AB ANTIQUA AD NOVA: IL PRIMO E IL SECONDO
IMPERO VIRTUALE
Questa è la storia di
un sogno che inseguo da più di quarant’anni: “salvare” l’Impero Romano.
Tutto è cominciato che
avevo circa quattro anni. Mio padre aveva un qualche convegno di lavoro a Roma
e portò con se moglie e l’allora unico figlio. Per un qualche motivo l’albergo
era pieno e ci assegnarono una cameretta con un finestrino alto da cui entrava
una luce grigia: il primo ricordo che ho di Roma è infatti di una città grigia.
Pare che io fossi (a
me pare di esserlo sempre stato, da piccolo) di spirito lagnoso andando a
passeggio per le strade, ma appena messo piede nella zona archeologica sulla
via Sacra, improvvisamente come mi si disse mi trasformai.
Come elettrizzato,
correvo fra i ruderi cercando ogni possibile soglia, accarezzavo con la pianta
del piede ogni incavo di ogni masso della via e della piazza del Foro come per
assorbire le vibrazioni dei milioni di piedi che ai tempi le calpestavano per
uso quotidiano, cercavo di rialzare con l’immaginazione le colonne mancanti e
osservavo con imbambolato stupore ciò che c’era e ciò che evidentemente non
c’era più.
Con più diversa
intensità vissi la prima volta di Pompei: circa sei anni dopo, con tutto
l’immaginario già caricato dai libri ancor prima di cominciare le scuole,
davvero cercavo di trovare l’atmosfera di chi passava quelle soglie a lato
delle vie, come se stesse entrando a casa, zompando in ogni uscio.
Roma, la sua Storia,
la sua Civiltà spesso cinica, spesso ipocrita, spesso brutale, spesso
insopportabilmente pomposa, mi è entrata nelle ossa insomma con un’alchimia
naturale, variamente e inutilmente spiegabile: mi innamorai di Roma, e tuttora
la amo, anche la contemporanea in ogni modo insozzata, ma sempre eterna insopportabile
Se Stessa come una vera Dea.
Così, leggi e pensa,
prilla e frulla, un po’ prima dei vent’anni cominciai a fare strani sogni
attorno a due gemelli che per qualche motivo si trovavano a governare come un
Imperatore solo il tardo Impero Romano.
Dato che, da eterno
insonne, per addormentarmi ho presto imparato il trucco di raccontarmi una
storia (o in alternativa di immaginarmi in un luogo freddo e umido, ben avvolto
in panni e coperte), presi a raccontarmi questa, e del come due gemelli dopo
aver fondato e poi salvato Roma, potessero “risalvarla” ancora.
Ma, devo esser
sincero, la faccenda era un po’ troppo esoterica per me: implicava cose come telepatia,
assoluto idem sentire ma contemporaneo occasionale dissentire, con una identica/dissimile
gestione delle cose potenzialmente divertente, ma per far cosa?
E poi chi erano questi
due, e perché non magari tre o quattro? Poi lessi “Il Presidente Moltiplicato”
di Ben Bova e lasciai perdere: non tanto perché qualcuno ci avesse già pensato
prima e in modo diverso, ma la problematica alla fin fine mi pareva troppo
complicata per poterla affrontare razionalmente.
Si stavano invece
avvicinando a lunghi passi gli anni del computer, e della realtà virtuale. La
faccenda dei gemelli era sparita a favore di un altro interrogativo: se si
ricrea una Realtà Virtuale Integrale e ci si immerge un uomo dei nostri tempi
ben attrezzato di moderne conoscenze eclettiche e storicamente aggiornate, può
costui modificare il corso della Storia “maggiore” e se sì, virtuosamente?
Avevo ormai
trent’anni, mi avvicinavo lentamente ma turbolentemente alla laurea, finiti
miracolosamente gli esami ero preda dei tempi burocratici complicati
dall’infartino preso al relatore della Tesi, di giorno a volte andavo in giro
per la Romagna a vender dolciumi dietro una bancarella, altrimenti leggevo e di
notte scrivevo, quando le benefiche ed esigenti incursioni di una Amica me lo
permettevano.
Così, una notte mi
misi in una sorta di capsula, e mi spedii indietro nel tempo, successore di
Giuliano detto l’Apostata, e scrissi di getto in ventitré pagine cosa intendevo
fare, diventate settantatré la notte dopo.
L’anno dopo la laurea,
erano mille e settantatré, esatte, perché la notte che me ne resi conto chiusi Crepusculum e cominciai a pensarci davvero
su. Generate in mille modi fra chilometriche sedute giornaliere di revisione e
improvvisi creativi scatti notturni, inizialmente impalcate in brevi racconti,
dialoghi o considerazioni, poi completamente superate da una revisione unica e
omogenea, obbligata da un computer impazzito (si scoprì poi per la banale
quiescenza della batteria tampone, che non faceva reggere la RAM o qualcosa di
simile) che per l’appunto in un paio di mesi portò L’Impero Virtuale a ricominciare da zero per arrivare a quelle millesettantatré
pagine, indici compresi però. Diviso in due tomi da cinquecento, più dieci di
sommari, le altre sessantatré pagine stan radunate in qualche memoria dispersa…
Di Sol Exoriens e Sol Invictus, ne feci stampare tre copie di ognuno, le ultime uniche
superstiti sono qui sulla mia scrivania, le altre disperse nei maceri della
Mondadori, suppongo… comunque fu tutta una bella esperienza, scriverlo così
come lo scrissi e presentarlo così come potei presentarlo, anche perder tutto
nella nebbia dell’obbligato frullare della Vita è un'esperienza che il Genio di
questo Romanzo mi aveva detto avrei dovuto mettere in conto, intanto che lo
scrivevo…
Un giorno o l’altro
dovrò decidermi a rileggerli integralmente, ma sarà solo quando ne avrò bisogno
per rimettere mano a tutta la baracca dell’Impero Virtuale, per farne qualcosa
di diverso dal piè di partenza delle aspirazioni frustrate di un trentenne: il
piè di partenza sì, ma delle ambizioni frustrate di un cinquantenne.
