Erano dei vecchi seduti in circolo attorno a un fuoco.
Alcuni su grosse pietre singole ben smerigliate, altri fianco a fianco su
panche di legno piallato incastrate fra altre pietre, altrettanto grosse. Alle
loro spalle i muri intonacati e dipinti di una capanna come tante, in
quell’inverno di inizio dell’Età del Ferro, che si levavano fino a sorreggere
le leggere e fitte travature del tetto conico, dal cui oculo alla sommità
usciva il velo di fumo del falò alimentato a legna di quercia, mirto e olivo.
Non avevano nulla di strano, nulla di anomalo per i tempi, a
parte l’età avanzata non facile da raggiungere, avvolti nei loro mantelli di
lana brutalmente cardata, i cappucci calati larghi dalle orecchie al collo per
raccogliere il calore del fuoco anche sulla nuca, oltre che per sentire ciò che
gli altri avevano da dire. Perché tutti erano lì per parlare, e quindi dovevano
prima di tutto udire.
Parlavano un linguaggio brusco, essenziale. Era quella sorta
di koinè pastorizia italica che si sarebbe raggrumata nel latino dopo
l’introduzione della scrittura nei documenti pubblici, non prima di altri due
secoli, più o meno dieci generazioni. Ma i Romani, finché l’Impero non fosse divenuto
effettivamente tale, e verbosamente ellenistico, non avrebbero mai abbandonato
quella estrema sobrietà, sintesi, brutale secchezza di linguaggio.
Un primo Vecchio ruppe finalmente il silenzio scandito dalla
pioggia che scrosciava sul tetto di paglia compressa con argilla.
“Deve nascere! E deve nascere ora, per le prossime Parilia.”
Gli altri scossero lentamente il capo, senza quasi far
muovere il cappuccio a cuffia che portavano in testa, più o meno assentendo.
“Quirino osserva!” asserì un secondo, assiso s’un sasso
leggermente più alto degli altri, ma solo per caso.
“O Tito Tazio per lui!” sottolineò un terzo, ma non con
l’aria di voler appoggiare il secondo.
“Appunto! – insistette il Primo – Deve nascere prima che i Sabini occupino il
Campidoglio!”
“O prima che lo facciano i Veienti…” disse in tono dolente
un quarto.
“Eppure i Rasna ci saranno molto utili…” disse in tono
meditativo un quinto.
Tutti lo guardarono.
“Sono il grande assente. Solo i Rasna della Tuscia hanno
riti della fondazione alternativi a quelli Sabini. Che prevedono città senza
mura, quindi un saldo possesso del circondario. E il circondario del
Campidoglio è il Septimontium…”
“Invece, una città murata…”
“Una città murata è sulla difensiva. E il Palatino incombe
proprio sul guado…”
“Anche il Campidoglio!”
“Anche l’Aventino!” disse un sesto
Tutti ora si fermarono a guardar lui.
“Anche l’Aventino cosa…” borbottò il quarto
“Non è proprio sul guado, lo so! – precisò il sesto in tono
indispettito – Ma è proprio dove il Tevere si placa dopo le turbolenze del
guado e dell’isola. Lì potrebbero fermarsi le barche del sale che risalgono
dalla foce, ed è più vicino alla Pista Campana del guado stesso…”
“Giù per la Pista Campana ci vanno soprattutto i Tusci…”
“E un bel po’ di Celti. E Liguri. E Veneti giù dalla Pista
Salaria, ma non solo per il sale…”
“I Greci non han smesso di approdare ovunque, anche se si
sono concentrati in quel porto puzzolente, là prima del regno di Vulcano…”
“Ecco! E poi si vanno tutti a incuneare nella nostra valle
in mezzo al Septimontium, fra le tombe degli avi…!”
“Ce ne dobbiamo rendere convinti. – il Primo aveva un tono paziente
ma reciso – Quando quegli antenati venivano sepolti laggiù, il traffico sul
guado non era così imponente. Ricordo che mio nonno raccontava di essersi
indignato, quando si cominciò a parlare di un ponte al posto delle chiatte…”
Tutti annuirono pesantemente, mormorando il ricordo delle
tante dispute che da generazioni si accendevano su quel basso ma spesso
turbolento passaggio fra il Latium Vetus e le italiche montagne e i lidi
destinati a divenir greci da una parte, la minacciosa, misteriosa, inquietante
Tuscia dall’altra. Indispensabili antagoniste nella penisola però, l’una per
l’altra.
Lungo la ripa sinistra del Tevere correvano una miriade di percorsi,
sentieri ben battuti da decine di generazioni di mercanti territoriali, che
scambiavano tutto ciò che un villaggio appeso fra i monti nel tardo neolitico e
prima età del ferro non poteva prodursi autarchicamente per facilitarsi la vita,
con lana e pellami, carni conciate e animali vivi. E soprattutto sale, come
merce o come moneta, tutti.
Oltre la ripa destra, in mezzo a selve vulcaniche, stava
giungendo al culmine una alchimia di culture che raggrumava in sinecismo le
prime vere città della penisola, diversa fondazione rispetto a quella coloniale
di Cuma da parte dei Greci. Quell’alchimia poi chiamata da se stessi Rasna, da
sempre Tusci, e dai posteri Etruschi, proprio i Greci si stava preparando ad
affrontare, per mare e per terra, Cartaginesi sul mare ed Equi, Volsci e
Sanniti su terra permettendo.
E Romani, da lì ad una generazione, che sarebbero nati per
permetterlo o non permetterlo, permettendo o non permettendo.
Perché quei vegliardi son lì per decidere la fondazione di
Roma. O meglio, programmarla. E finalmente.
Rappresentano i vari villaggi, o gruppi di villaggi, sulle
pendici dei colli su cui poi si espanderà l’Urbe, tutti espansione etnicamente
ormai mista delle popolazioni montane che per commerciare in buoi o in pecore,
per cercar sale o per cercar pesce salato, per trovar attrezzi, vasellame e
armi, prodotti magari oltremare, incombevano sempre più da vicino al guado che
sul Tevere si incrociava con le vie trasversali, provenienti dalla sua foce e
diramantisi per la sua larga valle.
