venerdì 14 agosto 2015

NON FU REMORIA


Eccomi qua, dopo tanto tempo, con però uno dei miei profluvici tentativi di accendere qualche "spot" sulla fondazione di Roma. Che pareva tutta una favola, finché Andrea Carandini non ha cominciato a scavare fuori dal Foro e dal Palatino una quantità di conferme, almeno alla tradizione rituale che per secoli - almeno fino a Repubblica inoltrata e oltre, in alcuni casi come le Lupercalia fino oltre la fine dell'Impero di Occidente  - accompagnò gli usi religioso-civici dei Romani.
Come al solito, ha preso la mano sulle mie intenzioni: pensavo fosse finito  verso la settima pagina, s'è allargato man mano fino alla quindicesima. Perché, invero ho provato ad essere più "divulgativo" del solito. E dove ho mancato e son rimasto oscuro, mi impegno a metterci le mani di nuovo. E anche con altri racconti, s'intende: son tutti probabili capitoli di un futuro romanzo, che poi assemblerò come un mosaico. Con l'aiuto gradito di chi vorrà rivedermi le bucce di tutto ciò...

NON FU REMORIA

Erano dei vecchi seduti in circolo attorno a un fuoco. Alcuni su grosse pietre singole ben smerigliate, altri fianco a fianco su panche di legno piallato incastrate fra altre pietre, altrettanto grosse. Alle loro spalle i muri intonacati e dipinti di una capanna come tante, in quell’inverno di inizio dell’Età del Ferro, che si levavano fino a sorreggere le leggere e fitte travature del tetto conico, dal cui oculo alla sommità usciva il velo di fumo del falò alimentato a legna di quercia, mirto e olivo.
Non avevano nulla di strano, nulla di anomalo per i tempi, a parte l’età avanzata non facile da raggiungere, avvolti nei loro mantelli di lana brutalmente cardata, i cappucci calati larghi dalle orecchie al collo per raccogliere il calore del fuoco anche sulla nuca, oltre che per sentire ciò che gli altri avevano da dire. Perché tutti erano lì per parlare, e quindi dovevano prima di tutto udire.
Parlavano un linguaggio brusco, essenziale. Era quella sorta di koinè pastorizia italica che si sarebbe raggrumata nel latino dopo l’introduzione della scrittura nei documenti pubblici, non prima di altri due secoli, più o meno dieci generazioni. Ma i Romani, finché l’Impero non fosse divenuto effettivamente tale, e verbosamente ellenistico, non avrebbero mai abbandonato quella estrema sobrietà, sintesi, brutale secchezza di linguaggio.
Un primo Vecchio ruppe finalmente il silenzio scandito dalla pioggia che scrosciava sul tetto di paglia compressa con argilla.
“Deve nascere! E deve nascere ora, per le prossime Parilia.”
Gli altri scossero lentamente il capo, senza quasi far muovere il cappuccio a cuffia che portavano in testa, più o meno assentendo.
“Quirino osserva!” asserì un secondo, assiso s’un sasso leggermente più alto degli altri, ma solo per caso.
“O Tito Tazio per lui!” sottolineò un terzo, ma non con l’aria di voler appoggiare il secondo.
“Appunto! – insistette il Primo – Deve nascere prima che i Sabini occupino il Campidoglio!”
“O prima che lo facciano i Veienti…” disse in tono dolente un quarto.
“Eppure i Rasna ci saranno molto utili…” disse in tono meditativo un quinto.
Tutti lo guardarono.
“Sono il grande assente. Solo i Rasna della Tuscia hanno riti della fondazione alternativi a quelli Sabini. Che prevedono città senza mura, quindi un saldo possesso del circondario. E il circondario del Campidoglio è il Septimontium…”
“Invece, una città murata…”
“Una città murata è sulla difensiva. E il Palatino incombe proprio sul guado…”
“Anche il Campidoglio!”
“Anche l’Aventino!” disse un sesto
Tutti ora si fermarono a guardar lui.
“Anche l’Aventino cosa…” borbottò il quarto
“Non è proprio sul guado, lo so! – precisò il sesto in tono indispettito – Ma è proprio dove il Tevere si placa dopo le turbolenze del guado e dell’isola. Lì potrebbero fermarsi le barche del sale che risalgono dalla foce, ed è più vicino alla Pista Campana del guado stesso…”
“Giù per la Pista Campana ci vanno soprattutto i Tusci…”
“E un bel po’ di Celti. E Liguri. E Veneti giù dalla Pista Salaria, ma non solo per il sale…”
“I Greci non han smesso di approdare ovunque, anche se si sono concentrati in quel porto puzzolente, là prima del regno di Vulcano…”
“Ecco! E poi si vanno tutti a incuneare nella nostra valle in mezzo al Septimontium, fra le tombe degli avi…!”
“Ce ne dobbiamo rendere convinti. – il Primo aveva un tono paziente ma reciso – Quando quegli antenati venivano sepolti laggiù, il traffico sul guado non era così imponente. Ricordo che mio nonno raccontava di essersi indignato, quando si cominciò a parlare di un ponte al posto delle chiatte…”
Tutti annuirono pesantemente, mormorando il ricordo delle tante dispute che da generazioni si accendevano su quel basso ma spesso turbolento passaggio fra il Latium Vetus e le italiche montagne e i lidi destinati a divenir greci da una parte, la minacciosa, misteriosa, inquietante Tuscia dall’altra. Indispensabili antagoniste nella penisola però, l’una per l’altra.
Lungo la ripa sinistra del Tevere correvano una miriade di percorsi, sentieri ben battuti da decine di generazioni di mercanti territoriali, che scambiavano tutto ciò che un villaggio appeso fra i monti nel tardo neolitico e prima età del ferro non poteva prodursi autarchicamente per facilitarsi la vita, con lana e pellami, carni conciate e animali vivi. E soprattutto sale, come merce o come moneta, tutti.
Oltre la ripa destra, in mezzo a selve vulcaniche, stava giungendo al culmine una alchimia di culture che raggrumava in sinecismo le prime vere città della penisola, diversa fondazione rispetto a quella coloniale di Cuma da parte dei Greci. Quell’alchimia poi chiamata da se stessi Rasna, da sempre Tusci, e dai posteri Etruschi, proprio i Greci si stava preparando ad affrontare, per mare e per terra, Cartaginesi sul mare ed Equi, Volsci e Sanniti su terra permettendo.
E Romani, da lì ad una generazione, che sarebbero nati per permetterlo o non permetterlo, permettendo o non permettendo.

