opere ed omissioni di Ostio fino all’alba, e se proprio non ne compativa le occhiaie, ne condivideva la stanchezza.
“A Nomentum od ovunque si possa trovare” rispose stralunato ma risoluto Ostio.
Giunti però, dopo qualche centinaio di passi fangosi, al diverticolo che conduceva all’antica città un tempo contesa da tanti popoli, Vipsio accennò ad ancora più avanti nel bosco della forra dove scorreva la pista.
“Fra Nomentum ed Eretum c’è un luogo migliore dove forse converrebbe sostare, più appartato intendo…”
“Risparmiamo ai tuoi compatrioti dubbi e domande, intendi?” chiese, affannato ma sempre inguaribilmente cinico, Ostio.
“Anche. Ma non solo.”
La via tracciata da secoli di transumanza, in effetti evitava il lieve rilievo su cui sorgeva la città e tornava a salire sul crinale, ma un altro diverticolo conduceva ancora più in basso nella forra, fra tombe a inumazione scavate nella roccia chiuse con lastre di tufo e urne cinerarie incassate nella terra, in un’atmosfera sempre più maleodorante di uova marce fino a una radura pianeggiante ai piedi di uno sperone tufaceo, dove sgorgava una polla di acqua sulfurea che formava un laghetto lattiginoso.
Un ponticello di piccoli tronchi scavalcava il rivolo melmoso che scaricava la polla, per giungere al modesto sacello dipinto in giallo e rosso opachi del Genius Loci, una Ninfa evidentemente ancella della Dea Mefite, mentre poco più avanti, sempre appoggiata alla roccia vicino alle sponde del laghetto, c’era una capanna intonacata e colorata a chiazze ormai stinte dal cui tetto a punta usciva un filo di fumo.
“Siediti là all’ombra di quell’olmo sacro a Morfeo e aspetta. – disse Vipsio dopo aver attraversato il ponticello e lasciato alcuni semi sull’ara del sacello – Io vado a cercare qualcosa di rifocillante.”
Ostio assentì e si lasciò cadere sfinito sotto l’albero cicalante che gli aveva indicato il Sacerdote di Giano.
Quando Vipsio tornò dalla capanna con due profonde scodelle fumanti in mano, dormiva russando sonoramente incurante dalle mosche che l’assidiavano.
Vipsio lo considerò per qualche istante con una punta di pena, ma fu anche con una punta di sadizia che lo risvegliò scuotendolo con la punta del piede.
“Brodo di pecora, con lucaniche” gli disse serafico consegnandogli la scodella di terracotta.
“Con che?”
“Bevi.”
Ostio giunse in pochi sorsi in fondo alla bevanda calda, sapida e speziata di erbe pungenti, poi si bloccò guardando in fondo al recipiente.
“E quelli cosa sono?” chiese estraendo cautamente con due dita un sottile bastoncino morbido, lungo e largo quanto un dito.
“Le lucaniche. Il tabernario è stato per qualche tempo mercante di vasi. Era andato fin nelle città dei Greci, fino a Tarontum per cercare di venderli. Ma si è reso conto in breve che rispetto alla qualità locale, i prodotti di Ficulae son di ben poco pregio oltre che di poco prezzo.
Così, nel ritorno, è passato per le terre dei Lucani e ha imparato questa maniera per contenere la carne tritata nei budelli più sottili degli agnelli, ma anche dei maiali o delle capre stesse. Molto pratica per chi non ha denti buoni per masticar la carne salata o arrostita.”
“Molto pratiche davvero… e gustose!” concordò Ostio osservando l’impasto affumicato e speziato, e pensandole come provviste per un esercito in rapida marcia, pure a Romolo sarebbero piaciute e pure molto.
Il tabernario stesso arrivò portando due scodelle più larghe e meno fonde con quella che si rivelò essere puls cicerchiata e bocconcini di lepre, mentre una ragazzina dietro lui caracollava con un orcio di vino, uno d’acqua e le coppe per bere appoggiate sopra la crocchia di capelli biondi.
“La fonte è purgativa – spiegò Mullus il tabernarius accettando di bere con loro – particolarmente apprezzata dagli anziani. E da chi mangia troppa carne: vengono a prenderla fin dalla Tuscia per certi principi Tirreni. L’avessi immaginato da giovane, avrei commerciato in quella e non in anfore, brocche e tazze…”
“Non sono ancora così anziano per onorarla. – commentò Ostio guardando Vipsio bere il vino puro e onorare la libatio agli Dei inferi con un pregevole rutto – Piuttosto, puoi darci della posca non troppo acetata per il cammino? E qualche lucanica, una focaccia di farro fermentato?
Vipsio, la strada ormai dovrebbe essere asciutta: andiamo.”
Vipsio ruttò ancora, poi s’alzò lanciando uno sguardo d’intesa al compare.
Il Romano consegnò senzaltro discutere al tabernario alcuni sestanti di asse pecuniario di bronzo, che scambiati al mercato ovino dell’Esquilino avrebbero corrisposto a una pecora o tre agnelli, o a una misura d’olio se scambiati al foro olitorio o una cesta  di pesci se fossero stati scambiati al foro piscario, al Velabro, al cambio corrente temporaneamente calmierato dall’assenza di guerre.
Si spogliarono e fecero una rigenerante abluzione integrale nella fonte, poi si asciugarono qualche istante al sole, si rivestirono e uscirono dalla forra risalendo fra urne e tombe, e nel crepitio delle cicale ripresero il lento cammino di crinale fra colline morbide e sempre più alte, abbandonandolo per la mezza costa di valli ariose ma sempre più profonde, sotto un sole sempre più svettante e cocente, respingendo con l’aroma di zolfo i nugoli di mosche rinfrancate dalla pioggia della notte prima che svaporava rapidamente dal terreno, ormai più sassoso e nereggiante che polveroso o fangoso e giallastro, radamente erboso piuttosto che stopposo come nei primi migli.
Attorno, sotto l’azzurro ancora terso, quasi immanenti i monti della Sabina mentre sfocavano quelli Nemorensi col loro profilo vulcanico, le gobbe del monte Soratte sempre a segnare un inconfondibile punto di riferimento per il nord, in basso il corso sinuoso del Tevere con i suoi isolotti boscosi e lontane le creste dei monti Sabatini della Tuscia venate di nubi.
Alle loro spalle, quando si volgevano per prender respiro e ristoro sotto l’ombra di una quercia, finalmente in basso e lontani i colli della Roma Quadrata e del Campidoglio, le valli e la piana, e fra la bassa foschia crescente, la foce del fiume e il mare.
Evitarono anche Eretum: non avevano alcunché da nascondere ma anche alcunché da rivelare ad alcuno, aggirarono per sentieri secondari l’altura su cui giaceva la vetusta città Sabina e continuarono chiusi nei loro pensieri per qualche altro miglio di saliscendi sempre più profondi e collivi, fra oliveti radi ma robusti, vigne arrampicate su prugni, peri e meli, boscaglie cedue fitte o più rade, scarpatelle cespugliose.
“Ti accompagnerò fino a un asylum per i pellegrini solinghi che si recano fra il santuario di Apollo Soranus e il Lucus Feroniae, poco più in su – disse Vipsio al termine di una discesa più ripida e scoscesa, indicando al di là del guado su un torrente che sfociava nel Tevere dopo poche altre curve – là ti lascerò.”
Guardò controluce fra le foglie del faggio sotto cui si erano fermati.
“Ci sono ancora un paio di ore di luce buona, mi farò ospitare dal Sacerdote Quirino presso Eretum. Ma il mio compito, con te, è finito: non penso tu abbia bisogno di compagnia la notte prima di incontrare Numa Pompilio” affermò.
Ostio annuì lentamente. Di compagnia, di domande su Romolo e il suo passato con lui, di domande su Roma, di domande sul futuro, ne aveva avute abbastanza la notte prima.
Ed effettivamente, non sapendo ancora cosa esattamente avrebbe potuto discutere con Numa, era meglio che nessuno gli facesse domande nemmeno su quello.

