mercoledì 11 febbraio 2015

IL PRIMO E IL SECONDO IMPERO VIRTUALE

AB ANTIQUA AD NOVA: IL PRIMO E IL SECONDO IMPERO VIRTUALE

Questa è la storia di un sogno che inseguo da più di quarant’anni: “salvare” l’Impero Romano.
Tutto è cominciato che avevo circa quattro anni. Mio padre aveva un qualche convegno di lavoro a Roma e portò con se moglie e l’allora unico figlio. Per un qualche motivo l’albergo era pieno e ci assegnarono una cameretta con un finestrino alto da cui entrava una luce grigia: il primo ricordo che ho di Roma è infatti di una città grigia.
Pare che io fossi (a me pare di esserlo sempre stato, da piccolo) di spirito lagnoso andando a passeggio per le strade, ma appena messo piede nella zona archeologica sulla via Sacra, improvvisamente come mi si disse mi trasformai.
Come elettrizzato, correvo fra i ruderi cercando ogni possibile soglia, accarezzavo con la pianta del piede ogni incavo di ogni masso della via e della piazza del Foro come per assorbire le vibrazioni dei milioni di piedi che ai tempi le calpestavano per uso quotidiano, cercavo di rialzare con l’immaginazione le colonne mancanti e osservavo con imbambolato stupore ciò che c’era e ciò che evidentemente non c’era più.
Con più diversa intensità vissi la prima volta di Pompei: circa sei anni dopo, con tutto l’immaginario già caricato dai libri ancor prima di cominciare le scuole, davvero cercavo di trovare l’atmosfera di chi passava quelle soglie a lato delle vie, come se stesse entrando a casa, zompando in ogni uscio.
Roma, la sua Storia, la sua Civiltà spesso cinica, spesso ipocrita, spesso brutale, spesso insopportabilmente pomposa, mi è entrata nelle ossa insomma con un’alchimia naturale, variamente e inutilmente spiegabile: mi innamorai di Roma, e tuttora la amo, anche la contemporanea in ogni modo insozzata, ma sempre eterna insopportabile Se Stessa come una vera Dea.
Così, leggi e pensa, prilla e frulla, un po’ prima dei vent’anni cominciai a fare strani sogni attorno a due gemelli che per qualche motivo si trovavano a governare come un Imperatore solo il tardo Impero Romano.
Dato che, da eterno insonne, per addormentarmi ho presto imparato il trucco di raccontarmi una storia (o in alternativa di immaginarmi in un luogo freddo e umido, ben avvolto in panni e coperte), presi a raccontarmi questa, e del come due gemelli dopo aver fondato e poi salvato Roma, potessero “risalvarla” ancora.
Ma, devo esser sincero, la faccenda era un po’ troppo esoterica per me: implicava cose come telepatia, assoluto idem sentire ma contemporaneo occasionale dissentire, con una identica/dissimile gestione delle cose potenzialmente divertente, ma per far cosa?
E poi chi erano questi due, e perché non magari tre o quattro? Poi lessi “Il Presidente Moltiplicato” di Ben Bova e lasciai perdere: non tanto perché qualcuno ci avesse già pensato prima e in modo diverso, ma la problematica alla fin fine mi pareva troppo complicata per poterla affrontare razionalmente.
Si stavano invece avvicinando a lunghi passi gli anni del computer, e della realtà virtuale. La faccenda dei gemelli era sparita a favore di un altro interrogativo: se si ricrea una Realtà Virtuale Integrale e ci si immerge un uomo dei nostri tempi ben attrezzato di moderne conoscenze eclettiche e storicamente aggiornate, può costui modificare il corso della Storia “maggiore” e se sì, virtuosamente?
Avevo ormai trent’anni, mi avvicinavo lentamente ma turbolentemente alla laurea, finiti miracolosamente gli esami ero preda dei tempi burocratici complicati dall’infartino preso al relatore della Tesi, di giorno a volte andavo in giro per la Romagna a vender dolciumi dietro una bancarella, altrimenti leggevo e di notte scrivevo, quando le benefiche ed esigenti incursioni di una Amica me lo permettevano.
Così, una notte mi misi in una sorta di capsula, e mi spedii indietro nel tempo, successore di Giuliano detto l’Apostata, e scrissi di getto in ventitré pagine cosa intendevo fare, diventate settantatré la notte dopo.
L’anno dopo la laurea, erano mille e settantatré, esatte, perché la notte che me ne resi conto chiusi Crepusculum e cominciai a pensarci davvero su. Generate in mille modi fra chilometriche sedute giornaliere di revisione e improvvisi creativi scatti notturni, inizialmente impalcate in brevi racconti, dialoghi o considerazioni, poi completamente superate da una revisione unica e omogenea, obbligata da un computer impazzito (si scoprì poi per la banale quiescenza della batteria tampone, che non faceva reggere la RAM o qualcosa di simile) che per l’appunto in un paio di mesi portò L’Impero Virtuale a ricominciare da zero per arrivare a quelle millesettantatré pagine, indici compresi però. Diviso in due tomi da cinquecento, più dieci di sommari, le altre sessantatré pagine stan radunate in qualche memoria dispersa…
Di Sol Exoriens e Sol Invictus, ne feci stampare tre copie di ognuno, le ultime uniche superstiti sono qui sulla mia scrivania, le altre disperse nei maceri della Mondadori, suppongo… comunque fu tutta una bella esperienza, scriverlo così come lo scrissi e presentarlo così come potei presentarlo, anche perder tutto nella nebbia dell’obbligato frullare della Vita è un'esperienza che il Genio di questo Romanzo mi aveva detto avrei dovuto mettere in conto, intanto che lo scrivevo…
Un giorno o l’altro dovrò decidermi a rileggerli integralmente, ma sarà solo quando ne avrò bisogno per rimettere mano a tutta la baracca dell’Impero Virtuale, per farne qualcosa di diverso dal piè di partenza delle aspirazioni frustrate di un trentenne: il piè di partenza sì, ma delle ambizioni frustrate di un cinquantenne.
Insomma, quel trentenne che ero io vent’anni fa e che era un gran presuntuoso tanto quanto questo cinquantenne qua, col vantaggio che quello di vent’anni fa non può ribattere quanto siamo stati coglioni entrambi nel corso di questi anni, che lui lo sapeva anche al tempo di essere un coglione, ma non necessariamente scriveva cazzate.
Il che è vero, e per questo per molte cose andrò a ricercare spiegazioni e situazioni in quella vecchia versione per allestire la nuova, ma vent’anni fa, buondio, per quanto pessimista avevo una visione forzosamente ilare di ogni cosa, e quindi forzata. No che adesso no, ma con una buona dose di amaro sarcasmo in più, che dovrebbe smorzare tante cose.
E in trecentocinquanta pagine si può narrar tutto, anche meglio in cinquecento, ma sobriamente. Che poi è cambiata pure la Storia, là e nel frattempo… e nel frattempo son rimasto indubbiamente quel vecchio giovane coglione che ero e che son sempre stato, solo un po’ meno giovane.