Perché quei vegliardi son lì per decidere la fondazione di Roma. O meglio, programmarla. E finalmente.
Rappresentano i vari villaggi, o gruppi di villaggi, sulle pendici dei colli su cui poi si espanderà l’Urbe, tutti espansione etnicamente ormai mista delle popolazioni montane che per commerciare in buoi o in pecore, per cercar sale o per cercar pesce salato, per trovar attrezzi, vasellame e armi, prodotti magari oltremare, incombevano sempre più da vicino al guado che sul Tevere si incrociava con le vie trasversali, provenienti dalla sua foce e diramantisi per la sua larga valle.
Mancava, fra loro, il rappresentante dei Sabini. E questo perché i Sabini, un popolo che pretendeva di discendere dagli Spartani, erano in netto vantaggio su tutti gli altri.
I loro villaggi – capanne praticamente identiche a quelle dei loro vicini e contendenti, solo dipinte con soluzioni di colore diverse, probabilmente caratteristiche per ogni gruppo “etnico” – ormai incombevano direttamente sul Campidoglio dal Quirinale, e già i primi cippi d’altare sabini contendevano la sacralità del colle irregolarmente cornato a quelli degli Aruspici Rasna, da un pezzo insediati sull’Arx.
Quel che temevano quegli anziani – che non rappresentavano gli effettivi Capi delle loro comunità quanto i più ascoltati consiglieri di tutti – era che Sabini ed Etruschi si dividessero il colle capitolino con due contrapposte fortezze, e da lì condividessero il controllo del guado e del fiume.
Quello era in effetti il miglior punto tattico per tenere il passaggio sotto controllo, con pure l’isola fortificabile, era da veder da parte di chi. Ma era pure, il Campidoglio, un lungo scoglio più adatto ad un castrum, a una fortezza, non a una città, con tutte le sorgenti di acqua pura alle basi delle pendici, duramente difendibili.
Mentre il Palatino, con più di una sorgente probabilmente nell’intaccatura fra Palatino e Cermalo, era il luogo ideale per una cittadella, se proprio non una città. Ma anche l’Aventino, se con intenti più pacifici e commerciali che bellicosi.
Ed è proprio di questo che stan discutendo, infatti, gli antenati del Senato di Roma…

“Aventino o Palatino, il Fato lo deciderà. Ma chi deciderà il Fato?”
“Appunto…”
“Abbiamo istruito decine di giovani, da quando eravamo giovani noi e lo erano i nostri anziani, ad Alba. Possibile ci siam ridotti a scegliere solo fra quei due?”
“Questo è – sospirò pacato il Primo – e vedo che devo ricordarvi il perché. Alba, e mi spiace alcuni di voi non ci siano stati istruiti, è un duro carcere sacerdotale. Tanto terribile che è l’imperante fonte dei Rex Nemorensis della sottostante selva Aricina, ininterrotta dai tempi di Ascanio, se non una volta sei generazioni fa da parte di un bovaro impazzito, per quel che se ne sa… L’abnegazione ai riti è preponderante su quel poco di istruzione universale che, del resto, solo l’esperienza può dare.
Per cui da Alba, chi non ne esce cacciato, ne esce insano, e solo chi ne fugge è il più sano.
Quei due ragazzi son fuggiti da là, uno è stato ripreso, il fratello è andato a liberarlo con l’aiuto degli amici comuni. Han messo a sacco Alba, bastonato a morte il Priore Amulio, sostituitolo col predecessore Numitore. Son loro due, tutti gli altri si son fatti… lessare dalla Disciplina di Alba. Come molti di noi.
Se vogliamo che la città nasca Urbs, e che non nasca sabina o rasna, dobbiamo usare quei due ragazzi…”
“Di dubbia origine…”
Lo scatto del Primo gli fece cadere il cappuccio dalla testa, e mostrare la sua fredda rabbia.
“Gliela costruiamo NOI l’origine! È un’altra LORO forza non averla! Sarà la NOSTRA Urbs! E la nostra rivincita su Alba…”
Tutti quelli che in gioventù erano stati ad Alba, novizi nei vari templi o tabernacoli che cercavano di riunire ad Uno, il Giove Laziario, i tanti culti del Latium Vetus, assentirono. Ma incerti. Gli altri, paradossalmente, rassicurati.

Romolo aspettava, davanti alla sua tenda appena più grande delle altre ma con un piccolo portico di quattro colonne in legno non scortecciato coperto dagli scudi dei compagni, mascherando la sua impazienza con un manto di imperturbabilità istintivamente regale. Ma provava brividi, e non di freddo.
Stavano venendo per decidere se ci dovesse essere un Re, e come gli Dei avrebbero dovuto decidere chi, fra lui e Remo, o se entrambi, dovesse fondare e regnare su un nuovo Oppidum, se non proprio una vera Urbs, di cui non coglieva appieno la reale differenza. Ma pareva ci fosse, e presto sarebbe stato tutto spiegato: i pochi anni del Collegio di Alba non erano stati completamente inutili. Anzi, affatto.
Un duplice Re non era inconcepibile: c’era l’esempio di Sparta, i Sabini ne erano uno più vicino. Ma i Sabini non avevano il problema di un eponimo fondatore delle loro città, essendo queste “senza mura”, edificate cioè sui cocuzzoli piatti più impervi a sinistra del Tevere, difese nei punti più delicati da agger con valli.
“Senza mura” significava senza un vero e proprio rito fondativo del territorio sacro della città, una possessione implicita di tutto ciò che servisse ad alimentare il nucleo lassù, dominante il Tevere da una parte, vallate di campi, oliveti, pascoli, frutti e vigne dall’altra, sullo sfondo il volto immoto del Subasio, e i picchi Marsi e Brutii.
Sia il rito greco che il rito rasna esigevano invece un preciso Eroe, che si prendesse carico personalmente delle responsabilità della Comunità. Con diverse modalità, questa era l’ultima cosa chiara sia a Romolo che a Remo.
Ed eroi, se non Re, erano acclamati dalla loro banda di giovani, facinorosi e di cuore generoso, o dai viandanti che liberavano o proteggevano, in cambio di un dono, dalle altre bande di banditi che infestavano la via Campana.