Mancava, fra loro, il rappresentante dei Sabini. E questo
perché i Sabini, un popolo che pretendeva di discendere dagli Spartani, erano
in netto vantaggio su tutti gli altri.
I loro villaggi – capanne praticamente identiche a quelle
dei loro vicini e contendenti, solo dipinte con soluzioni di colore diverse,
probabilmente caratteristiche per ogni gruppo “etnico” – ormai incombevano
direttamente sul Campidoglio dal Quirinale, e già i primi cippi d’altare sabini
contendevano la sacralità del colle irregolarmente cornato a quelli degli
Aruspici Rasna, da un pezzo insediati sull’Arx.
Quel che temevano quegli anziani – che non rappresentavano
gli effettivi Capi delle loro comunità quanto i più ascoltati consiglieri di
tutti – era che Sabini ed Etruschi si dividessero il colle capitolino con due
contrapposte fortezze, e da lì condividessero il controllo del guado e del
fiume.
Quello era in effetti il miglior punto tattico per tenere il
passaggio sotto controllo, con pure l’isola fortificabile, era da veder da
parte di chi. Ma era pure, il Campidoglio, un lungo scoglio più adatto ad un
castrum, a una fortezza, non a una città, con tutte le sorgenti di acqua pura
alle basi delle pendici, duramente difendibili.
Mentre il Palatino, con più di una sorgente probabilmente
nell’intaccatura fra Palatino e Cermalo, era il luogo ideale per una
cittadella, se proprio non una città. Ma anche l’Aventino, se con intenti più
pacifici e commerciali che bellicosi.
Ed è proprio di questo che stan discutendo, infatti, gli
antenati del Senato di Roma…
“Aventino o Palatino, il Fato lo deciderà. Ma chi deciderà
il Fato?”
“Appunto…”
“Abbiamo istruito decine di giovani, da quando eravamo
giovani noi e lo erano i nostri anziani, ad Alba. Possibile ci siam ridotti a
scegliere solo fra quei due?”
“Questo è – sospirò pacato il Primo – e vedo che devo
ricordarvi il perché. Alba, e mi spiace alcuni di voi non ci siano stati
istruiti, è un duro carcere sacerdotale. Tanto terribile che è l’imperante
fonte dei Rex Nemorensis della sottostante selva Aricina, ininterrotta dai
tempi di Ascanio, se non una volta sei generazioni fa da parte di un bovaro
impazzito, per quel che se ne sa… L’abnegazione ai riti è preponderante su quel
poco di istruzione universale che, del resto, solo l’esperienza può dare.
Per cui da Alba, chi non ne esce cacciato, ne esce insano, e
solo chi ne fugge è il più sano.
Quei due ragazzi son fuggiti da là, uno è stato ripreso, il
fratello è andato a liberarlo con l’aiuto degli amici comuni. Han messo a sacco
Alba, bastonato a morte il Priore Amulio, sostituitolo col predecessore
Numitore. Son loro due, tutti gli altri si son fatti… lessare dalla Disciplina
di Alba. Come molti di noi.
Se vogliamo che la città nasca Urbs, e che non nasca sabina
o rasna, dobbiamo usare quei due ragazzi…”
“Di dubbia origine…”
Lo scatto del Primo gli fece cadere il cappuccio dalla
testa, e mostrare la sua fredda rabbia.
“Gliela costruiamo NOI l’origine! È un’altra LORO forza non
averla! Sarà la NOSTRA Urbs! E la nostra rivincita su Alba…”
Tutti quelli che in gioventù erano stati ad Alba, novizi nei
vari templi o tabernacoli che cercavano di riunire ad Uno, il Giove Laziario, i
tanti culti del Latium Vetus, assentirono. Ma incerti. Gli altri,
paradossalmente, rassicurati.
Romolo aspettava, davanti alla sua tenda appena più grande
delle altre ma con un piccolo portico di quattro colonne in legno non
scortecciato coperto dagli scudi dei compagni, mascherando la sua impazienza
con un manto di imperturbabilità istintivamente regale. Ma provava brividi, e
non di freddo.
Stavano venendo per decidere se ci dovesse essere un Re, e
come gli Dei avrebbero dovuto decidere chi, fra lui e Remo, o se entrambi,
dovesse fondare e regnare su un nuovo Oppidum, se non proprio una vera Urbs, di
cui non coglieva appieno la reale differenza. Ma pareva ci fosse, e presto
sarebbe stato tutto spiegato: i pochi anni del Collegio di Alba non erano stati
completamente inutili. Anzi, affatto.
Un duplice Re non era inconcepibile: c’era l’esempio di Sparta,
i Sabini ne erano uno più vicino. Ma i Sabini non avevano il problema di un
eponimo fondatore delle loro città, essendo queste “senza mura”, edificate cioè
sui cocuzzoli piatti più impervi a sinistra del Tevere, difese nei punti più
delicati da agger con valli.
“Senza mura” significava senza un vero e proprio rito
fondativo del territorio sacro della città, una possessione implicita di tutto
ciò che servisse ad alimentare il nucleo lassù, dominante il Tevere da una
parte, vallate di campi, oliveti, pascoli, frutti e vigne dall’altra, sullo
sfondo il volto immoto del Subasio, e i picchi Marsi e Brutii.
Sia il rito greco che il rito rasna esigevano invece un
preciso Eroe, che si prendesse carico personalmente delle responsabilità della
Comunità. Con diverse modalità, questa era l’ultima cosa chiara sia a Romolo
che a Remo.
Ed eroi, se non Re, erano acclamati dalla loro banda di
giovani, facinorosi e di cuore generoso, o dai viandanti che liberavano o
proteggevano, in cambio di un dono, dalle altre bande di banditi che
infestavano la via Campana.