NEO IMPERO VIRTUALE SINOPSYS

Lo scopo fin dall’origine dell’Impero Virtuale è portare un uomo contemporaneo di medie conoscenze eclettiche – cioè io, perché la narrazione sarà in prima persona – al soglio Imperiale di Roma nella seconda metà del IV secolo, per deviare il corso della Storia e mantenere la coesione dell’impero Romano.
La prima parte, Sol Exoriens, in realtà è un sunto storico romanzato partendo dall’estremo Occidente, cioè dal Vallo di Adriano e quindi infin d’inizio da

 Vercovicium (Housesteads) nel 332 (1085 a.U.c.)

Da qui il protagonista Flavio Elio Budicco – inserito nei Tempi grazie alla realtà virtuale ma non in pieno controllo di essa, che avrebbe fin dall’inizio desiderato qualcosa di più caldo e vicino all’obiettivo, ma comunque da qua è meglio inquadrabile storicamente – come figlio di Centurione limitaneo viene fin da ragazzino arruolato nelle truppe comitatensi (una sorta di vexillifero portafortuna all’inizio), combatte Picti e Scoti in Caledonia prima di attraversare la Britannia scalando i gradi verso le vexillazioni in Gallia, fino ad incontrare a Vienne Giuliano appena insediato come Cesare, da Centurione agli inizi del 356 (1109).
Alla sua nascita, Costantinopoli è stata fondata da appena due anni (1083), Costantino ne ha altri cinque di vita (337-1090), dal caos della sua successione emerge definitivamente trionfatore Costanzo II, che dal 350 (1103) regna come unico Augusto ma – dopo aver per un paio d’anni elevato a Cesare il cugino Flavio Costanzo Gallo prima di farlo giustiziare – alla fine del 355 (1108) si decide a nominarne il fratello Flavio Claudio Giuliano Cesare per l’Occidente, inizialmente con ruolo di alta rappresentanza e poco più, ma con poteri che si ampliano man mano l’auctoritas del Cesare si allarga con i primi e poi sempre più frequenti successi militari di Giuliano lungo il Reno.
Qui c’è il primo intervento “ucronico”: Giuliano è un pessimo cavallerizzo ed Elio gli confeziona un paio di staffe da applicare alla sella (verranno poi adottate da tutte le truppe di cavalleria di Giuliano, e quindi nell’Impero). Di conseguenza, Elio entra nella guardia di Giuliano, e per i primi tre anni da Cesare lo segue fra il suo stato maggiore nelle campagne sul Reno e nelle stanze invernali a Senones e Lutezia, stringendo amicizia e stima col suo principale collaboratore, Saturnino Salustio Secondo, autore del testo didattico “Sugli Dei e sul Mondo” e per il resto antico giovane collaboratore di Diocleziano e uomo essenzialmente pratico delle cose politiche.
In previsione della prevedibile “auto-proclamazione” del Cesare in Augusto, per indebolirlo nel 359 (1112) Costanzo chiama Salustio a Mediolanum e questi si porta dietro Elio, indirizzandolo poi a Roma per salvarsi dalla eventuale, probabile, disfatta di Giuliano, oppure per aprire i rapporti col Senato e soprattutto con la Prefettura in caso invece di sia pur improbabile vittoria sulla volontà di Costanzo, se non sul suo esercito.
La sollevazione volutamente non domata da Giuliano avvenne effettivamente nel gennaio del 361 (1114), ma Giuliano traccheggiò fino all’autunno prima di lanciare definitivamente la sfida all’Augusto che a tradimento gli sobillava i Germani.
Il Caso volle che Costanzo effettivamente morisse sulla strada di venire ad un definitivo accordo in una maniera o nell’altra con l’improvvisamente turbolento cugino, e che avesse avuto il sempre riconosciuto senso dello Stato e della Dinastia per averlo comunque mantenuto come legittimo erede nel suo testamento.
Dopo esser stato ospite delle principali famiglie senatorie (in genere tradizionaliste o cristiane nicene e comunque ostili a Costanzo o perché cristiano o perché ariano) per più di un anno, agli inizi del 362 (1115) Elio si trova così improvvisamente nominato Prefectus Urbis al posto di Tertullo, con Massimo invece alla Prefettura d’Italia. Non ci mette quindi molto a realizzare che, nonostante il salasso di Costantinopoli, l’aristocrazia senatoria fra cui deve dibattersi a Roma è tignosa e impelagante come se ancora lì si decidessero, o si potessero influenzare, le decisioni sulla Res Publica. In agosto decide quindi di recarsi a Cartagine per verificare le condizioni degli accantonamenti granari e delle ville rustiche Imperiali, ma vi trova la stessa società indolente, indecentemente corrotta, inconsapevole dello scorrere dei tempi se non attraverso quello degli Imperatori passanti e tassanti. Decide quindi di mettervi un po’ mano, come ai porti di tutta la costa e ai cantieri navali in cui fa impostare le prime navi a scheletro portante e manovre mobili.
Elio è ancora a Cartagine quando nel giugno del 363 (1116) Giuliano muore nel pieno di una ritirata strategica dalla Partia, altrimenti vastamente devastata con l’esercito già approntato da Costanzo.
Qui interviene la grossa “distorsione storica”: Salustio, anche in seguito ad una fitta corrispondenza più politica che filosofica con Elio nell’ultimo anno, accetta il comando della spedizione e il titolo di Imperator, quindi implicitamente di Dominus Augusto e tutto il resto, ma contestualmente nomina Elio Augusto Collega pro Pars Occidentis.