Insomma, quel
trentenne che ero io vent’anni fa e che era un gran presuntuoso tanto quanto
questo cinquantenne qua, col vantaggio che quello di vent’anni fa non può
ribattere quanto siamo stati coglioni entrambi nel corso di questi anni, che
lui lo sapeva anche al tempo di essere un coglione, ma non necessariamente
scriveva cazzate.
Il che è vero, e per
questo per molte cose andrò a ricercare spiegazioni e situazioni in quella
vecchia versione per allestire la nuova, ma vent’anni fa, buondio, per quanto
pessimista avevo una visione forzosamente ilare di ogni cosa, e quindi forzata.
No che adesso no, ma con una buona dose di amaro sarcasmo in più, che dovrebbe
smorzare tante cose.
E in trecentocinquanta
pagine si può narrar tutto, anche meglio in cinquecento, ma sobriamente. Che
poi è cambiata pure la Storia, là e nel frattempo… e nel frattempo son rimasto indubbiamente
quel vecchio giovane coglione che ero e che son sempre stato, solo un po’ meno
giovane.
NEO IMPERO VIRTUALE SINOPSYS
Lo scopo fin
dall’origine dell’Impero Virtuale è portare un uomo contemporaneo di medie
conoscenze eclettiche – cioè io, perché la narrazione sarà in prima persona – al
soglio Imperiale di Roma nella seconda metà del IV secolo, per deviare il corso
della Storia e mantenere la coesione dell’impero Romano.
La prima parte, Sol Exoriens, in realtà è un sunto
storico romanzato partendo dall’estremo Occidente, cioè dal Vallo di Adriano e
quindi infin d’inizio da
Vercovicium (Housesteads) nel 332 (1085
a.U.c.)
Da qui il protagonista Flavio Elio Budicco – inserito nei Tempi grazie alla realtà
virtuale ma non in pieno controllo di essa, che avrebbe fin dall’inizio
desiderato qualcosa di più caldo e vicino all’obiettivo, ma comunque da qua è
meglio inquadrabile storicamente – come figlio di Centurione limitaneo
viene fin da ragazzino arruolato nelle truppe comitatensi (una sorta di vexillifero
portafortuna all’inizio), combatte Picti e Scoti in Caledonia prima di
attraversare la Britannia scalando i gradi verso le vexillazioni in Gallia,
fino ad incontrare a Vienne Giuliano appena insediato come Cesare, da
Centurione agli inizi del 356 (1109).
Alla sua nascita, Costantinopoli
è stata fondata da appena due anni (1083), Costantino ne ha altri cinque di
vita (337-1090), dal caos della sua successione emerge definitivamente
trionfatore Costanzo II, che dal 350 (1103) regna come unico Augusto ma – dopo
aver per un paio d’anni elevato a Cesare il cugino Flavio Costanzo Gallo prima
di farlo giustiziare – alla fine del 355 (1108) si decide a nominarne il
fratello Flavio Claudio Giuliano Cesare per l’Occidente, inizialmente con ruolo
di alta rappresentanza e poco più, ma con poteri che si ampliano man mano
l’auctoritas del Cesare si allarga con i primi e poi sempre più frequenti
successi militari di Giuliano lungo il Reno.
Qui c’è il primo intervento “ucronico”: Giuliano è un
pessimo cavallerizzo ed Elio gli confeziona un paio di staffe da applicare alla
sella (verranno poi adottate da tutte le truppe di cavalleria di Giuliano, e quindi
nell’Impero). Di conseguenza, Elio entra nella guardia di Giuliano, e per i
primi tre anni da Cesare lo segue fra il suo stato maggiore nelle campagne sul
Reno e nelle stanze invernali a Senones e Lutezia, stringendo amicizia e stima
col suo principale collaboratore, Saturnino Salustio Secondo, autore del testo
didattico “Sugli Dei e sul Mondo” e per il resto antico giovane collaboratore
di Diocleziano e uomo essenzialmente pratico delle cose politiche.
In previsione della prevedibile “auto-proclamazione” del
Cesare in Augusto, per indebolirlo nel 359 (1112) Costanzo chiama Salustio a
Mediolanum e questi si porta dietro Elio, indirizzandolo poi a Roma per
salvarsi dalla eventuale, probabile, disfatta di Giuliano, oppure per aprire i
rapporti col Senato e soprattutto con la Prefettura in caso invece di sia pur
improbabile vittoria sulla volontà di Costanzo, se non sul suo esercito.