In realtà, Romolo e il suo gemello Remo avevano scelto di trarre il loro bottino più dall’assoggettamento delle altre bande a loro analoghe, che da nuove scorrerie sui mercanti che venivano e andavano attorno al guado. Erano insomma già più guerrieri che ladri e assassini come gli altri, sebbene come loro banditi dalle loro comunità di nascita, ma fin dall’infanzia e non per insopportabile o irascibile comportamento: più che altro per motivi di oscura origine, imperfezioni fisiche rivelatesi poi non letali, presunto rachitismo poi trasformatosi, nelle capaci mani delle nutrici prostitute delle grotte sacre dedicate a Luperco, in estrema robustezza.
Remo e Romolo erano stati abbandonati per tutta quella serie di motivi: illegittimi gemelli, non così identici da non poter dirimere a prima vista chi fosse l’uno e chi l’altro, destinati comunque a presunta breve morte.
Remo, che aspettava apparentemente inquieto ma in realtà eccitato dall’evento che si prospettava fianco a fianco del fratello, aveva un fisico più esile e un’indole meno turbolenta del gemello, ma non meno disposta a pensare in grande. Era stato in effetti lui a liberare Romolo, catturato dalle milizie di Alba – o del Collegio Sacerdotale del Giove Laziario di Alba, il che era lo stesso – col colpo di mano che aveva rovesciato il Priore, il Re di Alba Sacerdote del culto interetnico latino, Amulio, rimettendo sul suo scranno il predecessore Numitore.
Dopo, nulla era più stato lo stesso. Il prestigio del Collegio Sacerdotale di Alba era ormai scosso, Numitore ancora viveva ma dopo la sua probabile prossima morte già si preannunciava il caos fra i pretendenti. I popoli latini però, quando guardavano nella direzione dei loro pellegrinaggi, cominciavano a vedere troppo astio e troppo sangue.
Per tutti quelli che avevano dovuto sopportare la disciplina di Alba, Remo e Romolo erano due Eroi. In uno, perché se Remo aveva portato a termine l’azione, Romolo l’aveva portata a compimento.
Finché erano andati d’accordo, con quella strana intesa che corrisponde i gemelli, Romolo e Remo avevano condotto come una sola persona in grado di sdoppiarsi una banda di giovani e meno giovani che ora, accampata a valle dell’Aventino, era composta da qualche centinaio di uomini, guerrieri ben addestrati. Un esercito quasi imponente, per i tempi e per i luoghi, che cominciava a mostrare le sue esigenze.
Quindi tutti, oltre i due Capi gemelli, aspettavano con impazienza la missione dei rappresentanti del Septimontium, in attesa di quella dei Sabini, ed eventualmente pure quella dei Veienti.
Fra tende in pelle e rozze capanne di frasche appena immaltate d’argilla, l’accampamento poteva sembrare un lercio villaggio sulla ripa del fiume, destinato a venir spazzato via dalla prima piena del Tevere a primavera. Erano lì dalla fine dell’estate precedente, quando sembrava un gioco vivere con i proventi della presa di Alba e il pesce portato dai pescatori della foce. Poi il bottino era finito, e del resto dal mare in burrasca non arrivava più pesce, e dal fiume freddo ne arrivava poco, e scipito.
E allora, avevano cominciato, a piccoli gruppi, a visitare i mercati dei buoi e delle pecore piuttosto che quelli del pesce, e a risalire i colli boscosi di olivi e frutteti piuttosto che aggirarsi nella valle nebbiosa dove il Consilio del Septimontium si riuniva ai piedi dell’Arx capitolina, in un piccolo santuario dedicato a Vulcano perché sopra una rara sorgente calda e puzzolente, il Volcanal.
Remo e Romolo avevano lasciato piede libero ai loro confratelli, a patto che – e questo dopo lunghe concioni sia pubbliche che intime – le loro mani stessero per il momento ferme. Si dovevano mostrare, e mostrare il più amichevoli possibile, ma lasciando intendere che laggiù stavano morendo di fame, e che erano armati. Dovevano mostrare anche quello, ma solo mostrare. Per il momento.
Verso la metà di novembre, il momento venne preceduto dall’annuncio dell’arrivo – giusto a metà mese – di una delegazione dei Patres del Septimontium. Quella che in quella mattinata uggiosa e bigia, stavano tutti aspettando.
“Aventino – ripetè petulante Remo, in un tono comunque comprensibile solo a Romolo. – È più comodo in tutto. È più facile da fortificare. Ha più sorgenti e più alte. È più vicino allo snodo della via Campana: proponigli un porto lì, alle sue pendici, e vedrai quanti greci arrivano…”
Romolo aveva perso il conto di quante volte avesse già sentito quel ragionevole discorso.
“Va bene. Sono d’accordo con questo! – sbuffò in tono di sopportazione – Ma se ci offrono le Esquilie?”
“Lo considererei offensivo. Ci sarebbe da scavare ed erigere un agger, là, e non mi pare dobbiamo farlo noi.”
“Eccoli. Placati. Lascia fare a me.”

Un mese dopo, intirizzito in un’alba tersa sul monte Murcus, o Piccolo Aventino, Remo si stava per l’ennesima volta pentendo amaramente di aver lasciato fare a lui, e a quell’altra manica di mascalzoni dei Patres septimontiani.
Perché quel fetente di un fratello, gemello perdipiù, aveva ceduto immediatamente all’offerta del Palatino da parte dei vecchioni, tanto immediatamente da far pensare che già se l’aspettasse. Intense baruffe nei giorni successivi, e precedenti l’arrivo degli Aruspici Rasna, non erano servite a smuoverlo di un millimetro, dopo poi era stato tutto perduto.
“Fortificare il Palatino è follia! Ci vorrebbe un giro di mura abbarbicato ai peggiori spuncioni. Il movimento dei difensori fra i vari punti del muro sarebbe solo lungo questo, perché fra Germalo e Palatino maggiore c’è quella dannata valle, e anche le superfici dei cocuzzoli sono tutt’altro che agevoli. E là sopra poi, che villaggi ci vuoi mettere, che pure gli Argivi s’eran ridotti a viver nelle grotte…”
“Ma quali Argivi! Che dai tempi di Evandro si misero a ingropparsi solo fra di loro, altro che grotte! E gli spuncioni comunque sono anche protettivi. E la nostra gente s’arrangia. Ma il Palatino è strategico, capisci! È a un tiro di lancia dal Campidoglio, è direttamente sul guado. E chi controlla il guado, controlla tutto, dai che lo sai!”
“Sì, ma se lo blocchi. O se imponi le tue imposte e tariffe. E per far questo dovresti far continuamente guerra a tutti. Dall’Aventino sfrutti i commerci, li proteggi…”
“Loro son convinti di poterci controllare. E invece li costringeremo a farsi controllare da noi!”
“Dal Palatino.”
“Sì!”
“E perché dall’Aventino no?”
“Per Marte! Perché fra l’Aventino e il guado c’è il Palatino, e se non lo prendiamo noi, se lo prenderà qualcun altro che si metterà in mezzo a far quel che potremmo fare noi! Tito Tazio per dire. Poi dopo prendiamo pure l’Aventino, stai sereno…”