In realtà, Romolo e il suo gemello Remo avevano scelto di
trarre il loro bottino più dall’assoggettamento delle altre bande a loro
analoghe, che da nuove scorrerie sui mercanti che venivano e andavano attorno
al guado. Erano insomma già più guerrieri che ladri e assassini come gli altri,
sebbene come loro banditi dalle loro comunità di nascita, ma fin dall’infanzia
e non per insopportabile o irascibile comportamento: più che altro per motivi
di oscura origine, imperfezioni fisiche rivelatesi poi non letali, presunto
rachitismo poi trasformatosi, nelle capaci mani delle nutrici prostitute delle
grotte sacre dedicate a Luperco, in estrema robustezza.
Remo e Romolo erano stati abbandonati per tutta quella serie
di motivi: illegittimi gemelli, non così identici da non poter dirimere a prima
vista chi fosse l’uno e chi l’altro, destinati comunque a presunta breve morte.
Remo, che aspettava apparentemente inquieto ma in realtà eccitato
dall’evento che si prospettava fianco a fianco del fratello, aveva un fisico
più esile e un’indole meno turbolenta del gemello, ma non meno disposta a
pensare in grande. Era stato in effetti lui a liberare Romolo, catturato dalle
milizie di Alba – o del Collegio Sacerdotale del Giove Laziario di Alba, il che
era lo stesso – col colpo di mano che aveva rovesciato il Priore, il Re di Alba
Sacerdote del culto interetnico latino, Amulio, rimettendo sul suo scranno il
predecessore Numitore.
Dopo, nulla era più stato lo stesso. Il prestigio del
Collegio Sacerdotale di Alba era ormai scosso, Numitore ancora viveva ma dopo
la sua probabile prossima morte già si preannunciava il caos fra i pretendenti.
I popoli latini però, quando guardavano nella direzione dei loro pellegrinaggi,
cominciavano a vedere troppo astio e troppo sangue.
Per tutti quelli che avevano dovuto sopportare la disciplina
di Alba, Remo e Romolo erano due Eroi. In uno, perché se Remo aveva portato a
termine l’azione, Romolo l’aveva portata a compimento.
Finché erano andati d’accordo, con quella strana intesa che
corrisponde i gemelli, Romolo e Remo avevano condotto come una sola persona in
grado di sdoppiarsi una banda di giovani e meno giovani che ora, accampata a
valle dell’Aventino, era composta da qualche centinaio di uomini, guerrieri ben
addestrati. Un esercito quasi imponente, per i tempi e per i luoghi, che
cominciava a mostrare le sue esigenze.
Quindi tutti, oltre i due Capi gemelli, aspettavano con
impazienza la missione dei rappresentanti del Septimontium, in attesa di quella
dei Sabini, ed eventualmente pure quella dei Veienti.
Fra tende in pelle e rozze capanne di frasche appena
immaltate d’argilla, l’accampamento poteva sembrare un lercio villaggio sulla
ripa del fiume, destinato a venir spazzato via dalla prima piena del Tevere a
primavera. Erano lì dalla fine dell’estate precedente, quando sembrava un gioco
vivere con i proventi della presa di Alba e il pesce portato dai pescatori
della foce. Poi il bottino era finito, e del resto dal mare in burrasca non
arrivava più pesce, e dal fiume freddo ne arrivava poco, e scipito.
E allora, avevano cominciato, a piccoli gruppi, a visitare i
mercati dei buoi e delle pecore piuttosto che quelli del pesce, e a risalire i
colli boscosi di olivi e frutteti piuttosto che aggirarsi nella valle nebbiosa
dove il Consilio del Septimontium si riuniva ai piedi dell’Arx capitolina, in
un piccolo santuario dedicato a Vulcano perché sopra una rara sorgente calda e
puzzolente, il Volcanal.
Remo e Romolo avevano lasciato piede libero ai loro
confratelli, a patto che – e questo dopo lunghe concioni sia pubbliche che
intime – le loro mani stessero per il momento ferme. Si dovevano mostrare, e
mostrare il più amichevoli possibile, ma lasciando intendere che laggiù stavano
morendo di fame, e che erano armati. Dovevano mostrare anche quello, ma solo
mostrare. Per il momento.
Verso la metà di novembre, il momento venne preceduto
dall’annuncio dell’arrivo – giusto a metà mese – di una delegazione dei Patres
del Septimontium. Quella che in quella mattinata uggiosa e bigia, stavano tutti
aspettando.
“Aventino – ripetè petulante Remo, in un tono comunque comprensibile
solo a Romolo. – È più comodo in tutto. È più facile da fortificare. Ha più
sorgenti e più alte. È più vicino allo snodo della via Campana: proponigli un
porto lì, alle sue pendici, e vedrai quanti greci arrivano…”
Romolo aveva perso il conto di quante volte avesse già
sentito quel ragionevole discorso.
“Va bene. Sono d’accordo con questo! – sbuffò in tono di
sopportazione – Ma se ci offrono le Esquilie?”
“Lo considererei offensivo. Ci sarebbe da scavare ed erigere
un agger, là, e non mi pare dobbiamo farlo noi.”
“Eccoli. Placati. Lascia fare a me.”
Un mese dopo, intirizzito in un’alba tersa sul monte Murcus,
o Piccolo Aventino, Remo si stava per l’ennesima volta pentendo amaramente di
aver lasciato fare a lui, e a quell’altra manica di mascalzoni dei Patres septimontiani.
Perché quel fetente di un fratello, gemello perdipiù, aveva
ceduto immediatamente all’offerta del Palatino da parte dei vecchioni, tanto
immediatamente da far pensare che già se l’aspettasse. Intense baruffe nei
giorni successivi, e precedenti l’arrivo degli Aruspici Rasna, non erano
servite a smuoverlo di un millimetro, dopo poi era stato tutto perduto.