La sollevazione volutamente non domata da Giuliano avvenne
effettivamente nel gennaio del 361 (1114), ma Giuliano traccheggiò fino
all’autunno prima di lanciare definitivamente la sfida all’Augusto che a
tradimento gli sobillava i Germani.
Il Caso volle che Costanzo effettivamente morisse sulla
strada di venire ad un definitivo accordo in una maniera o nell’altra con
l’improvvisamente turbolento cugino, e che avesse avuto il sempre riconosciuto
senso dello Stato e della Dinastia per averlo comunque mantenuto come legittimo
erede nel suo testamento.
Dopo esser stato ospite delle principali famiglie senatorie
(in genere tradizionaliste o cristiane nicene e comunque ostili a Costanzo o
perché cristiano o perché ariano) per più di un anno, agli inizi del 362 (1115)
Elio si trova così improvvisamente nominato Prefectus Urbis al posto di Tertullo, con Massimo invece alla Prefettura d’Italia. Non ci mette quindi molto
a realizzare che, nonostante il salasso di Costantinopoli, l’aristocrazia
senatoria fra cui deve dibattersi a Roma è tignosa e impelagante come se ancora
lì si decidessero, o si potessero influenzare, le decisioni sulla Res Publica.
In agosto decide quindi di recarsi a Cartagine per verificare le condizioni
degli accantonamenti granari e delle ville rustiche Imperiali, ma vi trova la
stessa società indolente, indecentemente corrotta, inconsapevole dello scorrere
dei tempi se non attraverso quello degli Imperatori passanti e tassanti. Decide
quindi di mettervi un po’ mano, come ai porti di tutta la costa e ai cantieri
navali in cui fa impostare le prime navi a scheletro portante e manovre mobili.
Elio è ancora a Cartagine quando nel giugno del 363 (1116)
Giuliano muore nel pieno di una ritirata strategica dalla Partia, altrimenti
vastamente devastata con l’esercito già approntato da Costanzo.
Qui interviene la grossa “distorsione storica”: Salustio,
anche in seguito ad una fitta corrispondenza più politica che filosofica con
Elio nell’ultimo anno, accetta il comando della spedizione e il titolo di
Imperator, quindi implicitamente di Dominus Augusto e tutto il resto, ma
contestualmente nomina Elio Augusto Collega pro Pars Occidentis.
Qua comincia Sol
Invictus (ossia l’ucronia)
Salustio non ha intenzione di tornare alla Tetrarchia del suo maestro Diocleziano: si rende conto che per non spezzarsi in due o più parti, l’Impero non può essere governato da una piramide tronca. E la soluzione per inserire il quinto tassello alla piramide governativa successiva delle Province-Diocesi-Prefetture è radicale: abolisce il cesarato come carica dinastica, abroga ogni distinzione amministrativa fra Pars Orientis e Pars Occidentis e inserisce una quinta Prefettura Superiore, l’Interna Maris.
Dal 365 (1118) la Prefettura Superiore Interna Maris strappò
alle Prefetture dioclezianee tutti i porti mediterranei e i loro territori di
competenza. Con capitale a Siracusa, la Prefettura Superiore Interna Maris
regolava tutte le Leggi mercantili e portuali e gestiva i proventi del dazio,
solo i porti di Roma, Costantinopoli, Antiochia e Alessandria erano esenti e
amministrati usualmente dai Prefetti dell’Urbe. A Cartagine si ebbero parecchi
suicidi fra gli illeciti latifondisti e negli anni seguenti parecchi attentati
sia a Salustio che ad Elio.
Alle vecchie Prefetture venne lasciato tutto l’introito
della jugatio-capitatio sulle proprietà terriere e i dazi esterni carovanieri,
salvo un controllo impositivo sulle tariffe massime da parte del governo
Imperiale.
Dopo gli scontri a Roma dell’autunno 366 (1119) per la
successione al Patriarca Liberio, Salustio praticamente abbandona la gestione
corrente degli affari di Stato nelle mani di Elio e del Consilio assistito dai
corrispondenti diretti dei cinque Prefetti e dai Consiglieri di Diocesi, per
dedicarsi a dirimere il problema Cristiano e della forma religiosa della Res
Publica. Oltre che Pontefice Massimo, assume quindi di nuovo dopo Costantino il
titolo di Vescovo Esterno per i Non Cristiani e indìce nel 368 (1121, anno del
maremoto) un Concilio Ecumenico nella Villa Imperiale di Tivoli prima, e poi
(visti i danni teppistici che facevano i Padri Conciliari alle opere d’arte
“idolatre” della cittadella di Adriano) a Palestrina entro gli ambienti
semiabbandonati della Fortuna Primigenia, infine nel palazzo di Diocleziano a
Salona, in clausura dall’ottobre del 371 (1124) fino ad accordo su un documento
che mettesse definitivamente in pace i Cristiani fra di loro e loro stessi con
tutti gli altri Culti dell’Impero senza pretese di primazia per non dire di
assorbimento sincretico.
Nel frattempo, come Augusto Collega (quindi chiaramente
subordinato) Elio mette a debito le partite correnti in uscita del Governo
Imperiale cominciando a distribuire i primi mandati di pagamento garantiti dal
tesoro aureo accumulato con le rimesse di guerra partiche, oltre a stimolare
varie piccole innovazioni tecnologiche e commissionare una carta geografica
cartesiana dell’Impero.