Qua comincia Sol Invictus (ossia l’ucronia)

Salustio non ha intenzione di tornare alla Tetrarchia del suo maestro Diocleziano: si rende conto che per non spezzarsi in due o più parti, l’Impero non può essere governato da una piramide tronca. E la soluzione per inserire il quinto tassello alla piramide governativa successiva delle Province-Diocesi-Prefetture è radicale: abolisce il cesarato come carica dinastica, abroga ogni distinzione amministrativa fra Pars Orientis e Pars Occidentis e inserisce una quinta Prefettura Superiore, l’Interna Maris.
Dal 365 (1118) la Prefettura Superiore Interna Maris strappò alle Prefetture dioclezianee tutti i porti mediterranei e i loro territori di competenza. Con capitale a Siracusa, la Prefettura Superiore Interna Maris regolava tutte le Leggi mercantili e portuali e gestiva i proventi del dazio, solo i porti di Roma, Costantinopoli, Antiochia e Alessandria erano esenti e amministrati usualmente dai Prefetti dell’Urbe. A Cartagine si ebbero parecchi suicidi fra gli illeciti latifondisti e negli anni seguenti parecchi attentati sia a Salustio che ad Elio.
Alle vecchie Prefetture venne lasciato tutto l’introito della jugatio-capitatio sulle proprietà terriere e i dazi esterni carovanieri, salvo un controllo impositivo sulle tariffe massime da parte del governo Imperiale.
Dopo gli scontri a Roma dell’autunno 366 (1119) per la successione al Patriarca Liberio, Salustio praticamente abbandona la gestione corrente degli affari di Stato nelle mani di Elio e del Consilio assistito dai corrispondenti diretti dei cinque Prefetti e dai Consiglieri di Diocesi, per dedicarsi a dirimere il problema Cristiano e della forma religiosa della Res Publica. Oltre che Pontefice Massimo, assume quindi di nuovo dopo Costantino il titolo di Vescovo Esterno per i Non Cristiani e indìce nel 368 (1121, anno del maremoto) un Concilio Ecumenico nella Villa Imperiale di Tivoli prima, e poi (visti i danni teppistici che facevano i Padri Conciliari alle opere d’arte “idolatre” della cittadella di Adriano) a Palestrina entro gli ambienti semiabbandonati della Fortuna Primigenia, infine nel palazzo di Diocleziano a Salona, in clausura dall’ottobre del 371 (1124) fino ad accordo su un documento che mettesse definitivamente in pace i Cristiani fra di loro e loro stessi con tutti gli altri Culti dell’Impero senza pretese di primazia per non dire di assorbimento sincretico.
Nel frattempo, come Augusto Collega (quindi chiaramente subordinato) Elio mette a debito le partite correnti in uscita del Governo Imperiale cominciando a distribuire i primi mandati di pagamento garantiti dal tesoro aureo accumulato con le rimesse di guerra partiche, oltre a stimolare varie piccole innovazioni tecnologiche e commissionare una carta geografica cartesiana dell’Impero.
Con l’Oriente sotto il solido controllo di Valentiniano grazie alla funzionalità della via Interfluminea e delle diramazioni che ormai sta facendo arrivare fino in Armenia, come gli conferma una visita a Seleucia nell’autunno del 371 (1124), a Elio non rimane che compiere periodicamente il periplo del limes renano-danubico, dove la riforma dioclezianeo-salustiana regge grazie all’affidabilità dei comandanti nominati e confermati: dal tempo delle campagne oltre-Reno di Giuliano le operazioni sono di ordinaria bonifica di bande di Bagaudi, ma nelle Province abbandonate della Dacia oltre il Danubio tramesta un fermento sospetto. Per il momento, comunque, si tratta solo di verificare l’organizzazione dell’accettazione osmotica di chi vuole passare i fiumi in famiglie o piccoli clan, Visigoti a parte naturalmente.
Tutto questo viene fatto nel decennio fino al 375 (1128), quando Salustio ormai ultraottantenne abdica, adottando ovviamente Elio come successore, lasciandogli un Cristianesimo estenuato disposto a un patteggiamento accettabile se adeguatamente serrato alla gola, compito che consiglia di affidare a un certo Ambrogio da Mediolanum.