“Fortificare il Palatino è follia! Ci vorrebbe un giro di
mura abbarbicato ai peggiori spuncioni. Il movimento dei difensori fra i vari
punti del muro sarebbe solo lungo questo, perché fra Germalo e Palatino
maggiore c’è quella dannata valle, e anche le superfici dei cocuzzoli sono
tutt’altro che agevoli. E là sopra poi, che villaggi ci vuoi mettere, che pure
gli Argivi s’eran ridotti a viver nelle grotte…”
“Ma quali Argivi! Che dai tempi di Evandro si misero a
ingropparsi solo fra di loro, altro che grotte! E gli spuncioni comunque sono
anche protettivi. E la nostra gente s’arrangia. Ma il Palatino è strategico,
capisci! È a un tiro di lancia dal Campidoglio, è direttamente sul guado. E chi
controlla il guado, controlla tutto, dai che lo sai!”
“Sì, ma se lo blocchi. O se imponi le tue imposte e tariffe.
E per far questo dovresti far continuamente guerra a tutti. Dall’Aventino
sfrutti i commerci, li proteggi…”
“Loro son convinti di poterci controllare. E invece li
costringeremo a farsi controllare da noi!”
“Dal Palatino.”
“Sì!”
“E perché dall’Aventino no?”
“Per Marte! Perché fra l’Aventino e il guado c’è il
Palatino, e se non lo prendiamo noi, se lo prenderà qualcun altro che si
metterà in mezzo a far quel che potremmo fare noi! Tito Tazio per dire. Poi
dopo prendiamo pure l’Aventino, stai sereno…”
Remo sarebbe stato pure sereno, senonché al termine del
ciclo accelerato di istruzioni sui corretti riti di individuazione del favore
degli Dei – Rasna, ma estensivamente a tutti quelli innumerevoli dei culti
italici, i sacerdoti Tusci erano di ampie e comprensive vedute – per la
corretta fondazione di una Urbs propriamente detta, gli venne il fondato dubbio
che in fondo alla fiera ci fosse spazio per un solo Re, e che non dovesse
essere lui. Qualsiasi cosa avesse visto, quelli che disponevano tutto attorno
ai destini del guado avevano già deciso, fossero Dei o fossero uomini.
Già la posizione degli auguratoria. Importava poco avessero
fatto tracciare il suo più avanti e quello di Romolo più indietro, ma
leggermente più alto per far coincidere le loro collimazioni con la cima dei
Colli Albani, in corrispondenza del Santuario di Giove Laziario. Il fatto era
che stavano entrambi sull’Aventino, e nessuna città veniva fondata attorno al
suo Auguratorium. Nessuna città Rasna, almeno.
Per cui non si fece tante illusioni, quando vide quello
scarno stormo di sei corvi volare verso occidente, e suonò con poca convinzione
nel lituo per richiamare l’attenzione al compimento del suo auspicio.
Poco dopo la sua deposizione ai sacerdoti interpreti, arrivò
infatti quella di Romolo: dodici rapaci, e rivolti a oriente. Non c’era altra
interpretazione possibile rispetto a quella degli Aruspici Rasna, ormai aveva
imparato quel che bastava della loro arte per capirlo immediatamente anche lui.
Sarebbe stata Roma sul Palatino, non Remoria sull’Aventino,
o ai suoi piedi. Sarebbe stata Città di guerre, non di commerci.
“Quindi, adesso ci mettono quegli impiastri sul Palatino!”
disse con tutta probabilità Tito Tazio, nell’assemblea dei Notabili Sabini da
lui convocata, come Re di Cures la Città Spartana, nel recinto dell’ara a
Quirino, sulla cima più alta del Quirinale.
“Non si può impedirglielo?”
“No. È Septimontium, per quanto abbandonato da generazioni
alla degenerazione dei discendenti di Evandro. E ormai si sono estinti da
almeno due generazioni, o almeno non se ne ha più notizia, lo sapete meglio di
me. Hanno diritto ad occuparlo. È il modo che mi preoccupa.”
“Possiamo sempre bilanciarli occupando il Campidoglio…”
“Non è così facile. Non è la stessa cosa. Dalla parte della
valle è a diretto contatto coi Latini. Dall’altra parte è facilmente
rifornibile dalla sella che sale a dividerla dall’Arx, ma sotto c’è la pianura
paludosa, e non è facile far passare i rifornimenti da là…”
“Bisogna occupare l’Arx e liberare l’accesso dalla sella.
Son pochi Aruspici Rasna e i loro servitori!”
“Abbiamo un trattato in corso con Veio, che ci impedisce di
toccare qualsiasi interesse etrusco…”
“Quelli non sono Sacerdoti veienti!”
“Vero. Ma se li tocchiamo andiamo a scombussolare i rapporti
fra Tarquinia e Veio, e nessuno ce ne sarà grato, ve ne assicuro!”
Tito Tazio non era riconosciuto Re e Capo della
confederazione Sabina per meri motivi di sangue. O comunque non solo.
“In gennaio Giano apre le porte al mese più freddo dell’anno”
aveva sentenziato la Sibilla Circea interpellata attraverso gli ormai anarcoidi
culti di Alba, e così le porte delle capanne del Septimontium si aprirono per i
seguaci di Romolo che dovevano assistere e consistere alla fondazione della
prima vera Urbs a sinistra del Tevere.
Non erano più banditi, non erano più esclusi. Erano novelli
Eroi, in procinto di compiere l’adempimento di un rito – qualunque fosse – che
desse sicurezza sul guado e sulle strade che se ne diramavano.
Quel monte frastagliato, fino a poco tempo prima abitato
solo dagli Argivi, lemuri di quello che forse era stato un piccolo Popolo Greco
contemporaneo di Enea e Turno, dove i padri portavano i figli per i primi riti
iniziatori di passaggio dall’infanzia alla maturità, stava per diventare un
oppidum fortificato a monito di tutti i malintenzionati. Questo, almeno,
volevano pensare i buoni villani dei villaggi sui colli, sette per comodità
rituale e contabile.
Fino a marzo, al Tubilustrium di inizio anno, al mese
precedente le Parilia.
In quel mese Remo vagabondò attorno, come insaccato in se
stesso, fra i fori boari, piscari, ovari, ma soprattutto nella fetida valle in
cui si scaricavano tutte le deiezioni del Septimontium, o direttamente per i
ruscelli che ne scavavano le valli, o per risalita dalle falde solforose.