Remo sarebbe stato pure sereno, senonché al termine del ciclo accelerato di istruzioni sui corretti riti di individuazione del favore degli Dei – Rasna, ma estensivamente a tutti quelli innumerevoli dei culti italici, i sacerdoti Tusci erano di ampie e comprensive vedute – per la corretta fondazione di una Urbs propriamente detta, gli venne il fondato dubbio che in fondo alla fiera ci fosse spazio per un solo Re, e che non dovesse essere lui. Qualsiasi cosa avesse visto, quelli che disponevano tutto attorno ai destini del guado avevano già deciso, fossero Dei o fossero uomini.
Già la posizione degli auguratoria. Importava poco avessero fatto tracciare il suo più avanti e quello di Romolo più indietro, ma leggermente più alto per far coincidere le loro collimazioni con la cima dei Colli Albani, in corrispondenza del Santuario di Giove Laziario. Il fatto era che stavano entrambi sull’Aventino, e nessuna città veniva fondata attorno al suo Auguratorium. Nessuna città Rasna, almeno.
Per cui non si fece tante illusioni, quando vide quello scarno stormo di sei corvi volare verso occidente, e suonò con poca convinzione nel lituo per richiamare l’attenzione al compimento del suo auspicio.
Poco dopo la sua deposizione ai sacerdoti interpreti, arrivò infatti quella di Romolo: dodici rapaci, e rivolti a oriente. Non c’era altra interpretazione possibile rispetto a quella degli Aruspici Rasna, ormai aveva imparato quel che bastava della loro arte per capirlo immediatamente anche lui.
Sarebbe stata Roma sul Palatino, non Remoria sull’Aventino, o ai suoi piedi. Sarebbe stata Città di guerre, non di commerci.

“Quindi, adesso ci mettono quegli impiastri sul Palatino!” disse con tutta probabilità Tito Tazio, nell’assemblea dei Notabili Sabini da lui convocata, come Re di Cures la Città Spartana, nel recinto dell’ara a Quirino, sulla cima più alta del Quirinale.
“Non si può impedirglielo?”
“No. È Septimontium, per quanto abbandonato da generazioni alla degenerazione dei discendenti di Evandro. E ormai si sono estinti da almeno due generazioni, o almeno non se ne ha più notizia, lo sapete meglio di me. Hanno diritto ad occuparlo. È il modo che mi preoccupa.”
“Possiamo sempre bilanciarli occupando il Campidoglio…”
“Non è così facile. Non è la stessa cosa. Dalla parte della valle è a diretto contatto coi Latini. Dall’altra parte è facilmente rifornibile dalla sella che sale a dividerla dall’Arx, ma sotto c’è la pianura paludosa, e non è facile far passare i rifornimenti da là…”
“Bisogna occupare l’Arx e liberare l’accesso dalla sella. Son pochi Aruspici Rasna e i loro servitori!”
“Abbiamo un trattato in corso con Veio, che ci impedisce di toccare qualsiasi interesse etrusco…”
“Quelli non sono Sacerdoti veienti!”
“Vero. Ma se li tocchiamo andiamo a scombussolare i rapporti fra Tarquinia e Veio, e nessuno ce ne sarà grato, ve ne assicuro!”
Tito Tazio non era riconosciuto Re e Capo della confederazione Sabina per meri motivi di sangue. O comunque non solo.

“In gennaio Giano apre le porte al mese più freddo dell’anno” aveva sentenziato la Sibilla Circea interpellata attraverso gli ormai anarcoidi culti di Alba, e così le porte delle capanne del Septimontium si aprirono per i seguaci di Romolo che dovevano assistere e consistere alla fondazione della prima vera Urbs a sinistra del Tevere.
Non erano più banditi, non erano più esclusi. Erano novelli Eroi, in procinto di compiere l’adempimento di un rito – qualunque fosse – che desse sicurezza sul guado e sulle strade che se ne diramavano.
Quel monte frastagliato, fino a poco tempo prima abitato solo dagli Argivi, lemuri di quello che forse era stato un piccolo Popolo Greco contemporaneo di Enea e Turno, dove i padri portavano i figli per i primi riti iniziatori di passaggio dall’infanzia alla maturità, stava per diventare un oppidum fortificato a monito di tutti i malintenzionati. Questo, almeno, volevano pensare i buoni villani dei villaggi sui colli, sette per comodità rituale e contabile.
Fino a marzo, al Tubilustrium di inizio anno, al mese precedente le Parilia.

In quel mese Remo vagabondò attorno, come insaccato in se stesso, fra i fori boari, piscari, ovari, ma soprattutto nella fetida valle in cui si scaricavano tutte le deiezioni del Septimontium, o direttamente per i ruscelli che ne scavavano le valli, o per risalita dalle falde solforose.
Soprattutto lì, perché essenzialmente lì si riunivano gli uomini che contavano, in quella confusa gerarchia di subdoli rappresentanti di semplici esigenze ma complessi interessi.
Ma per quanti l’ascoltassero più o meno volentieri, l’accesso al Volcanal per ufficializzare le sue ragioni, gli venne sempre precluso.
Remo si rese conto di essere, oggettivamente, un problema, anche prima del volerlo essere: non aveva più alcuna funzione, e nessuno riusciva a trovargliene una.

“Ti stai torturando troppo, Remo…”
“Mi costringono, a torturarmi… insinuando che forse sì, Remoria si può fare nonostante la città di Romolo…”
“Andiamo, Remo! Due città in un colpo solo! A farsi guerra da subito. A contendersi le donne, perché è questo che da subito vogliono fare i tuoi prossimi concittadini. Guerra. Per aver donne.”
“Sì, è ovvio. Giusto. All’inferno Remoria! Non tutti son fortunati come me!”
Il tono di Remo era troppo acido per non rendersi conto di quanto imbecille fosse il commento, per quanto e proprio per questo sincero. Aveva appena diciott’anni, in fondo. Lupercula, che ne aveva pochi di più e aveva giocato con lui e Romolo come se fossero stati due bambocci, quando li avevano pescati in quella cesta arenata fra le radici del fico, sorrise amara, sviando con rassegnazione il discorso.
Lupercula era solo la preferita fra tante Lupercule, le ragazze allevate dalle stesse Lupe che allevavano gli sbandati come Remo, Romolo e i loro compagni, come loro destinate allo sbando, ma alcune come quella Lupercula lì indubbiamente destinate a succedere come Lupe alla Grande Lupa attuale, Acca Larentia.
Qualcosa di diverso sia dalle prostitute che dalle sacerdotesse sacre, con qualcosa di entrambe consacrato comunque all’ars amandi, sia pur pecoreccia e non certo eterea – almeno nelle pretese – come quella che di lì a pochi decenni avrebbe sfolgorato dal santuario della Venere Ericina.
Lupercula, quasi una sorella di letto per entrambi i Gemelli, era ormai l’unico punto di condivisione che gli rimanesse. E l’ultimo nodo da sciogliere per dividerli definitivamente.
Ma lei, non intendeva prestarsi a quel gioco, non finché le fosse stato possibile.
“Parecchi comunque. A molte donne, Sabine sul Quirinale ma anche Eque sul Viminale, e immagino così ovunque siate stati ospitati nell’attesa della fondazione della vostra nuova città, è capitato di innamorarsi. È diverso che essere destinate a qualche sconosciuto, in cambio magari di due pecore. Capisci?”
Remo annuì lentamente col mento.
“Ma le due pecore le vorranno comunque, le loro famiglie…” concluse Lupercula
“L’hai detto anche a Romolo?”
“L’ho detto anche a Romolo.”
“E che ti ha risposto?”
“Che noi Etrusche siamo molto belle, e valiamo anche due vacche, gravide magari…”
Entrambi non poterono fare a meno di sogghignare: era il classico commento che ci si poteva aspettare da Romolo.
“Ma per me di Lupercula ce n’è una sola…”
“Non è vero. Ma è quel che ti distingue da tuo fratello: tu sai mentire.”
“Perché, lui non mente?”
“Mente sì, ma non sa di farlo…”
“Sei l’ultima cosa che condivideremo assieme. E questo sai che è verità.”
Toccò a Lupercula, stavolta, piegare il mento fino al petto nudo.
“Fino a quando…”
“Fino a quando non sarà Re. Da allora in poi, non ci sarà posto per me.”
“Puoi scendere al mare! Puoi prendere i pochi o tanti che vorranno seguirti, e trovare altre terre!”
“E altre donne…”
“E altre donne…”
Ma vedendone l’espressione dolentemente indefinibile, Lupercula sentì stringersi il cuore: in qualche modo, da vera sacerdotessa dell’Amore, comprese che per Remo non ci sarebbero stati altri luoghi, e altre donne, se non avesse trovato un’altra dimensione in cui esistere.