L’asylum approntato in tempi immemorabili per il pellegrino volto per un qualsiasi motivo a qualsiasi santuario di qualsiasi Dio passasse da quelle parti e dovesse farlo da solo, non era sul sentiero principale che portava a Cures, ripido ma rapido a scendere per le milizie; era piuttosto al termine di uno di quelli secondari che dal contado i Sabini usavano per portare i prodotti dai campi alla città, solo che da lì alla città di Cures non ci si arrivava, come da molti altri sentieri che fornivano ai possibili hostiles falsi percorsi nel bosco.
Era posto su uno stretto sperone di roccia che a fatica emergeva dalla boscaglia diretto verso il Tevere, chiuso da una facciata a tempio tuscanico simile a una tomba ma non scolpita nella roccia stessa, bensì edificata in legno quasi carbonizzato dal tempo, intagliato a figure ormai indistinguibili che volevano forse raffigurare ogni tipo di divinità conosciuta ai tempi dello scultore e di chi l’aveva ispirato.
“Nell’archivio Quirita a Cures sono conservate le descrizioni e le invocazioni ad ognuna di queste immagini – spiegò Vipsio fermando la mano di Ostio che si tendeva a sfiorarle – Numa ne dispose un elenco tempo fa, ma l’interpretazione era già difficile da molte generazioni, e molte sono Tuscie.”
“C’è una cosa che è difficile da comprendere per ognuno che non sia Sabino – borbottò Ostio, aprendo la porticina al centro della facciata – e cioè come sia possibile che Numa non sia indiscutibilmente il vostro Re. Moglie o non moglie.”
“Perché non c’è possibilità di essere Re indiscussi, fra i Sabini! – sbottò Vipsio, come se se lo fosse tenuto fin troppo dentro – Come non c’era fra i nostri avi Spartani, che infatti avevano ed hanno due Re. E in più siamo troppo dispersi in questo territorio di montagna che non è il Latius, non è facile far lega qui.”
“I Sanniti ci stanno riuscendo, a quel che si sente dire. E fra ben altre montagne…”
“I Sabini non sono i Sanniti. I Sabini hanno saputo come comportarsi fin dai tempi dei tempi badando a se stessi, spesso senza alcun Re, solo seguendo l’esempio di Quirino!”
Ostio, ormai dentro, si scostò dalla porticina per far entrare i raggi del sole che calava a occidente e riuscire così a vedere nella piccola grotta costellata di nicchie con umili e minuscoli ex voto, il giaciglio di paglia sul pavimento e l’imago atropa del Dio dei viandanti dietro all’ara calcarea nel fondo.
“Chissà se un giorno i Romani potranno governarsi senza Re, solo sull’esempio di Romolo…” mormorò.
“Spero di no, Senex Ostio Ostilio figlio di Quintilio. Spero non sull’esempio di Romolo!” gli giunse la voce di Vipsio da fuori, e quando uscì per salutarlo e chiedergli cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo per trovare Numa Pompilio, non lo trovò già più.