Soprattutto lì, perché essenzialmente lì si riunivano gli
uomini che contavano, in quella confusa gerarchia di subdoli rappresentanti di semplici
esigenze ma complessi interessi.
Ma per quanti l’ascoltassero più o meno volentieri,
l’accesso al Volcanal per ufficializzare le sue ragioni, gli venne sempre precluso.
Remo si rese conto di essere, oggettivamente, un problema,
anche prima del volerlo essere: non aveva più alcuna funzione, e nessuno
riusciva a trovargliene una.
“Ti stai torturando troppo, Remo…”
“Mi costringono, a torturarmi… insinuando che forse sì,
Remoria si può fare nonostante la città di Romolo…”
“Andiamo, Remo! Due città in un colpo solo! A farsi guerra
da subito. A contendersi le donne, perché è questo che da subito vogliono fare
i tuoi prossimi concittadini. Guerra. Per aver donne.”
“Sì, è ovvio. Giusto. All’inferno Remoria! Non tutti son
fortunati come me!”
Il tono di Remo era troppo acido per non rendersi conto di
quanto imbecille fosse il commento, per quanto e proprio per questo sincero.
Aveva appena diciott’anni, in fondo. Lupercula, che ne aveva pochi di più e
aveva giocato con lui e Romolo come se fossero stati due bambocci, quando li
avevano pescati in quella cesta arenata fra le radici del fico, sorrise amara,
sviando con rassegnazione il discorso.
Lupercula era solo la preferita fra tante Lupercule, le
ragazze allevate dalle stesse Lupe che allevavano gli sbandati come Remo,
Romolo e i loro compagni, come loro destinate allo sbando, ma alcune come
quella Lupercula lì indubbiamente destinate a succedere come Lupe alla Grande
Lupa attuale, Acca Larentia.
Qualcosa di diverso sia dalle prostitute che dalle
sacerdotesse sacre, con qualcosa di entrambe consacrato comunque all’ars
amandi, sia pur pecoreccia e non certo eterea – almeno nelle pretese – come
quella che di lì a pochi decenni avrebbe sfolgorato dal santuario della Venere
Ericina.
Lupercula, quasi una sorella di letto per entrambi i
Gemelli, era ormai l’unico punto di condivisione che gli rimanesse. E l’ultimo
nodo da sciogliere per dividerli definitivamente.
Ma lei, non intendeva prestarsi a quel gioco, non finché le
fosse stato possibile.
“Parecchi comunque. A molte donne, Sabine sul Quirinale ma anche
Eque sul Viminale, e immagino così ovunque siate stati ospitati nell’attesa
della fondazione della vostra nuova città, è capitato di innamorarsi. È diverso
che essere destinate a qualche sconosciuto, in cambio magari di due pecore.
Capisci?”
Remo annuì lentamente col mento.
“Ma le due pecore le vorranno comunque, le loro famiglie…”
concluse Lupercula
“L’hai detto anche a Romolo?”
“L’ho detto anche a Romolo.”
“E che ti ha risposto?”
“Che noi Etrusche siamo molto belle, e valiamo anche due
vacche, gravide magari…”
Entrambi non poterono fare a meno di sogghignare: era il
classico commento che ci si poteva aspettare da Romolo.
“Ma per me di Lupercula ce n’è una sola…”
“Non è vero. Ma è quel che ti distingue da tuo fratello: tu
sai mentire.”
“Perché, lui non mente?”
“Mente sì, ma non sa di farlo…”
“Sei l’ultima cosa che condivideremo assieme. E questo sai
che è verità.”
Toccò a Lupercula, stavolta, piegare il mento fino al petto
nudo.
“Fino a quando…”
“Fino a quando non sarà Re. Da allora in poi, non ci sarà
posto per me.”
“Puoi scendere al mare! Puoi prendere i pochi o tanti che
vorranno seguirti, e trovare altre terre!”
“E altre donne…”
“E altre donne…”
Ma vedendone l’espressione dolentemente indefinibile, Lupercula
sentì stringersi il cuore: in qualche modo, da vera sacerdotessa dell’Amore,
comprese che per Remo non ci sarebbero stati altri luoghi, e altre donne, se
non avesse trovato un’altra dimensione in cui esistere.
“Tito, la tua offerta è senza dubbio invitante, ma…”
“Pensaci. Te la popolo io di donne la tua Remoria
sull’Aventino. Fallo sapere a quanti più dei tuoi uomini. Perché sono pure tuoi
uomini, quelli, mica solo di Romolo…”
Remo era stato invitato alla inaugurazione-consacrazione
della nuova casa di Tito Tazio, proprio dove la sella dal Quirinale cominciava
a levarsi verso l’Arx, anzi formalmente (e provocatoriamente) appena entro il
recinto di cippi che gli Auguri Etruschi, dal sovrastante auguratorium,
utilizzavano per espandere il Templum all’intero arco visibile e a tutta la
calotta invisibile segnata dagli astri.
Era una vera e propria casa, più che una capanna
particolarmente grande. Forse la prima casa in muratura – o meglio, grossi mattoni
di tufo – che venisse costruita a Roma. E ad angoli e murature rette, non più
elissoidali. Già le case etrusche di Veio venivano costruite così, il tetto di
tegole a spioventi retto da un sistema regolare di travature, e non più il
conoide variamente robusto dell’intreccio di rami e ramaglie.
Non era ancora articolata attorno all’atrio con l’ampio
impluvium, una innovazione che avrebbe portato in seguito il contatto con le
città della Magna Grecia, ma piuttosto un piccolo cortile di distribuzione degli
ambienti, in stile Sannita. Rispetto alla maggior parte delle capanne del
Septimontium, era un palazzo, con un largo atrio affiancato da stanze per il
triclinio alla greca e per il pranzo in piedi alla Sabina. Oltre il cortiletto,
la stalla, il granaio e la cucina, e sopra di esse, parzialmente incassate nel
ripido terreno dell’Arx, alcune camere sovrastate da una lunga terrazza.