“Tito, la tua offerta è senza dubbio invitante, ma…”
“Pensaci. Te la popolo io di donne la tua Remoria sull’Aventino. Fallo sapere a quanti più dei tuoi uomini. Perché sono pure tuoi uomini, quelli, mica solo di Romolo…”
Remo era stato invitato alla inaugurazione-consacrazione della nuova casa di Tito Tazio, proprio dove la sella dal Quirinale cominciava a levarsi verso l’Arx, anzi formalmente (e provocatoriamente) appena entro il recinto di cippi che gli Auguri Etruschi, dal sovrastante auguratorium, utilizzavano per espandere il Templum all’intero arco visibile e a tutta la calotta invisibile segnata dagli astri.
Era una vera e propria casa, più che una capanna particolarmente grande. Forse la prima casa in muratura – o meglio, grossi mattoni di tufo – che venisse costruita a Roma. E ad angoli e murature rette, non più elissoidali. Già le case etrusche di Veio venivano costruite così, il tetto di tegole a spioventi retto da un sistema regolare di travature, e non più il conoide variamente robusto dell’intreccio di rami e ramaglie.
Non era ancora articolata attorno all’atrio con l’ampio impluvium, una innovazione che avrebbe portato in seguito il contatto con le città della Magna Grecia, ma piuttosto un piccolo cortile di distribuzione degli ambienti, in stile Sannita. Rispetto alla maggior parte delle capanne del Septimontium, era un palazzo, con un largo atrio affiancato da stanze per il triclinio alla greca e per il pranzo in piedi alla Sabina. Oltre il cortiletto, la stalla, il granaio e la cucina, e sopra di esse, parzialmente incassate nel ripido terreno dell’Arx, alcune camere sovrastate da una lunga terrazza.
Dei notabili invitati dal Septimontium, pochi erano intervenuti, essendo chiaro l’intento di Tito Tazio e dei Sabini di imporre come stato di fatto la loro preminenza sul Campidoglio, e implicitamente sul loro diritto di scacciarne eventualmente gli Auguri e Aruspici Rasna, sostituendoli con altri italici, magari.
E qui stava il punto, anzi uno dei nodi che stavano per venire al pettine. Perché non tutti, sul Septimontium, erano convinti che gli Etruschi fossero il naturale antagonista degli Italici. I gruppi di maggior prevalenza equa o volsca, e il piccolo gruppo di fuoriusciti Sanniti, trovavano piuttosto concorrenti atavici i Latini, e questi guardavano piuttosto con sospetto i Sabini per via del controllo che esercitavano sulla via Salaria e le sue diramazioni, per quanto il controllo delle saline alla foce del Tevere fosse da tempo immemorabile il principale attrito dei Latini con i Rasna, prima ancora che cominciassero a definirsi così.
Assistendo e partecipando alla inaugurazione-consacrazione della nuova casa di Tito Tazio, sostanzialmente un nuovo santuario federale dei Sabini spostato agli estremi margini della loro influenza sul guado, Remo era consapevole che sarebbe stato considerato Il Personaggio eminente dallo schieramento pro-sabino, contrapposto a quello pro-etrusco la cui guida ormai era Romolo. Ma nessuno lo poteva costringere ad accettare. Però nemmeno a non ascoltar le proposte, e le richieste, che gli venivan fatte.
E l’idea di Remoria piaceva a tanti, anche tanti transfughi dal campo di Romolo, atterriti dai riti etruschi di fondazione che si sarebbero dovuti compiere.
“Anche se siamo discendenti degli Spartani – gli aveva detto Tito Tazio durante la libagione alla Sabina alla fine dei riti di inaugurazione – noi Sabini siamo diventati un Popolo ragionevole, e commerciante. Una forte città commerciale a valle del Septimontium sarebbe un vantaggio per tutti. Pure per i Rasna, checché ne pensino a Veio.”
“Sempre sotto la spada di Damocle di Romolo e della sua città sul Palatino…”
“Presa a tenaglia fra Campidoglio e Aventino…”
“Non farò mai guerra alla città di Romolo. Piuttosto la violerò personalmente, ma non vi porterò guerra fratricida per i nostri compagni!”
Tito Tazio sapeva riconoscere quando si era spinto troppo avanti, e glissò ancora verso l’aspetto pacifico.
“Non intendo soffocarla con le armi. Ma con l’inutilità. Remoria assorbirà prima o poi la città di Romolo, credimi…”
E fu qui che offrì le donne, e fu qui che Remo decise di non credergli.