Con l’Oriente sotto il solido controllo di Valentiniano
grazie alla funzionalità della via Interfluminea e delle diramazioni che ormai
sta facendo arrivare fino in Armenia, come gli conferma una visita a Seleucia
nell’autunno del 371 (1124), a Elio non rimane che compiere periodicamente il
periplo del limes renano-danubico, dove la riforma dioclezianeo-salustiana
regge grazie all’affidabilità dei comandanti nominati e confermati: dal tempo
delle campagne oltre-Reno di Giuliano le operazioni sono di ordinaria bonifica
di bande di Bagaudi, ma nelle Province abbandonate della Dacia oltre il Danubio
tramesta un fermento sospetto. Per il momento, comunque, si tratta solo di
verificare l’organizzazione dell’accettazione osmotica di chi vuole passare i
fiumi in famiglie o piccoli clan, Visigoti a parte naturalmente.
Tutto questo viene fatto nel decennio fino al 375 (1128),
quando Salustio ormai ultraottantenne abdica, adottando ovviamente Elio come
successore, lasciandogli un Cristianesimo estenuato disposto a un
patteggiamento accettabile se adeguatamente serrato alla gola, compito che
consiglia di affidare a un certo Ambrogio da Mediolanum.
Imperator
Unico Augusto nel 1128 a quaranta e tre anni, Flavio Elio
Budicco Salustico si trova con questa situazione:
Una Provincia assolutamente nuova dai tempi di Traiano, un
cuneo di territorio Romano fra il Tigri e l’Eufrate che arriva a fronteggiare
Ctesifonte rivivificando Seleucia come presidio fortificato, innervato dalla
strada Interfluminea e dalla rete di forti ormai consolidata da tredici anni di
governatorato militare di Valentiniano.
L’Oriente quindi è apparentemente pacificato da questa
ostentazione di potenza ben più solida di ogni altra prima, dall’Armenia
all’Egitto dove i soli a far casino sono i Giudei contro i Greci contro i
Cristiani, e questi fra di loro per chissà quale vocazione. È anche il problema
principale di tutta l’Africa, Cirenaica compresa, calmati i Mauri spuri eredi
di Massinissa: qui il cristianesimo è ancora fede liberatoria e turbolenta,
Tertulliano scriveva da altri scranni e Agostino è ancora da venire, gli
effetti del Concilio ancora da verificarsi.
Ma mitigare le condizioni di lavoro nelle principali
fattorie dell’Impero è un imperativo di pace sociale per Elio, e non per meri
motivi umanitari. Idem con le miniere di Hispania e con i suoi oliveti
inframezzi di povero orzo, ma per l'appunto qui incentiva la produzione di
birre, da bersi calde ahimè! Perché in Hispania vanno a insediarsi le Tribù
germaniche che chiedono accoglienza oltre al Reno, e quindi si devono fare gli
adeguati lavori per accoglierle, disperderle e farle romanizzare il più
velocemente possibile. In Gallia no, o perlomeno non la maggioranza: per quanto
ancora non densamente popolata, la Gallia ha le sue tradizioni, e non
esattamente di accoglienza. Meno ancora lo sono quelle della Britannia, dove
tuttavia proprio nel 375 Teodosio il Vecchio (per non confonderlo con quel
coglione del figlio tentennatore, mantenuto a fare il villico) conclude una
guerra triennale contro Picti e Scoti riconducendo tutta l’isola alla Libertà
Romana e i superstiti schiavi nel trionfo dedicato all’abdicazione di Salustio
(il quale mandò un messaggio ringraziando sentitamente dal Palazzo di Nicomede e Diocleziano a Nicomedia, dove si era appena ritirato, ma si guardò bene dal muoversi).
Il Limes del Reno, per come era stato curato dai vari
Procuratores Limitanei Augusti come Ammiano Marcellino, Sebastiano, Dagalaif ed
altri, regge ottimamente la sua funzione di filtro, è quello danubiano a dare i
maggiori problemi. Perché ci son da gestire i Visigoti, e non solo loro.
Nel 375 (1128) gli Unni sono ancora lontani qualche migliaio
di miglia dal limes, ma la loro pressione si fa sentire sui Visigoti come sugli
Ostrogoti come sui Gepidi o gli Iazigi, che con i Goti c’entrano niente (son
Sarmati della Crimea insediati lì dai tempi di Tiberio in seguito a una
carestia) se non che ci dovevano litigare fin da quando quelli erano scesi dai
mari iperborei attraversando germani e celti come un coltello nel burro, per
infilarsi in Dacia, venirne cacciati, tornare con svariati alleati vecchi e
nuovi nemici di Roma come i Quadi e i Marcomanni o i Vandali Asdingi, passare
il Danubio e arrivare fino ad Atene, metterla a sacco e scorrazzare per i mari
Orientali come pirati, finché nel 270 (1023) o giù di lì Aureliano aveva deciso
di far sgombrare e sigillare tutta la ripa settentrionale del Danubio, e i pirati
Ostrogoti erano stati pian piano affondati o appiccati. Ma molti erano tornati filtrando
al contrario il limes dove molti daci romanizzati erano rimasti, e insomma i
Goti passando avanti e indietro per di là avevano infine deciso che la vita
alla Romana era la più confortevole che avessero mai incontrato fin lì, dalle
antiche terre nordiche dei ricordi dei nonni.