Imperator

Unico Augusto nel 1128 a quaranta e tre anni, Flavio Elio Budicco Salustico si trova con questa situazione:
Una Provincia assolutamente nuova dai tempi di Traiano, un cuneo di territorio Romano fra il Tigri e l’Eufrate che arriva a fronteggiare Ctesifonte rivivificando Seleucia come presidio fortificato, innervato dalla strada Interfluminea e dalla rete di forti ormai consolidata da tredici anni di governatorato militare di Valentiniano.
L’Oriente quindi è apparentemente pacificato da questa ostentazione di potenza ben più solida di ogni altra prima, dall’Armenia all’Egitto dove i soli a far casino sono i Giudei contro i Greci contro i Cristiani, e questi fra di loro per chissà quale vocazione. È anche il problema principale di tutta l’Africa, Cirenaica compresa, calmati i Mauri spuri eredi di Massinissa: qui il cristianesimo è ancora fede liberatoria e turbolenta, Tertulliano scriveva da altri scranni e Agostino è ancora da venire, gli effetti del Concilio ancora da verificarsi.
Ma mitigare le condizioni di lavoro nelle principali fattorie dell’Impero è un imperativo di pace sociale per Elio, e non per meri motivi umanitari. Idem con le miniere di Hispania e con i suoi oliveti inframezzi di povero orzo, ma per l'appunto qui incentiva la produzione di birre, da bersi calde ahimè! Perché in Hispania vanno a insediarsi le Tribù germaniche che chiedono accoglienza oltre al Reno, e quindi si devono fare gli adeguati lavori per accoglierle, disperderle e farle romanizzare il più velocemente possibile. In Gallia no, o perlomeno non la maggioranza: per quanto ancora non densamente popolata, la Gallia ha le sue tradizioni, e non esattamente di accoglienza. Meno ancora lo sono quelle della Britannia, dove tuttavia proprio nel 375 Teodosio il Vecchio (per non confonderlo con quel coglione del figlio tentennatore, mantenuto a fare il villico) conclude una guerra triennale contro Picti e Scoti riconducendo tutta l’isola alla Libertà Romana e i superstiti schiavi nel trionfo dedicato all’abdicazione di Salustio (il quale mandò un messaggio ringraziando sentitamente dal Palazzo di Nicomede e Diocleziano a Nicomedia, dove si era appena ritirato, ma si guardò bene dal muoversi).
Il Limes del Reno, per come era stato curato dai vari Procuratores Limitanei Augusti come Ammiano Marcellino, Sebastiano, Dagalaif ed altri, regge ottimamente la sua funzione di filtro, è quello danubiano a dare i maggiori problemi. Perché ci son da gestire i Visigoti, e non solo loro.
Nel 375 (1128) gli Unni sono ancora lontani qualche migliaio di miglia dal limes, ma la loro pressione si fa sentire sui Visigoti come sugli Ostrogoti come sui Gepidi o gli Iazigi, che con i Goti c’entrano niente (son Sarmati della Crimea insediati lì dai tempi di Tiberio in seguito a una carestia) se non che ci dovevano litigare fin da quando quelli erano scesi dai mari iperborei attraversando germani e celti come un coltello nel burro, per infilarsi in Dacia, venirne cacciati, tornare con svariati alleati vecchi e nuovi nemici di Roma come i Quadi e i Marcomanni o i Vandali Asdingi, passare il Danubio e arrivare fino ad Atene, metterla a sacco e scorrazzare per i mari Orientali come pirati, finché nel 270 (1023) o giù di lì Aureliano aveva deciso di far sgombrare e sigillare tutta la ripa settentrionale del Danubio, e i pirati Ostrogoti erano stati pian piano affondati o appiccati. Ma molti erano tornati filtrando al contrario il limes dove molti daci romanizzati erano rimasti, e insomma i Goti passando avanti e indietro per di là avevano infine deciso che la vita alla Romana era la più confortevole che avessero mai incontrato fin lì, dalle antiche terre nordiche dei ricordi dei nonni.