C’erano però anche quelli che si offrivano sinceramente, perché sinceramente favoriti dal sogno di Remo.
“Noi facciamo i barcaroli, Remo. Il tuo progetto ci piace: è più dolce approdare alla ripa sotto l’Aventino, piuttosto che sui sassi del foro Boario o Piscario. La corrente spinge sull’altra ripa, e non è un buon punto per passare, ma per approdare venendo dalla foce sì.
Poi si potrebbe fare un traghetto. Sfruttando la corrente: da una parte spinge, dall’altra tira, capisci?”
“No” ammise Remo.
“È tecnica greca. – spiegò il portavoce di tutti i barcaroli, che assistevano alle sue spalle mentre Remo sedeva fronte a loro, su una roccia sotto un salice in un’ansa tranquilla del Tevere, poche centinaia di passi a valle di dove avrebbe dovuto sorger Remoria – I Tusci son bravi con i ponti, ma sul Tevere non c’è da parlarne. Piene troppo grosse, sarebbe da ricostruire ogni anno. Invece il traghetto, smonti le funi, tiri a riva la chiatta, passa la piena e rimonti le funi. Attracchi il traghetto, tutto fatto.”
“Fatto tutto, eh? E per portar cosa da dove a dove?”
“Tutto quello che adesso si va a imbudellare sull’isola e oltre, in mezzo a quei colli puzzolenti. Non tutto magari: nei periodi di secca le mandrie continueranno a passar per di là. Ma sarebbe un collegamento più diretto per muli e carri fra la via tuscia costiera e la via campana…”
“E dalla via campana arriva sempre più merce pregiata greca!” non riuscì a trattenersi dall’esclamare un giovane barcarolo alle sue spalle, prendendosi una gomitata nello stomaco.
“Non son mai stato un brigante di strada, non lo diventerò di fiume, se è questo che spero non intendiate…”
“Assolutamente! No! Tu sei il fratello di quello destinato a fondare una città guerriera. Ormai s’è compreso. L’arruolamento è aperto a tutti, tranne che a noi barcaroli. Perché? Perché siamo troppo importanti per tutti: senza di noi il Tevere non si passa. A noi interessa la pace, a noi interessa che i mercanti continuino a passare indisturbati da chiunque. Per la giusta cifra resa ai servizi che gli si rende.
Noi ti crediamo, crediamo che tu voglia questo, e siamo pure disposti a menar le mani se ce lo chiedi!”
“Io non l’ho mai proposto a nessuno, di menar le mani, da quando sono qui.”
“E’ vero. Ma andiamo, Remo, sai che se vuoi la tua Remoria, i nostri remi ti serviranno per darli in testa a tuo fratello!”
“Oppure, per fuggire – disse uno dei barcaroli, incautamente a giudizio degli sguardi di tutti – Se andasse male intendo…” concluse, non attirandosi maggiori simpatie, nemmeno da parte di Remo.
“No, fuggire no…”

“Se tu mai intendessi…” sussurrò insinuante il mercante di lana conciata dalla sua baracca nel vicus Tuscus, dove Remo si era andato a ficcare inconsapevolmente, preso dai suoi sempre più angoscianti pensieri, di ritorno dall’ennesimo vagabondaggio ai piedi dell’Aventino, fra gli orti e le vigne greche.
Perché infatti, là dove avrebbe voluto erigere la sua città emporio, da lungo tempo c’era già una piccola stazione commerciale focese, una sorta di rappresentanza coloniale ben precedente all’ondata montante di “Fondatori di Città” che stava per esprimersi con Pitecusa, e Cuma, e via via tutta la Magna Grecia.
Tuttavia, per quanto periferica e dimenticata fosse, la piccola comunità greca (forse un centinaio di persone) rimaneva in contatto culturale con tutto il resto della sua Koinè, e aveva una visione particolare del problema.
“I Rasna te la faranno fare. Ma solo se farai anche di Remoria una città Rasna.”
“Ma già dirigeranno i riti di fondazione della città di Romolo…”
“Quei Rasna là, ma non sono gli unici. Anzi, i Rasna è più facile dividerli che mantenerli uniti. Non sono un popolo molto unito, capisci? Anzi, è più facile separarli, i Rasna, che unirli. Sarà per via della loro troppo rapida origine. Però, chi ce la facesse avrebbe un popolo di straordinarie capacità a sua disposizione.”
Seduto su una stuoia vicino al focolare centrale della casa del Vecchio Greco, nel locus dove avrebbe dovuto sorgere Remoria, Remo comprese forse come probabilmente le intenzioni di Romolo fossero infatti quelle di impossessarsi della Tuscia – lui o un suo successore – proprio prendendola dall’interno, dal ventre, come larve in una capra infetta.
“Dovrei far cosa, allora? Richiedere l’aiuto di Auguri e Aruspici da dove?” chiese comunque, imbambolato dall’idea.
“Vedrai che ti si proporranno loro. Il guado non è essenziale solo per Veio, è importante che Veio non lo controlli, ma è importante pure che nessuno controlli Veio. Più ci si allontana dal guado, più l’interesse si sposta su altre cose, capisci…?”
Remo capiva solo che c’erano due alternative al tradimento nei confronti di Romolo e del suo Sogno: la morte o la fuga. Indegna comunque. La fuga di certo. La morte… dipendeva come…
Ed era a questo cui stava pensando quando, dopo una faticosa camminata sotto la pioggia attorno all’Aventino, su per la bassa Velia e giù per la via sacra alla memoria degli antenati del Septimontium, fra i tuguri del sentiero principale che scendeva dalle Esquilie costeggiando gli acquitrini di quel che sarebbe divenuto il Foro, si trovò a dover rispondere alla garbata insinuazione di quell’uomo dalla barba a punta tipicamente Rasna.
“Intendessi cosa…?”
“Perugia ed Arezzo ti aiuterebbero con tutta la sapienza e potenza dei Rasna…”
Per un attimo Remo fu tentato ad infuriarsi. Ne avrebbe pure avuto bisogno. Lo si veniva ad abbindolare lì, così, in mezzo a un tratturo fangoso affiancato da capanne stinte, come se fosse un traditore qualsiasi appena uscito dal tabernacolo di un vinario?
Ma questo era il notorio comportamento, quasi un atteggiamento ostentato, dei Rasna: melliflui a chiedere, imperiosi ad imporre.
Così, Remo s’impegnò a controllarsi come ormai stava imparando a fare per non impazzire, poi sibilò:
“I Rasna? Tutti? E Veio? E Tarquinia? E Caere?”
E qui ebbe una lezione che se fosse vissuto come governante, forse gli sarebbe servita.
“Verrebbero prese a tenaglia, come il Palatino…”

Romolo era consapevole delle tribolazioni di suo fratello, che parevano ai più trame con chi voleva in estremo impedire o intralciare la nascita della Città.
“Non sa trovarsi un ruolo. E non so trovarglielo nemmeno io!”
“Ovunque vada, lo seguiranno in troppi. Perché per andarsene, se ne deve andare. In qualsiasi modo…”
“Ma senza portarsi via troppi uomini…”
Romolo si scostò scocciato dai suoi consiglieri, che in quei giorni nella capanna appartenuta a Faustolo, subito sopra lo sperone che conteneva la grotta di Luperco dove doveva sostener di essere stato raccolto e accudito (e per quel che ne poteva ricordar lui, poteva anche esser vero), lo tormentavano di istruzioni e consigli attorno alle celebrazioni del Rito fondatorio, ma anche sulle conseguenze politiche di questo.
“Non va da nessuna parte. Tranne che in un luogo. Solo in quel locus potrebbe trovare una dimensione per sé…”
Romolo pensava a una sfida al Rex Nemorensis: un vecchio alunno del Collegio di Alba che campava come un vero Re sulle spalle delle sacerdotesse del tempio di Diana. Ma Remo, pur senza rendersene conto, avrebbe piuttosto scelto di portare la sacra tradizione da là a Roma.