Ma erano un popolo inquieto, dalla versatilità innata,
inesausto scarpinatore, marinaio come allevatore, scarso coltivatore benché
ignavo d’indole, se preso singolarmente capace di tutto come di niente,
soprattutto di niente e comunque in ritardo se Gepido (della terza stirpe
gotica dei Pigroni), dicevan fra di
loro gli altri Goti d’Oriente e d’Occidente (Ostrogoti e Visigoti), irritabili
e indisciplinati del resto da par loro. Era comunque un popolo utile, per
quanto più numeroso di altri, e l’aver messo Ammiano in capo per la loro
accoglienza fu l’unico segreto per evitare di arrivare all’Adrianopoli che si
sarebbe dovuta compiere tre anni dopo.
Anche per loro quindi si trattava solo di dove e come
stanziarli per farli romanizzare al più presto, ma almeno per Elio era chiaro come
il problema fosse ancora più fuori, piuttosto che già dentro: degli Ostrogoti e
dei Gepidi e di molte altre tribù non si aveva più manifestazione, correvano
voci che fossero stati sottomessi e inglobati in questa famigerata Orda Unna, su
questi Unni si sapeva già nulla e molto, ma insomma erano evidentemente un
nuovo grosso pericolo: si doveva aspettarli o andargli incontro?
Adeguatamente gestiti dalla pubblicistica foraggiata dal
governo Imperiale (ormai insediato stabilmente a Siracusa), gli Unni e la loro
minaccia diventarono il nuovo Hannibal ad
Portas destinato a compattare il popolo ellenistico-romano orientale delle
generazioni successive. Perché era ovvio che con cotante barriere naturali e
militari e di alleanze a disposizione, si doveva solo stare ad aspettarli, gli
Unni, per poi farli volgere indietro a calci. Ma non era destino andasse così…
Il fatto che Elio vedeva e voleva far vedere, era che tutto
era tutto corretto, se si voleva guardare l’Impero come una fortezza. Ma una
fortezza non resiste comunque solo con le forze di chi ci si rinserra, prima o
poi bisogna bonificare i dintorni. E gli Unni furono una buona dimostrazione
del principio.
Ad ogni modo, nel 375 i Visigoti sotto la guida di Atanarico
stanno pacificamente attraversando il medio Danubio con i loro armenti sui
ponti ricostruiti di Traiano, quando a Valentiniano prende un coccolone laggiù
in Partia. Questo spezza l’equilibrio determinato dalle scelte di Salustio:
Elio è costretto a decidere se sostituire Valentiniano col suo successore
naturale, il fratello Valente suo vice che sa essere un frescone, oppure
sostituirlo con qualcuno di pari carisma ma di minore esperienza sul luogo. Decide
per il momento per lo status quo, mandando vari agens in rebus per vagliare
segretamente l’inevitabile sostituzione di Valente.
Nel frattempo, col passar degli anni la pressione sul Reno e
soprattutto sul Danubio si fa sentire rapidamente più intensa. È ormai evidente
per Elio che vanno adottate due politiche ben diverse oltre i due fiumi.
Dal discorso in Senato del Natale Sol Invictus 1130 (377) – in
memoria di Salustio, morto da poche settimane:
“I Germani delle
brughiere e delle foreste al di qua e al di là dall’Elba sono in rimescolamento
guerreggiante fra loro da tempo, ma sono in fin dei conti eredi di quei barbari
che da secoli cercano di strappare in qualsiasi modo un po’ del benessere degli
individui a loro vista soggetti ai Romani, altro alla fine non vogliono che
essere assimilati ai Romani, sono giusto recalcitranti a ricevere le stesse
regole che seguono i Romani, ma in effetti debbono solo capire che come Popolo saranno
sì soggetti di Roma, ma come individui liberi di essere Cives Romani, oppure di
non esserlo ed esserne soggetti.”
Oltre il Danubio – cercò con difficoltà di spiegare in
aulica maniera Elio in quella seduta del Senato nell’aula del Palatium
Sessorium – fra i piedi dei Carpazi e il Volga, gli Unni erano invece una vera
emergenza sociale oltre che militare, che non si poteva risolvere semplicemente
spingendoli a nord, come molti consigliavano, perché anche riuscendoci con
chissà quale dispendio di uomini, sarebbero così inevitabilmente davvero venuti
a ridosso dei Germani, comprimendoli sul limes renano come stavano facendo coi
Goti sul Danubio. E i Germani erano una massa molto più imponente dei Goti,
Eruli, Rugi, Burgundi Scizi e altri Sarmati che ora incombevano sulla Jazigia e
sulla Dobrugia.
Dove davvero cambia la Storia
Dobrugia dove infatti il limes cedette nella maniera più
impensabile, nell’evidentemente fatidico anno 378 (1131), facendo entrare in
Tracia il fiume dell’Orda Unna e dei suoi popoli soggetti.