Ma erano un popolo inquieto, dalla versatilità innata, inesausto scarpinatore, marinaio come allevatore, scarso coltivatore benché ignavo d’indole, se preso singolarmente capace di tutto come di niente, soprattutto di niente e comunque in ritardo se Gepido (della terza stirpe gotica dei Pigroni), dicevan fra di loro gli altri Goti d’Oriente e d’Occidente (Ostrogoti e Visigoti), irritabili e indisciplinati del resto da par loro. Era comunque un popolo utile, per quanto più numeroso di altri, e l’aver messo Ammiano in capo per la loro accoglienza fu l’unico segreto per evitare di arrivare all’Adrianopoli che si sarebbe dovuta compiere tre anni dopo.
Anche per loro quindi si trattava solo di dove e come stanziarli per farli romanizzare al più presto, ma almeno per Elio era chiaro come il problema fosse ancora più fuori, piuttosto che già dentro: degli Ostrogoti e dei Gepidi e di molte altre tribù non si aveva più manifestazione, correvano voci che fossero stati sottomessi e inglobati in questa famigerata Orda Unna, su questi Unni si sapeva già nulla e molto, ma insomma erano evidentemente un nuovo grosso pericolo: si doveva aspettarli o andargli incontro?
Adeguatamente gestiti dalla pubblicistica foraggiata dal governo Imperiale (ormai insediato stabilmente a Siracusa), gli Unni e la loro minaccia diventarono il nuovo Hannibal ad Portas destinato a compattare il popolo ellenistico-romano orientale delle generazioni successive. Perché era ovvio che con cotante barriere naturali e militari e di alleanze a disposizione, si doveva solo stare ad aspettarli, gli Unni, per poi farli volgere indietro a calci. Ma non era destino andasse così…
Il fatto che Elio vedeva e voleva far vedere, era che tutto era tutto corretto, se si voleva guardare l’Impero come una fortezza. Ma una fortezza non resiste comunque solo con le forze di chi ci si rinserra, prima o poi bisogna bonificare i dintorni. E gli Unni furono una buona dimostrazione del principio.
Ad ogni modo, nel 375 i Visigoti sotto la guida di Atanarico stanno pacificamente attraversando il medio Danubio con i loro armenti sui ponti ricostruiti di Traiano, quando a Valentiniano prende un coccolone laggiù in Partia. Questo spezza l’equilibrio determinato dalle scelte di Salustio: Elio è costretto a decidere se sostituire Valentiniano col suo successore naturale, il fratello Valente suo vice che sa essere un frescone, oppure sostituirlo con qualcuno di pari carisma ma di minore esperienza sul luogo. Decide per il momento per lo status quo, mandando vari agens in rebus per vagliare segretamente l’inevitabile sostituzione di Valente.
Nel frattempo, col passar degli anni la pressione sul Reno e soprattutto sul Danubio si fa sentire rapidamente più intensa. È ormai evidente per Elio che vanno adottate due politiche ben diverse oltre i due fiumi.
Dal discorso in Senato del Natale Sol Invictus 1130 (377) – in memoria di Salustio, morto da poche settimane:
“I Germani delle brughiere e delle foreste al di qua e al di là dall’Elba sono in rimescolamento guerreggiante fra loro da tempo, ma sono in fin dei conti eredi di quei barbari che da secoli cercano di strappare in qualsiasi modo un po’ del benessere degli individui a loro vista soggetti ai Romani, altro alla fine non vogliono che essere assimilati ai Romani, sono giusto recalcitranti a ricevere le stesse regole che seguono i Romani, ma in effetti debbono solo capire che come Popolo saranno sì soggetti di Roma, ma come individui liberi di essere Cives Romani, oppure di non esserlo ed esserne soggetti.”
Oltre il Danubio – cercò con difficoltà di spiegare in aulica maniera Elio in quella seduta del Senato nell’aula del Palatium Sessorium – fra i piedi dei Carpazi e il Volga, gli Unni erano invece una vera emergenza sociale oltre che militare, che non si poteva risolvere semplicemente spingendoli a nord, come molti consigliavano, perché anche riuscendoci con chissà quale dispendio di uomini, sarebbero così inevitabilmente davvero venuti a ridosso dei Germani, comprimendoli sul limes renano come stavano facendo coi Goti sul Danubio. E i Germani erano una massa molto più imponente dei Goti, Eruli, Rugi, Burgundi Scizi e altri Sarmati che ora incombevano sulla Jazigia e sulla Dobrugia.