Dei notabili invitati dal Septimontium, pochi erano
intervenuti, essendo chiaro l’intento di Tito Tazio e dei Sabini di imporre
come stato di fatto la loro preminenza sul Campidoglio, e implicitamente sul
loro diritto di scacciarne eventualmente gli Auguri e Aruspici Rasna,
sostituendoli con altri italici, magari.
E qui stava il punto, anzi uno dei nodi che stavano per
venire al pettine. Perché non tutti, sul Septimontium, erano convinti che gli
Etruschi fossero il naturale antagonista degli Italici. I gruppi di maggior
prevalenza equa o volsca, e il piccolo gruppo di fuoriusciti Sanniti, trovavano
piuttosto concorrenti atavici i Latini, e questi guardavano piuttosto con
sospetto i Sabini per via del controllo che esercitavano sulla via Salaria e le
sue diramazioni, per quanto il controllo delle saline alla foce del Tevere
fosse da tempo immemorabile il principale attrito dei Latini con i Rasna, prima
ancora che cominciassero a definirsi così.
Assistendo e partecipando alla inaugurazione-consacrazione
della nuova casa di Tito Tazio, sostanzialmente un nuovo santuario federale dei
Sabini spostato agli estremi margini della loro influenza sul guado, Remo era
consapevole che sarebbe stato considerato Il Personaggio eminente dallo
schieramento pro-sabino, contrapposto a quello pro-etrusco la cui guida ormai
era Romolo. Ma nessuno lo poteva costringere ad accettare. Però nemmeno a non
ascoltar le proposte, e le richieste, che gli venivan fatte.
E l’idea di Remoria piaceva a tanti, anche tanti transfughi
dal campo di Romolo, atterriti dai riti etruschi di fondazione che si sarebbero
dovuti compiere.
“Anche se siamo discendenti degli Spartani – gli aveva detto
Tito Tazio durante la libagione alla Sabina alla fine dei riti di inaugurazione
– noi Sabini siamo diventati un Popolo ragionevole, e commerciante. Una forte
città commerciale a valle del Septimontium sarebbe un vantaggio per tutti. Pure
per i Rasna, checché ne pensino a Veio.”
“Sempre sotto la spada di Damocle di Romolo e della sua
città sul Palatino…”
“Presa a tenaglia fra Campidoglio e Aventino…”
“Non farò mai guerra alla città di Romolo. Piuttosto la
violerò personalmente, ma non vi porterò guerra fratricida per i nostri
compagni!”
Tito Tazio sapeva riconoscere quando si era spinto troppo
avanti, e glissò ancora verso l’aspetto pacifico.
“Non intendo soffocarla con le armi. Ma con l’inutilità.
Remoria assorbirà prima o poi la città di Romolo, credimi…”
E fu qui che offrì le donne, e fu qui che Remo decise di non
credergli.
C’erano però anche quelli che si offrivano sinceramente,
perché sinceramente favoriti dal sogno di Remo.
“Noi facciamo i barcaroli, Remo. Il tuo progetto ci piace: è
più dolce approdare alla ripa sotto l’Aventino, piuttosto che sui sassi del
foro Boario o Piscario. La corrente spinge sull’altra ripa, e non è un buon
punto per passare, ma per approdare venendo dalla foce sì.
Poi si potrebbe fare un traghetto. Sfruttando la corrente:
da una parte spinge, dall’altra tira, capisci?”
“No” ammise Remo.
“È tecnica greca. – spiegò il portavoce di tutti i
barcaroli, che assistevano alle sue spalle mentre Remo sedeva fronte a loro, su
una roccia sotto un salice in un’ansa tranquilla del Tevere, poche centinaia di
passi a valle di dove avrebbe dovuto sorger Remoria – I Tusci son bravi con i
ponti, ma sul Tevere non c’è da parlarne. Piene troppo grosse, sarebbe da
ricostruire ogni anno. Invece il traghetto, smonti le funi, tiri a riva la
chiatta, passa la piena e rimonti le funi. Attracchi il traghetto, tutto
fatto.”
“Fatto tutto, eh? E per portar cosa da dove a dove?”
“Tutto quello che adesso si va a imbudellare sull’isola e
oltre, in mezzo a quei colli puzzolenti. Non tutto magari: nei periodi di secca
le mandrie continueranno a passar per di là. Ma sarebbe un collegamento più
diretto per muli e carri fra la via tuscia costiera e la via campana…”
“E dalla via campana arriva sempre più merce pregiata
greca!” non riuscì a trattenersi dall’esclamare un giovane barcarolo alle sue
spalle, prendendosi una gomitata nello stomaco.
“Non son mai stato un brigante di strada, non lo diventerò
di fiume, se è questo che spero non intendiate…”
“Assolutamente! No! Tu sei il fratello di quello destinato a
fondare una città guerriera. Ormai s’è compreso. L’arruolamento è aperto a
tutti, tranne che a noi barcaroli. Perché? Perché siamo troppo importanti per
tutti: senza di noi il Tevere non si passa. A noi interessa la pace, a noi
interessa che i mercanti continuino a passare indisturbati da chiunque. Per la
giusta cifra resa ai servizi che gli si rende.
Noi ti crediamo, crediamo che tu voglia questo, e siamo pure
disposti a menar le mani se ce lo chiedi!”
“Io non l’ho mai proposto a nessuno, di menar le mani, da
quando sono qui.”
“E’ vero. Ma andiamo, Remo, sai che se vuoi la tua Remoria,
i nostri remi ti serviranno per darli in testa a tuo fratello!”
“Oppure, per fuggire – disse uno dei barcaroli, incautamente
a giudizio degli sguardi di tutti – Se andasse male intendo…” concluse, non
attirandosi maggiori simpatie, nemmeno da parte di Remo.
“No, fuggire no…”
“Se tu mai intendessi…” sussurrò insinuante il mercante di lana
conciata dalla sua baracca nel vicus Tuscus, dove Remo si era andato a ficcare
inconsapevolmente, preso dai suoi sempre più angoscianti pensieri, di ritorno
dall’ennesimo vagabondaggio ai piedi dell’Aventino, fra gli orti e le vigne
greche.