Migliaia e migliaia di guerrieri a cavallo (gli Unni),
decine di migliaia a piedi (i Goti e tutti gli altri), su carri (i vecchi e i
feriti o malati recuperabili e i pestiferi marmocchi a difesa delle donne),
seguiti da migliaia e migliaia di capre – unne – vacche, buoi, bufali e maiali –
goti, longobardi, venedi, decine di razze bovine e suine al seguito di tribù
che le avevano allevate per millenni nelle piane pontiche settentrionali e su
su fino alle paludi del Volga – attraversano le paludi ghiacciate del delta del
Danubio grazie alla guida di chissà quali traditori (in Senato, a Roma, chissà
come ne son certi fin dal primo arrivo della notizia, e si affrettano a
comunicare questa loro certezza al Principe con una forbita e indignata lettera
che giunge a uno sbalordito Elio ancor prima delle notae ufficiali degli
altrettanto sbigottiti Ammiano e Sebastiano), e si incuneano dritti verso Costantinopoli,
che nemmeno mettono sotto assedio: per e con lo sbalordimento dei difensori
sfondano direttamente le porte della cinta costantiniana e mettono a sacco la
Neo Urbe.
Non solo: avendo ormai da presso tutto l’esercito del
Danubio Inferiore guidato da Sebastiano, sono loro a barricarsi in città mentre
gli astuti Ostrogoti organizzano il passaggio dello stretto con le navi
catturate nei porti della bisantide. Pochi giorni prima dell’arrivo della
flotta allestita dalla Prefettura Superiore Interna Maris, tutta l’Orda con
centinaia di ricchi e influenti prigionieri è già in Asia Minore.
Dal passaggio del Danubio a quello dell’Ellesponto erano
passati meno di due mesi, e questa velocità inficiò quella organizzativa della
Prefettura che pure aveva radunato una flotta imponente nelle sole due
settimane dall’occupazione di Costantinopoli. E l’organizzazione militare delle
altre Prefetture dell’Impero avrebbe anche fermato l’invasione in Frigia, o in Galatia,
o in Cappadocia od ovunque in uno qualsiasi dei passaggi obbligati fra guadi e
valichi dell’Anatolia dove Ruges, il Capoclanditutticlan Unno, e i suoi
consiglieri guidavano la sempre più affamata Orda, se Valente non si fosse
definitivamente dimostrato esiziale e proprio in quell’anno, come evidentemente
doveva essere.
Come Prefetto Augusteo della Provincia Interfluminea non si
era comportato male negli anni trascorsi dalla morte di Valentiniano, e per
quello continuava a mantenere pro tempore anche il governatorato di alcune
Province ancora non assegnate attorno al protettorato dell’Armenia, il cui
Legato Augusteo era in viaggio per Roma per preparare l’avvicendamento e
temporaneamente ricadeva quindi in una confusa giurisdizione, che Valente
rivendicò. Dopodiché, oltre ad allertare gli alleati e far bloccare i passaggi
alle pianure propontiche dove l’Orda voleva dirigersi sperando di unirsi lì
alle tribù unne e alane ancora disperse oltre il Volga, decise di affrontarla
personalmente con parte dell’esercito Comitatense di Partia là dove pensava che
per le vaste piane attorno al lago Van avrebbe facilmente potuto annientarla
sotto gli zoccoli della catafracta.
Quando la notizia giunge a Siracusa, da dove Elio sta per
partire per l’Oriente, Valente è già in marcia per le sorgenti del Tigri, e
quando l’ingiunzione Imperiale a tornare indietro giunge a Valente, la sua
catafracta è già impelagata nelle paludi del lago Van, dove gli Unni gli han
teso un fin troppo ovvio agguato.
Destino di Valente era quindi di morir abbruciato in una
capanna in quell’anno: non in Tracia e non per mano di Visigoti ma in Armenia
per mano di Ostrogoti, comunque con ignominia, se non altro non da Imperatore.
La catastrofe di Van dell’ottobre 378, dove periscono tutti
e cinquemila i catafractarii che Valente si era portato dietro e diecimila dei
quindicimila pedites, con la diaspora delle truppe ausiliarie e federate
chiaramente suona e si ripercuote su tutto il limes Orientale come un collasso
Romano.
I Parti – ormai veri e propri Persiani sotto la dinastia
Sasanide ora impersonata da Ardashir o Artaserse – muovono e invadono la Provincia Interfluminea e sobillano con
rinnovate lusinghe gli Armeni e gli staterelli superstiti ancora Assiri e
Hittiti del Caucaso. Seleucia viene messa sotto assedio ma tutta la linea
fortificata dell’Interfluminea (troppo alleggerita dalle vexillazioni di
Valente) cede fino a Circesium e Dura Europos, anche Amida cade nel giugno 379
(1132), Palmira si sottomette nell’agosto, la marcia di Ardashir verso Damasco
e Antiochia pare inarrestabile e fulminea quanto quella degli Unni l’anno
precedente, ma a forcone tridente.
Senonché, la pronta disponibilità della flotta già allestita
e lo scarico di pressione sul limes del Danubio permettono di spostare
celermente una ingente quantità di truppe ad Antiochia e a congegnare una
strategia a tenaglia che tagli il forcone dal manico. Ci sono le diciassette
legioni del Basso Danubio che si son fatte sorprendere (inevitabilmente,
deciderà poi un apposito processo a Sebastiano) dagli Unni in Dobrugia, ci sono
le tredici del Medio Danubio con venti coorti ausiliarie, quelle addette
all’assistenza dei Visigoti in transito, ci sono i superstiti dell’esercito di
Valente e i transfughi da Amida (il cui comandante venne degradato prima della fine
della guerra), ci sono tre nuove legioni levate per la prima volta da tre
secoli a quella parte in Africa e Spagna fra primi liberi contadini e ultimi
servi della gleba, ci sono anche corpi di cavalleria numida e improbabili fanti
volontari egizi, che però rimangono sulle navi, ci sono i più probabili
volontari delle vexillazioni limitanee della Britannia e i tradizionali
frombolieri delle Baleari.