Dove davvero cambia la Storia

Dobrugia dove infatti il limes cedette nella maniera più impensabile, nell’evidentemente fatidico anno 378 (1131), facendo entrare in Tracia il fiume dell’Orda Unna e dei suoi popoli soggetti.
Migliaia e migliaia di guerrieri a cavallo (gli Unni), decine di migliaia a piedi (i Goti e tutti gli altri), su carri (i vecchi e i feriti o malati recuperabili e i pestiferi marmocchi a difesa delle donne), seguiti da migliaia e migliaia di capre – unne – vacche, buoi, bufali e maiali – goti, longobardi, venedi, decine di razze bovine e suine al seguito di tribù che le avevano allevate per millenni nelle piane pontiche settentrionali e su su fino alle paludi del Volga – attraversano le paludi ghiacciate del delta del Danubio grazie alla guida di chissà quali traditori (in Senato, a Roma, chissà come ne son certi fin dal primo arrivo della notizia, e si affrettano a comunicare questa loro certezza al Principe con una forbita e indignata lettera che giunge a uno sbalordito Elio ancor prima delle notae ufficiali degli altrettanto sbigottiti Ammiano e Sebastiano), e si incuneano dritti verso Costantinopoli, che nemmeno mettono sotto assedio: per e con lo sbalordimento dei difensori sfondano direttamente le porte della cinta costantiniana e mettono a sacco la Neo Urbe.
Non solo: avendo ormai da presso tutto l’esercito del Danubio Inferiore guidato da Sebastiano, sono loro a barricarsi in città mentre gli astuti Ostrogoti organizzano il passaggio dello stretto con le navi catturate nei porti della bisantide. Pochi giorni prima dell’arrivo della flotta allestita dalla Prefettura Superiore Interna Maris, tutta l’Orda con centinaia di ricchi e influenti prigionieri è già in Asia Minore.
Dal passaggio del Danubio a quello dell’Ellesponto erano passati meno di due mesi, e questa velocità inficiò quella organizzativa della Prefettura che pure aveva radunato una flotta imponente nelle sole due settimane dall’occupazione di Costantinopoli. E l’organizzazione militare delle altre Prefetture dell’Impero avrebbe anche fermato l’invasione in Frigia, o in Galatia, o in Cappadocia od ovunque in uno qualsiasi dei passaggi obbligati fra guadi e valichi dell’Anatolia dove Ruges, il Capoclanditutticlan Unno, e i suoi consiglieri guidavano la sempre più affamata Orda, se Valente non si fosse definitivamente dimostrato esiziale e proprio in quell’anno, come evidentemente doveva essere.
Come Prefetto Augusteo della Provincia Interfluminea non si era comportato male negli anni trascorsi dalla morte di Valentiniano, e per quello continuava a mantenere pro tempore anche il governatorato di alcune Province ancora non assegnate attorno al protettorato dell’Armenia, il cui Legato Augusteo era in viaggio per Roma per preparare l’avvicendamento e temporaneamente ricadeva quindi in una confusa giurisdizione, che Valente rivendicò. Dopodiché, oltre ad allertare gli alleati e far bloccare i passaggi alle pianure propontiche dove l’Orda voleva dirigersi sperando di unirsi lì alle tribù unne e alane ancora disperse oltre il Volga, decise di affrontarla personalmente con parte dell’esercito Comitatense di Partia là dove pensava che per le vaste piane attorno al lago Van avrebbe facilmente potuto annientarla sotto gli zoccoli della catafracta.
Quando la notizia giunge a Siracusa, da dove Elio sta per partire per l’Oriente, Valente è già in marcia per le sorgenti del Tigri, e quando l’ingiunzione Imperiale a tornare indietro giunge a Valente, la sua catafracta è già impelagata nelle paludi del lago Van, dove gli Unni gli han teso un fin troppo ovvio agguato.
Destino di Valente era quindi di morir abbruciato in una capanna in quell’anno: non in Tracia e non per mano di Visigoti ma in Armenia per mano di Ostrogoti, comunque con ignominia, se non altro non da Imperatore.
La catastrofe di Van dell’ottobre 378, dove periscono tutti e cinquemila i catafractarii che Valente si era portato dietro e diecimila dei quindicimila pedites, con la diaspora delle truppe ausiliarie e federate chiaramente suona e si ripercuote su tutto il limes Orientale come un collasso Romano.
I Parti – ormai veri e propri Persiani sotto la dinastia Sasanide ora impersonata da Ardashir o Artaserse – muovono e invadono la Provincia Interfluminea e sobillano con rinnovate lusinghe gli Armeni e gli staterelli superstiti ancora Assiri e Hittiti del Caucaso. Seleucia viene messa sotto assedio ma tutta la linea fortificata dell’Interfluminea (troppo alleggerita dalle vexillazioni di Valente) cede fino a Circesium e Dura Europos, anche Amida cade nel giugno 379 (1132), Palmira si sottomette nell’agosto, la marcia di Ardashir verso Damasco e Antiochia pare inarrestabile e fulminea quanto quella degli Unni l’anno precedente, ma a forcone tridente.
Senonché, la pronta disponibilità della flotta già allestita e lo scarico di pressione sul limes del Danubio permettono di spostare celermente una ingente quantità di truppe ad Antiochia e a congegnare una strategia a tenaglia che tagli il forcone dal manico. Ci sono le diciassette legioni del Basso Danubio che si son fatte sorprendere (inevitabilmente, deciderà poi un apposito processo a Sebastiano) dagli Unni in Dobrugia, ci sono le tredici del Medio Danubio con venti coorti ausiliarie, quelle addette all’assistenza dei Visigoti in transito, ci sono i superstiti dell’esercito di Valente e i transfughi da Amida (il cui comandante venne degradato prima della fine della guerra), ci sono tre nuove legioni levate per la prima volta da tre secoli a quella parte in Africa e Spagna fra primi liberi contadini e ultimi servi della gleba, ci sono anche corpi di cavalleria numida e improbabili fanti volontari egizi, che però rimangono sulle navi, ci sono i più probabili volontari delle vexillazioni limitanee della Britannia e i tradizionali frombolieri delle Baleari.
Ci sono gli stessi Visigoti, che vengono per la prima volta inquadrati da Ammiano e Atanarico in regolari contingenti ausiliari piuttosto che federati, e dopo il lungo addestramento della marcia nel deserto oltre Palmira, sono la punta di diamante nelle battaglie decisive a Ctesifonte del maggio 380 (1133) – dove l’arrivo della cavalleria leggera di Teodosio il Vecchio fu fondamentale – e a Susa nel gennaio del 381 (1134), che per il resto fu uno spettacolare macello fra catafractari.
Susa, sì. Perché dopo la battaglia e la messa a sacco di Ctesifonte, Elio si prende la soddisfazione di compiere il sogno di Traiano, velleità di Costantino e progetto abortito di Giuliano: sulle orme di Alessandro Magno passa e aggira i monti Zagros mentre gli Armeni li scavalcano da nord, e va a dare una suonata ai Persiani davvero a casa loro.
Nel frattempo, fra i pinnacoli della Cappadocia dove è stata ormai spinta, l’Orda unnica pian piano si disgrega man mano che viene a mancare la sua ragione d’essere: dopo poche batoste ben date e ben prese dagli armeni e dagli altri caucasici, ormai ben accorti dal tenersi lontani dalle beghe fra Parti e Romani, gli Unni si mettono ad allevar cavalli all’interno dell’Anatolia, gli Ostrogoti migrano verso le coste, gli Eruli e gli altri prendono ad allevar bovini e far carne salata per l’Oriente, ma in seguito anche per l’Occidente.
Per la fine del 381 (1134), col ritorno delle legioni sul Danubio a scacciare le poche tribù sarmate scampate all’Orda e sobillate dagli Iazigi, che poi contavano di saccheggiare loro al ritorno, e la decisa ripresa di possesso della ripa settentrionale del fiume lungo la linea di Diocleziano, la Pax Imperii pare esser finalmente ristabilita, e in sorprendentemente poco tempo.
Qui finisce Sol Invictus, seconda parte ucronica dell’Impero Virtuale, e comincia la terza e ultima parte