Il Tubilustrium, otto giorni dopo l’inizio tradizionale dell’anno di metà Marzo, era la cerimonia rituale di lustrazione delle buccine da guerra (invero già ben lustrate lungo l’inverno dai buccinatores, designati dai sacerdoti delle varie tribù) in quella strana comunità che era il Septimontium. Avendo rapporti e interessi molto più stretti fra i villaggi dei colli compresi fra il Tevere, l’Aniene e quella gibbosa piana fra i Monti Albani e la palude pontina col mare a chiudere il Latium Vetus, piuttosto che con i propri popoli di appartenenza etnica appenninica, gli abitanti del Septimontium si erano già da tempo organizzati come una comunità proto-urbana, in Tribù comprendenti villaggi territorialmente coesi dalle stesse necessità quotidiane.
Sinecismo, i dotti e sapienti han deciso di chiamare questo movimento, razionale a dispetto di ciò che vorrebbero alcuni, in ogni tempo, con ogni cultura.
Una delle necessità impellenti, era l’autodifesa. Il Septimontium era lo sfrangiarsi di un pianoro verso la valle del Tevere, e dalla parte dei monti Tiberini le incursioni erano frequenti, sia di banditi che per eventuali spedizioni dai monti verso il guado dei vari Equi, o Osci, o Volsci, o Sabini. Quelli “puri”.
Abituato ad aver a che fare con i suoi robusti combattenti, Romolo trasecolò a constatare come le Tribù del Septimontium tendessero a mandare come truppe “volontarie” gli elementi più fisicamente inabili al lavoro nei campi.
“Se vuoi andartene, puoi prendere un po’ di questi rachitici” disse Romolo a Remo, improvvisamente comparso al suo fianco per la prima volta dopo molto tempo, per guardare i goffi tentativi di darsi un milite contegno da parte dei giovani villici.
“Anche se li porto a fondare Remoria?”
Romolo si sentì veramente scocciato da questa ennesima, costante reiterazione di quella impossibile competizione.
“Non scherzare, Remo!”
“Non scherzo. Ho tutti gli appoggi che servono. Pure dei Sacerdoti Rasna, ma di un altro rito. Altrimenti con rito Greco. Oppure Punico, perché no?”
Romolo lo considerò silenziosamente per un istante. Considerò, più che altro, la possibilità. La possibilità che, contemporaneamente a Roma sul Palatino, sorgesse Remoria sull’Aventino. Una Città gemella. Una Città concorrente. Una Città antagonista. Una Città alle spalle, pronta a pugnalare, che prima o poi si sarebbe dovuto affrontare di fronte.
“Perché no” rispose, reciso.
“Perché no!”
“Perché tu non sei eterno. E nemmeno io lo sono. Ma in questa strettoia scelta dal Destino, ci passa uno solo. E gli Dei hanno destinato me, a passare.”
Remo assentì lentamente, dolentemente.
“Ci sono troppe pressioni su di me perché lo faccia. Quante altrettante dentro di me perché non lo faccia. Solo tu puoi risolvere la questione…”
“Sfida il Rex Nemorensis…” provò a suggerire Romolo.
Remo rise, un riso di pazzia.
“Il Rex Nemorensis! Sei tu, il mio Rex, ne morensis…”
E sparì con un balzo in mezzo alla boscaglia che contornava, in quel che sarebbe divenuto Campo Marzio, la piana del Tubilustrium, che stava per cominciare appunto in quel momento con le prime fanfare, dopo i leziosi e melodiosi componimenti di sistri e arpe.
“I demoni hanno preso la mente di Remo – disse Romolo ai notabili che lo circondavano, a sempre meno rispettosa distanza – Forse i Dei loci di Remoria lo assillano. Non so quali siano, ma si dovrebbe sacrificare anche a loro…”
E questa parve, a quasi tutti, una ennesima dimostrazione delle capacità intuitive e di sintesi di quel giovine Romolo. Scelta ben fatta, si dissero tutti. Ma Remo, naturalmente, doveva morire.

Le Parilia laziali dell’anno precedente la Quinta Olimpiade videro quindi la fondazione della Urbs di Roma.
Mentre le varie ed usuali cerimonie campestri di auspicio per la nascita degli agnelli si svolgevano e spandevano dagli altari temporanei nei recinti sacrali, Romolo sacrificò e consacrò l'inizio di una nuova Era, consapevole di farlo, inconsapevole di cosa sarebbe divenuta.
Dopo le complesse procedure dettate dalla geometrica logica celeste e infera dei Rasna, Romolo prese l’aratro, l’aggiogò a un bue e a una giovenca e lo portò a tracciare il solco, seguito dai primi lavori di sacrificazione delle fortificazioni, del pomerio di Roma, sacramentando in ogni dialetto italico a lui conosciuto per le asperità non completamente accomodate cui andava incontro.
Completato il circuito del solco, tornò nell’Auguratorium da cui aveva determinato i punti cardinali della Città, e insufflò nel lituo sacro, poi accuratamente distrutto, il Nome Segreto dell’Urbe Roma.
Infine, tornò con passo pesante alla capanna regale, dove il vecchio Faustolo l’aspettava orgoglioso di esserne stato il primigenio padrone di casa, e tal quale si comportava con i notabili del Septimontium là convenuti, che riuscì a congedare solo dopo parecchie superflue concerie.
Congedato pure l’importuno vecchio, fastidioso nella sua felice logorrea, Romolo si stese sul suo giaciglio, precipitando in un sonno viziato dal timore che qualche altra divinità, supera o infera, venisse a turbarglielo…