Ci sono gli stessi Visigoti, che vengono per la prima volta
inquadrati da Ammiano e Atanarico in regolari contingenti ausiliari piuttosto
che federati, e dopo il lungo
addestramento della marcia nel deserto oltre Palmira, sono la punta di diamante
nelle battaglie decisive a Ctesifonte del maggio 380 (1133) – dove l’arrivo
della cavalleria leggera di Teodosio il Vecchio fu fondamentale – e a Susa nel
gennaio del 381 (1134), che per il resto fu uno spettacolare macello fra
catafractari.
Susa, sì. Perché dopo la battaglia e la messa a sacco di
Ctesifonte, Elio si prende la soddisfazione di compiere il sogno di Traiano,
velleità di Costantino e progetto abortito di Giuliano: sulle orme di
Alessandro Magno passa e aggira i monti Zagros mentre gli Armeni li scavalcano
da nord, e va a dare una suonata ai Persiani davvero a casa loro.
Nel frattempo, fra i pinnacoli della Cappadocia dove è stata
ormai spinta, l’Orda unnica pian piano si disgrega man mano che viene a mancare
la sua ragione d’essere: dopo poche batoste ben date e ben prese dagli armeni e
dagli altri caucasici, ormai ben accorti dal tenersi lontani dalle beghe fra
Parti e Romani, gli Unni si mettono ad allevar cavalli all’interno
dell’Anatolia, gli Ostrogoti migrano verso le coste, gli Eruli e gli altri prendono
ad allevar bovini e far carne salata per l’Oriente, ma in seguito anche per
l’Occidente.
Per la fine del 381 (1134), col ritorno delle legioni sul
Danubio a scacciare le poche tribù sarmate scampate all’Orda e sobillate dagli
Iazigi, che poi contavano di saccheggiare loro al ritorno, e la decisa ripresa
di possesso della ripa settentrionale del fiume lungo la linea di Diocleziano,
la Pax Imperii pare esser finalmente ristabilita, e in sorprendentemente poco
tempo.
Qui finisce Sol
Invictus, seconda parte ucronica dell’Impero Virtuale, e comincia la terza e
ultima parte
Qui comincia
Crepusculum (ossia l’utopia)
Fatti smontare e trasportare a Roma i palazzi e i templi di
Susa e Persepoli che poi si vedrà dove ricostruirli, instaurato un governo
fantoccio ad Ecbatana giusto per tener fermo un po’ di tempo per saccheggiare
il saccheggiabile della Persia, Elio può tornare a Siracusa per il Natale Sol
Invictus del 1134 certo di aver messo debitamente mano a un bello scompiglio,
fra l’autunno del 378 e quello del 381 (1131-1134).
Per quanto il Senato di Roma (ormai unificato con i profughi
di Costantinopoli) gli attribuisca ovviamente il Trionfo, Triplice secondo
chissà quali misteriosi calcoli e dibattiti, Elio lo accetta con compiacimento
soprattutto perché, in tutto quello sconvolgimento, il limes Renano era stato
calmo e inusualmente tranquillo, segno che il bubbone unno scoppiato migliaia
di miglia addietro aveva veramente allentato la pressione su tutti quei popoli
germanici per cui ora si poneva il problema di una tranquilla annessione.
Mentre il governo fantoccio di Ecbatana presto soccombe ad
una anarchia Persica in cui nemmeno il marasmatico Impero Gupta d’oltre Indo sa
che fare, tutta la Mesopotamia viene sottoposta a nuovi lavori di bonifica che
infine rinnovano quelli antichi, l’intero Oriente rivive senza imposta vergogna
il spendi-spandi cui si era abituato per secoli, inondato da nuova moneta
pesante e leggera e di credito che spinge i consumi e i commerci.
Ora si possono introdurre nuove conoscenze, che Elio
commissiona suggerendo argomenti come il versoio all’aratro o la rotazione a
maggese che stupiscono ma intrigano i suoi interlocutori. Elio insomma quindi
guida, prudentemente, la tecnologia. Pre-industriale, per quanto può.
Ora che comincia a formarsi nuova ricchezza oltre quella
incamerata dalla Guerra Persiana, si può redistribuirla, i commerci nei
trent’anni successivi prosperano sempre più, le Leggi contro le servitù della
gleba distorsione del sistema fiscale dioclezianeo si fan più stringenti, ma il
problema è sostituire la produzione latifondistica, che ormai è in funzione
solo di Roma, decaduta la Neo Urbe.
La soluzione di Elio può sembrar bizzarra ancor prima che
cinica: suscita una “falsa guerra”, e vi trascina quasi tutti i cittadini di
Roma.
Con uno stratagemma cinico.