Qui comincia Crepusculum (ossia l’utopia)

Fatti smontare e trasportare a Roma i palazzi e i templi di Susa e Persepoli che poi si vedrà dove ricostruirli, instaurato un governo fantoccio ad Ecbatana giusto per tener fermo un po’ di tempo per saccheggiare il saccheggiabile della Persia, Elio può tornare a Siracusa per il Natale Sol Invictus del 1134 certo di aver messo debitamente mano a un bello scompiglio, fra l’autunno del 378 e quello del 381 (1131-1134).
Per quanto il Senato di Roma (ormai unificato con i profughi di Costantinopoli) gli attribuisca ovviamente il Trionfo, Triplice secondo chissà quali misteriosi calcoli e dibattiti, Elio lo accetta con compiacimento soprattutto perché, in tutto quello sconvolgimento, il limes Renano era stato calmo e inusualmente tranquillo, segno che il bubbone unno scoppiato migliaia di miglia addietro aveva veramente allentato la pressione su tutti quei popoli germanici per cui ora si poneva il problema di una tranquilla annessione.
Mentre il governo fantoccio di Ecbatana presto soccombe ad una anarchia Persica in cui nemmeno il marasmatico Impero Gupta d’oltre Indo sa che fare, tutta la Mesopotamia viene sottoposta a nuovi lavori di bonifica che infine rinnovano quelli antichi, l’intero Oriente rivive senza imposta vergogna il spendi-spandi cui si era abituato per secoli, inondato da nuova moneta pesante e leggera e di credito che spinge i consumi e i commerci.
Ora si possono introdurre nuove conoscenze, che Elio commissiona suggerendo argomenti come il versoio all’aratro o la rotazione a maggese che stupiscono ma intrigano i suoi interlocutori. Elio insomma quindi guida, prudentemente, la tecnologia. Pre-industriale, per quanto può.
Ora che comincia a formarsi nuova ricchezza oltre quella incamerata dalla Guerra Persiana, si può redistribuirla, i commerci nei trent’anni successivi prosperano sempre più, le Leggi contro le servitù della gleba distorsione del sistema fiscale dioclezianeo si fan più stringenti, ma il problema è sostituire la produzione latifondistica, che ormai è in funzione solo di Roma, decaduta la Neo Urbe.
La soluzione di Elio può sembrar bizzarra ancor prima che cinica: suscita una “falsa guerra”, e vi trascina quasi tutti i cittadini di Roma.

Con uno stratagemma cinico.