Poi, dopo essersi rinfrescato e rifocillato, tornò sui suoi stanchi passi per controllare che fosse stato rispettato ovunque il corretto procedimento di colmatura del solco, scavo e prima posa delle fondamenta del muro.
Giunto più o meno all’altezza del tratto dove, alzando l’aratro, aveva segnato lo spazio non consacrato della Porta Mugonia (le Porte sarebbero poi state diversamente consacrate, con un rito distinto da quello di consacrazione delle mura, e intanto cominciavano a servire al via vai dei mulattieri con il pietrame e l’argilla per le cortine), Romolo si vide sbarrato il passo da Remo.
“Sei a cavallo del tracciato sacro, sai?” ansimò Romolo.
“Già.”
Remo aveva l’aria stravolta di chi non dormisse da giorni, o nel sonno fosse continuamente visitato da demoni. Stava in effetti a traverso del solco appena colmato con le pietre di fondazione, l’espressione disperatamente strafottente.
Portò entrambe le gambe all’interno del solco.
“Queste mura non ti difenderanno da nulla, se ora non le purifichi col mio sangue!” singhiozzò.
Romolo si guardò attorno, sgomento. Vide Celere alzare la zappa per colpire in testa Remo, che pure l’aveva difeso in tanti combattimenti, e ne era stato difeso in altrettanti. Alzò una mano per fermarlo, e nello stesso tempo vide altri dei compari di tante incursioni, lotte, conquiste, sbucare dalla boscaglia assieme a una quantità di sconosciuti, tutti guardando interrogativamente Remo, alcuni ostilmente lui.
 “Che significa tutto ciò?” chiese il vecchio Faustolo, che stava godendosi il trionfo di almeno uno dei suoi antichi protetti.
“Che se di uno in due che eravamo, dobbiamo passare ad Uno che regni, l’altro deve partecipare in qualche modo. Se non altro, col sangue.” Rispose con dolcezza Remo al suo tutore di ancora pochi anni prima.
“Ma è assurdo! Non è certo questo il volere degli Dei! Ci sarà certo pure una qualche carriera sacerdotale degna di te, Remo, a Roma…”
“Fate tacere quel vecchio!” esclamò Romolo lanciando un’occhiata stizzita al burbero vecchio precettore, prepotente finché eran stati bambini, ingombrante poi.
Qualcuno fra i suoi, che abbandonando il solco e lo scavo delle fondamenta si stavano contrapponendo agli ostici ma ancora silenziosi antagonisti, i quali agitavano minacciosi ogni sorta di arma propria e impropria, dai pugnali alle picche, dalle roncole ai remi, lo prese troppo in parola.
Faustolo si prese una badilata in testa, suo fratello Plistino, sacerdote Luperco che per i Gemelli era una sorta di zio, cadde nella zuffa scatenatasi immediatamente, fra strepiti e urla da ambo le parti.
“Cosa vogliono! Cosa vuoi?” gridò furioso Romolo a suo fratello, sbracciandosi per cercare di placare lo scontro, affascinato dal rotear dei remi che rimbalzava più che colpire le teste dei suoi compagni.
“Loro? Impedire che Roma nasca. Io? Morire. Di tua mano. Non so se son stato, e quando, nel giusto e nel sbagliato. Ma Remoria è un nome improponibile. Sa di morte a solo pronunciarlo. Il suo Eponimo non merita altro che provare a fondarla altrove. Aldilà…”
Romolo stava per chiedergli di continuare: aldilà dove, di che? Poi comprese. Comprese che Remo aveva, come al solito, una sua triste ragione per ogni cosa.
Ormai la rissa era una zuffa, e rischiava di trasformarsi in battaglia se tutti gli attirati dal chiasso si fossero schierati. Per nessun altro motivo che tentare di impedire una cosa già fatta, una decisione già concordata con gli Dei.
L’unica maniera per impedirlo, era quella.
Affondandogli la spada nel ventre, che altro non poteva fare perché sbudellarlo era anche quello un rito, Romolo chiese al suo gemello, confondendosi nella sua stessa pazzia:
“Ma davvero non potevi prendere su la tua sacca e andartene ad Aricia a mangiar la porchetta, se proprio non ti andava di sfidar il Rex Nemorensis?”
“E tu?”
“No, io no. Gli Dei mi han scelto per far altro.”
“Pure a me…”
E fu in quella che Celere, placata la rissa con il crollo a terra del presunto capo e la conseguente fuga dei rivoltosi, disse alle spalle curve di un Romolo piangente su un Remo rantolante:
“Soffre troppo a lungo così: devi tagliargli la vena del collo, quella lì, vedi?”
“Fallo tu…”
E così, in effetti e per vari racconti poi riportati, fu Celere ad uccidere Remo con una badilata in testa, e non Romolo.


Comunque andasse, forse andò così, che in fondo non si sa, e allora perché no…?

6 commenti:

  1. Mooolto meglio di GRR-quello-là; meglio anche di quell'altro di Napoli (che però dice di essere di Mantova).
    Se fanno una o più serie alla tele citeranno anche il Tamburo. Altrimenti peggio per loro ce lo teniamo tutto per noi.

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    1. Eh eh... chi è GRR-quello-là? Quell'altro è Virgilio e vabbè, s'è dato da fare ma si sa che non era mai contento, ma di narratori di riporto delle origini di Roma ce n'è ad abalus, da Varrone a Tito Livio, che in genere sapevan tutto loro. GRR-quello-là quindi e però, mo mi manca. Sempre che correli bene, altrimenti mi manca comunque... ;)

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    2. In effetti non si parla di Roma o dintorni. E non è un classico in senso classico.
      GRR

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    3. Eh... non essendo un frequentatore di Fantasy, né letteraria né visiva, comprendo solo in parte il tuo paragone. Ma l'interpreto così: io tendo a "sceneggiare" le mie storie. E mai abbastanza, questo è il mio costante cruccio. Infatti è sempre dovuto alle esigenze narrative: le forme alternative alla lettura, in cui le storie un tempo semplicemente lette e immaginate si possono espandere, condizionano ormai il nostro immaginario. Film, Telefilm, Telenovelas, Seriales... la Letteratura deve adeguarsi a tutto questo.
      Perché, prima di essa, è la stessa mente umana che sta adattandosi a lavorare sempre più celermente.
      Il segreto della Letteratura, scritta o evocata in qualsiasi altra maniera, è di saper giostrare più o meno celermente sull'attenzione del Pubblico. Indipendentemente dalla storia raccontata.
      Io ci provo, tenendo conto di tutto ciò, consapevolmente o - ormai -- inconsapevolmente. A tener viva la Letteratura, in qualsiasi modo, intendo...

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    4. Esattamente!
      Io con GRR Martin ci ho provato, un malloppo che non ti dico a un prezzo di una volta. Ma non sono riuscito a superare pagina 200, ben lontano dalla meta. E naturalmente senza capirci niente; appena mi familiarizzavo con un nome quello veniva fatto fuori in modo mai banale. Pensare che avevo scelto la via più tranquilla, la carta, invece della tele.
      I giovani hanno una loro mitologia che ha sostituito quella che a noi veniva trasmessa a scuola (poi io mi sono dirottato prestissimo sul tecnico quindi ne so poco anche di quella).
      Meno male che sono vecchio altrimenti dovrei fare corsi accelerati di Spider man, Ninjia e affini, Peppa Pig e --ovviamente-- GRR (e affini).
      Per contro sono moderatamente aggiornato sulla Guida Galattica e sul Mondo Disco; ma pare che non siano mainstream.
      In ogni caso i tuoi post sono davvero belli, anzi di più, verrebbe da dire, se mi posso permettere la citazione classica: Zeb rockz!

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