Dal 385 (1138) al 410 (1163), quasi mezzo milione di Romani
maschi (Romani di Roma ma anche di Marsiglia, Cartagine, Novacarthago e
dovunque si coagulasse qualche pletora di nullafacenti ammassanti circhi, terme
e anfiteatri), in buona parte con famiglie appresso, si trova inquadrato a
rotazione in corpi “soprannumerari” delle legioni impegnate in Germania a
convincere più che conquistare gli inebetiti Germani, a costruir strade oltre
il Reno, oltre l’Elba, ad incrociare le altre strade che i loro concittadini di
Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e
delle altre turbolente città Orientali fan risalire dalle piane Podoliche al
seguito delle legioni qui altrettanto decise per una volta con gli Iazigi,
attraverso i Tatra fino all’Oder e alla Neisse, dove si appoggia il nuovo Limes
con la rinnovata rete di fortezze trasponendo quelle renane, e a ridosso dei
Monti Tatra quelle danubiche fino a congiungersi col vallo che viene costruito
fra le alture del Dniepr e quelle del Donec, e dalla foce del Volga al Mar
Caspio dove viene scavato un canale fortificato.
E nuove città, ovviamente, nuovi commerci con i popoli
baltici, nuovo annusare verso gli Urali… chi vuole torna, chi vuole resta o va
più in là.
C’è l’Europa Res
Publica Romana di qua che si assesta e si organizza per affrontare l’Europa Res Nullius di là dal nuovo
Limes, insomma: l’Impero è ingrandito di un buon terzo ma nulla di nuovo sotto
il Sole della sua Storia.
Più a oriente il Sole invece ha cambiato decisamente
l’inclinazione dei suoi raggi. Protetta dal nuovo Limes Zagrensis che
scorre sulle colline ai piedi dell’altipiano iranico la via Interfluminea viene
allungata fino a Teredon, le foci del Tigri e dell’Eufrate incanalate per non
più insabbiare il suo porto al culmine del Golfo Persico, dove i commerci con
l’India e la Cina cominciano a farsi sempre più fiorenti.
Dopo l’Egitto, che può testimoniare come da quattrocento
anni ci stiano benissimo, anche la Mesopotamia può finalmente definitivamente
portare a Roma le sue antiche insegne dei tempi di Ur, mentre l’Africa tutta
plaude alle nuove mietitrici trainate e alle nuove trebbie stabili che liberano
dall’esigenza della servitù ogni nuova generazione di contadini.
Così come in Spagna, dove le miniere continuano ad essere
riservate ai criminali di tutto l’Impero, come del resto ogni miniera
dell’Impero.
I Bagaudi di Gallia, i Briganti di Britannia, i
Circoncellioni d’Africa, gli Hasciascini d’oriente, tutte bande di ladroni
professionali o di poveracci organizzati alla bell’e meglio: il mascalzone di
scaltrezza si punisce e recupera in altro modo che sprecato in miniera, quello imbrancato
ha solo bisogno di capi armati di frusta e di sano sudore.
In Gallia, e in Britannia, e in Pannonia e nell’Illirico, e
in Tracia, e naturalmente nelle sacre Grecia e Italia, tutto pare continuare il
percorso dei tempi di sempre, senza più minacce incombenti, inconsapevoli
viventi di quel che avrebbe dovuto essere Decadenza e Medioevo, e invece
continuò ad essere vita mediocre anche dopo l’abdicazione di Elio il 24 Agosto
410, 1163 dalla fondazione di Roma.
Appendice
Il problema è abdicare a favore di chi e nelle mani di chi,
formalmente.
Sostanzialmente, Elio eredita da Salustio un Consilium
Principis che azzera tutte le cariche di Corte e risponde “collegialmente” alle
istanze della periferia, in primis delle Prefetture.
Collegialmente significa che ogni membro del Consilio agisce
in autonomia ma a nome di tutto il Collegio Consiliare, che dirime in autonomia
ma stretta collaborazione col Principe. L’obiettivo di Elio è quello di
selezionare negli anni un gruppo che possa ampliarsi fino alla giusta misura
per arrivare a cooptarsi e ad esprimere loro stessi il Principe.
A controllo comunque del vero Governo, che dopo i fatti del
378-381 venne effettivamente istituito con un Collegio di cinque Auxiliares
Praefectizi e venticinque Consilieres Docesianis, portato poi a sette e
trentadue dopo la fondazione delle Prefetture Ultra Germanica nel 390 e Unnica Transcaucasica
nel 395.
In tutto ciò, il Senato di Roma è ancora completamente
esautorato se non per un formale invito a formale Senatoconsulto, e la consacrazione
Pro Dei e Pro Populi del nuovo Augusto affidata a un Concistoro di
rappresentanti piramidalmente eletti di tutti i culti e religioni dell’Impero
(fra cui in mezzo, qualche cristiano, che uno solo a rappresentarli non ci si
riuscì proprio, almeno durante il Pontificato di Elio Budicco Salustico Augusto).
Alla Democrazia compiuta, ci penserà poi qualcuno dei suoi
successori, considerando cosa sia ora il Popolo Romano…
Alle prime luci
dell’alba del 24 Agosto del 1163 ab Urbe condita, nella Piazza Aurea, in cima
alla scalinata che portava all’ingresso principale del Palazzo Palatino, Flavio
Elio Budicco Salustico consegnò i simboli dell’Imperium al suo successore
designato dal Consilio, e col futuro gli consegnò il proprio giudizio alla
Storia, sparendo a piedi per la Sacra Via nella nebbia che ancora invadeva il
Foro, prima che si alzasse la plebe in attesa di una giornata di sole
splendente alle terme…
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