7 commenti:

  1. Grazie a chi mi mette il titolo eh! Perché io da per me divento un po' semo con questo blogspot qui... ;)

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  2. Ecco, che infatti... ma quell'altro che fine ha fatto?

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  3. Ritiro la proposta fatta nel post precedente. Zeb è OK, titolo a parte ma per quello c'è rimedio (l'AD?).

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  4. Effettivamente, io ci avevo posto come titolo "Septimontium", solo che il bottone adeguato ballava qua e là, poi ha dato errore ma sul "riprova" non faceva cliccare, e infine l'ho trovato pubblicato. Si vede che c'era la persona giusta in giro che ci ha messo quel titolo sulla base di quanto avevo scritto io nelle righe di presentazione.
    Comunque, anche Septimontium non va bene perché penso che sarà il titolo dell'intero romanzo, se vado avanti come dovrei. Visto che se ho capito il meccanismo posso modificarlo, lo trasformerei ne "Il Sale di Romolo": faccio io già dalla terza parte o lo deve fare il tennico?

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    1. Qui al Tamburo ognuno può fare un po' quello che vuole, come vuole e quando vuole. Poi se serve aiuto basta chiedere, dopo aver provato (secondo me).

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    2. Mi spiace di essere arrivata tardi, stamattina ero nella vigna...
      Ho visto che hai corretto il titolo delle tre parti, purtroppo l'indirizzo (URL) rimane quello iniziale, non si può cambiare, che io sappia. Forse Juhan o Marco...
      Ora che hai assimilato il meccanismo, d'ora in poi andrà tutto bene.
      Piuttosto, che ne dici di inserire qualche immagine? ti scrivo a parte.

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    3. L'URL non si può cambiare, ma non credo sia un problema.

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