Perché infatti, là dove avrebbe voluto erigere la sua città
emporio, da lungo tempo c’era già una piccola stazione commerciale focese, una
sorta di rappresentanza coloniale ben precedente all’ondata montante di
“Fondatori di Città” che stava per esprimersi con Pitecusa, e Cuma, e via via
tutta la Magna Grecia.
Tuttavia, per quanto periferica e dimenticata fosse, la
piccola comunità greca (forse un centinaio di persone) rimaneva in contatto
culturale con tutto il resto della sua Koinè, e aveva una visione particolare
del problema.
“I Rasna te la faranno fare. Ma solo se farai anche di
Remoria una città Rasna.”
“Ma già dirigeranno i riti di fondazione della città di
Romolo…”
“Quei Rasna là, ma non sono gli unici. Anzi, i Rasna è più
facile dividerli che mantenerli uniti. Non sono un popolo molto unito, capisci?
Anzi, è più facile separarli, i Rasna, che unirli. Sarà per via della loro
troppo rapida origine. Però, chi ce la facesse avrebbe un popolo di
straordinarie capacità a sua disposizione.”
Seduto su una stuoia vicino al focolare centrale della casa
del Vecchio Greco, nel locus dove avrebbe dovuto sorgere Remoria, Remo comprese
forse come probabilmente le intenzioni di Romolo fossero infatti quelle di
impossessarsi della Tuscia – lui o un suo successore – proprio prendendola
dall’interno, dal ventre, come larve in una capra infetta.
“Dovrei far cosa, allora? Richiedere l’aiuto di Auguri e
Aruspici da dove?” chiese comunque, imbambolato dall’idea.
“Vedrai che ti si proporranno loro. Il guado non è
essenziale solo per Veio, è importante che Veio non lo controlli, ma è
importante pure che nessuno controlli Veio. Più ci si allontana dal guado, più
l’interesse si sposta su altre cose, capisci…?”
Remo capiva solo che c’erano due alternative al tradimento
nei confronti di Romolo e del suo Sogno: la morte o la fuga. Indegna comunque.
La fuga di certo. La morte… dipendeva come…
Ed era a questo cui stava pensando quando, dopo una faticosa
camminata sotto la pioggia attorno all’Aventino, su per la bassa Velia e giù
per la via sacra alla memoria degli antenati del Septimontium, fra i tuguri del
sentiero principale che scendeva dalle Esquilie costeggiando gli acquitrini di
quel che sarebbe divenuto il Foro, si trovò a dover rispondere alla garbata
insinuazione di quell’uomo dalla barba a punta tipicamente Rasna.
“Intendessi cosa…?”
“Perugia ed Arezzo ti aiuterebbero con tutta la sapienza e
potenza dei Rasna…”
Per un attimo Remo fu tentato ad infuriarsi. Ne avrebbe pure
avuto bisogno. Lo si veniva ad abbindolare lì, così, in mezzo a un tratturo
fangoso affiancato da capanne stinte, come se fosse un traditore qualsiasi
appena uscito dal tabernacolo di un vinario?
Ma questo era il notorio comportamento, quasi un
atteggiamento ostentato, dei Rasna: melliflui a chiedere, imperiosi ad imporre.
Così, Remo s’impegnò a controllarsi come ormai stava
imparando a fare per non impazzire, poi sibilò:
“I Rasna? Tutti? E Veio? E Tarquinia? E Caere?”
E qui ebbe una lezione che se fosse vissuto come governante,
forse gli sarebbe servita.
“Verrebbero prese a tenaglia, come il Palatino…”
Romolo era consapevole delle tribolazioni di suo fratello,
che parevano ai più trame con chi voleva in estremo impedire o intralciare la
nascita della Città.
“Non sa trovarsi un ruolo. E non so trovarglielo nemmeno
io!”
“Ovunque vada, lo seguiranno in troppi. Perché per andarsene,
se ne deve andare. In qualsiasi modo…”
“Ma senza portarsi via troppi uomini…”
Romolo si scostò scocciato dai suoi consiglieri, che in quei
giorni nella capanna appartenuta a Faustolo, subito sopra lo sperone che
conteneva la grotta di Luperco dove doveva sostener di essere stato raccolto e
accudito (e per quel che ne poteva ricordar lui, poteva anche esser vero), lo
tormentavano di istruzioni e consigli attorno alle celebrazioni del Rito fondatorio,
ma anche sulle conseguenze politiche di questo.
“Non va da nessuna parte. Tranne che in un luogo. Solo in
quel locus potrebbe trovare una dimensione per sé…”
Romolo pensava a una sfida al Rex Nemorensis: un vecchio
alunno del Collegio di Alba che campava come un vero Re sulle spalle delle
sacerdotesse del tempio di Diana. Ma Remo, pur senza rendersene conto, avrebbe
piuttosto scelto di portare la sacra tradizione da là a Roma.
Il Tubilustrium, otto giorni dopo l’inizio tradizionale
dell’anno di metà Marzo, era la cerimonia rituale di lustrazione delle buccine
da guerra (invero già ben lustrate lungo l’inverno dai buccinatores, designati
dai sacerdoti delle varie tribù) in quella strana comunità che era il
Septimontium. Avendo rapporti e interessi molto più stretti fra i villaggi dei
colli compresi fra il Tevere, l’Aniene e quella gibbosa piana fra i Monti
Albani e la palude pontina col mare a chiudere il Latium Vetus, piuttosto che
con i propri popoli di appartenenza etnica appenninica, gli abitanti del Septimontium
si erano già da tempo organizzati come una comunità proto-urbana, in Tribù
comprendenti villaggi territorialmente coesi dalle stesse necessità quotidiane.
Sinecismo, i dotti e sapienti han deciso di chiamare questo movimento, razionale a dispetto di ciò che vorrebbero alcuni, in ogni
tempo, con ogni cultura.