Dal 385 (1138) al 410 (1163), quasi mezzo milione di Romani maschi (Romani di Roma ma anche di Marsiglia, Cartagine, Novacarthago e dovunque si coagulasse qualche pletora di nullafacenti ammassanti circhi, terme e anfiteatri), in buona parte con famiglie appresso, si trova inquadrato a rotazione in corpi “soprannumerari” delle legioni impegnate in Germania a convincere più che conquistare gli inebetiti Germani, a costruir strade oltre il Reno, oltre l’Elba, ad incrociare le altre strade che i loro concittadini di Costantinopoli, Antiochia,  Alessandria e delle altre turbolente città Orientali fan risalire dalle piane Podoliche al seguito delle legioni qui altrettanto decise per una volta con gli Iazigi, attraverso i Tatra fino all’Oder e alla Neisse, dove si appoggia il nuovo Limes con la rinnovata rete di fortezze trasponendo quelle renane, e a ridosso dei Monti Tatra quelle danubiche fino a congiungersi col vallo che viene costruito fra le alture del Dniepr e quelle del Donec, e dalla foce del Volga al Mar Caspio dove viene scavato un canale fortificato.
E nuove città, ovviamente, nuovi commerci con i popoli baltici, nuovo annusare verso gli Urali… chi vuole torna, chi vuole resta o va più in là.
C’è l’Europa Res Publica Romana di qua che si assesta e si organizza per affrontare l’Europa Res Nullius di là dal nuovo Limes, insomma: l’Impero è ingrandito di un buon terzo ma nulla di nuovo sotto il Sole della sua Storia.
Più a oriente il Sole invece ha cambiato decisamente l’inclinazione dei suoi raggi. Protetta dal nuovo Limes Zagrensis che scorre sulle colline ai piedi dell’altipiano iranico la via Interfluminea viene allungata fino a Teredon, le foci del Tigri e dell’Eufrate incanalate per non più insabbiare il suo porto al culmine del Golfo Persico, dove i commerci con l’India e la Cina cominciano a farsi sempre più fiorenti.
Dopo l’Egitto, che può testimoniare come da quattrocento anni ci stiano benissimo, anche la Mesopotamia può finalmente definitivamente portare a Roma le sue antiche insegne dei tempi di Ur, mentre l’Africa tutta plaude alle nuove mietitrici trainate e alle nuove trebbie stabili che liberano dall’esigenza della servitù ogni nuova generazione di contadini.
Così come in Spagna, dove le miniere continuano ad essere riservate ai criminali di tutto l’Impero, come del resto ogni miniera dell’Impero.
I Bagaudi di Gallia, i Briganti di Britannia, i Circoncellioni d’Africa, gli Hasciascini d’oriente, tutte bande di ladroni professionali o di poveracci organizzati alla bell’e meglio: il mascalzone di scaltrezza si punisce e recupera in altro modo che sprecato in miniera, quello imbrancato ha solo bisogno di capi armati di frusta e di sano sudore.
In Gallia, e in Britannia, e in Pannonia e nell’Illirico, e in Tracia, e naturalmente nelle sacre Grecia e Italia, tutto pare continuare il percorso dei tempi di sempre, senza più minacce incombenti, inconsapevoli viventi di quel che avrebbe dovuto essere Decadenza e Medioevo, e invece continuò ad essere vita mediocre anche dopo l’abdicazione di Elio il 24 Agosto 410, 1163 dalla fondazione di Roma.

Appendice

Il problema è abdicare a favore di chi e nelle mani di chi, formalmente.
Sostanzialmente, Elio eredita da Salustio un Consilium Principis che azzera tutte le cariche di Corte e risponde “collegialmente” alle istanze della periferia, in primis delle Prefetture.
Collegialmente significa che ogni membro del Consilio agisce in autonomia ma a nome di tutto il Collegio Consiliare, che dirime in autonomia ma stretta collaborazione col Principe. L’obiettivo di Elio è quello di selezionare negli anni un gruppo che possa ampliarsi fino alla giusta misura per arrivare a cooptarsi e ad esprimere loro stessi il Principe.
A controllo comunque del vero Governo, che dopo i fatti del 378-381 venne effettivamente istituito con un Collegio di cinque Auxiliares Praefectizi e venticinque Consilieres Docesianis, portato poi a sette e trentadue dopo la fondazione delle Prefetture Ultra Germanica nel 390 e Unnica Transcaucasica nel 395.
In tutto ciò, il Senato di Roma è ancora completamente esautorato se non per un formale invito a formale Senatoconsulto, e la consacrazione Pro Dei e Pro Populi del nuovo Augusto affidata a un Concistoro di rappresentanti piramidalmente eletti di tutti i culti e religioni dell’Impero (fra cui in mezzo, qualche cristiano, che uno solo a rappresentarli non ci si riuscì proprio, almeno durante il Pontificato di Elio Budicco Salustico Augusto).
Alla Democrazia compiuta, ci penserà poi qualcuno dei suoi successori, considerando cosa sia ora il Popolo Romano…

Alle prime luci dell’alba del 24 Agosto del 1163 ab Urbe condita, nella Piazza Aurea, in cima alla scalinata che portava all’ingresso principale del Palazzo Palatino, Flavio Elio Budicco Salustico consegnò i simboli dell’Imperium al suo successore designato dal Consilio, e col futuro gli consegnò il proprio giudizio alla Storia, sparendo a piedi per la Sacra Via nella nebbia che ancora invadeva il Foro, prima che si alzasse la plebe in attesa di una giornata di sole splendente alle terme…

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