Una delle necessità impellenti, era l’autodifesa. Il
Septimontium era lo sfrangiarsi di un pianoro verso la valle del Tevere, e
dalla parte dei monti Tiberini le incursioni erano frequenti, sia di banditi
che per eventuali spedizioni dai monti verso il guado dei vari Equi, o Osci, o
Volsci, o Sabini. Quelli “puri”.
Abituato ad aver a che fare con i suoi robusti combattenti,
Romolo trasecolò a constatare come le Tribù del Septimontium tendessero a
mandare come truppe “volontarie” gli elementi più fisicamente inabili al lavoro
nei campi.
“Se vuoi andartene, puoi prendere un po’ di questi
rachitici” disse Romolo a Remo, improvvisamente comparso al suo fianco per la
prima volta dopo molto tempo, per guardare i goffi tentativi di darsi un milite
contegno da parte dei giovani villici.
“Anche se li porto a fondare Remoria?”
Romolo si sentì veramente scocciato da questa ennesima,
costante reiterazione di quella impossibile competizione.
“Non scherzare, Remo!”
“Non scherzo. Ho tutti gli appoggi che servono. Pure dei
Sacerdoti Rasna, ma di un altro rito. Altrimenti con rito Greco. Oppure Punico,
perché no?”
Romolo lo considerò silenziosamente per un istante.
Considerò, più che altro, la possibilità. La possibilità che,
contemporaneamente a Roma sul Palatino, sorgesse Remoria sull’Aventino. Una
Città gemella. Una Città concorrente. Una Città antagonista. Una Città alle
spalle, pronta a pugnalare, che prima o poi si sarebbe dovuto affrontare di
fronte.
“Perché no” rispose, reciso.
“Perché no!”
“Perché tu non sei eterno. E nemmeno io lo sono. Ma in
questa strettoia scelta dal Destino, ci passa uno solo. E gli Dei hanno
destinato me, a passare.”
Remo assentì lentamente, dolentemente.
“Ci sono troppe pressioni su di me perché lo faccia. Quante
altrettante dentro di me perché non lo faccia. Solo tu puoi risolvere la
questione…”
“Sfida il Rex Nemorensis…” provò a suggerire Romolo.
Remo rise, un riso di pazzia.
“Il Rex Nemorensis! Sei tu, il mio Rex, ne morensis…”
E sparì con un balzo in mezzo alla boscaglia che contornava, in quel che sarebbe divenuto Campo Marzio, la piana del Tubilustrium, che stava per cominciare appunto in quel momento con
le prime fanfare, dopo i leziosi e melodiosi componimenti di sistri e arpe.
“I demoni hanno preso la mente di Remo – disse Romolo ai
notabili che lo circondavano, a sempre meno rispettosa distanza – Forse i Dei
loci di Remoria lo assillano. Non so quali siano, ma si dovrebbe sacrificare
anche a loro…”
E questa parve, a quasi tutti, una ennesima dimostrazione
delle capacità intuitive e di sintesi di quel giovine Romolo. Scelta ben fatta,
si dissero tutti. Ma Remo, naturalmente, doveva morire.
Le Parilia laziali dell’anno precedente la Quinta Olimpiade
videro quindi la fondazione della Urbs di Roma.
Mentre le varie ed usuali cerimonie campestri di auspicio
per la nascita degli agnelli si svolgevano e spandevano dagli altari temporanei nei recinti
sacrali, Romolo sacrificò e consacrò l'inizio di una nuova Era, consapevole di
farlo, inconsapevole di cosa sarebbe divenuta.
Dopo le complesse procedure dettate dalla geometrica logica
celeste e infera dei Rasna, Romolo prese l’aratro, l’aggiogò a un bue e a una
giovenca e lo portò a tracciare il solco, seguito dai primi lavori di
sacrificazione delle fortificazioni, del pomerio di Roma, sacramentando in ogni
dialetto italico a lui conosciuto per le asperità non completamente accomodate
cui andava incontro.
Completato il circuito del solco, tornò nell’Auguratorium da
cui aveva determinato i punti cardinali della Città, e insufflò nel lituo
sacro, poi accuratamente distrutto, il Nome Segreto dell’Urbe Roma.
Infine, tornò con passo pesante alla capanna regale, dove il
vecchio Faustolo l’aspettava orgoglioso di esserne stato il primigenio padrone
di casa, e tal quale si comportava con i notabili del Septimontium là
convenuti, che riuscì a congedare solo dopo parecchie superflue concerie.
Congedato pure l’importuno vecchio, fastidioso nella sua
felice logorrea, Romolo si stese sul suo giaciglio, precipitando in un sonno
viziato dal timore che qualche altra divinità, supera o infera, venisse a
turbarglielo…
Poi, dopo essersi rinfrescato e rifocillato, tornò sui suoi
stanchi passi per controllare che fosse stato rispettato ovunque il corretto
procedimento di colmatura del solco, scavo e prima posa delle fondamenta del
muro.
Giunto più o meno all’altezza del tratto dove, alzando
l’aratro, aveva segnato lo spazio non consacrato della Porta Mugonia (le Porte sarebbero poi state diversamente consacrate, con un rito distinto da quello di
consacrazione delle mura, e intanto cominciavano a servire al via vai dei
mulattieri con il pietrame e l’argilla per le cortine), Romolo si vide sbarrato
il passo da Remo.
“Sei a cavallo del tracciato sacro, sai?” ansimò Romolo.
“Già.”
Remo aveva l’aria stravolta di chi non dormisse da giorni, o
nel sonno fosse continuamente visitato da demoni. Stava in effetti a traverso
del solco appena colmato con le pietre di fondazione, l’espressione disperatamente
strafottente.
Portò entrambe le gambe all’interno del solco.
“Queste mura non ti difenderanno da nulla, se ora non le
purifichi col mio sangue!” singhiozzò.
Romolo si guardò attorno, sgomento. Vide Celere alzare la
zappa per colpire in testa Remo, che pure l’aveva difeso in tanti
combattimenti, e ne era stato difeso in altrettanti. Alzò una mano per
fermarlo, e nello stesso tempo vide altri dei compari di tante incursioni,
lotte, conquiste, sbucare dalla boscaglia assieme a una quantità di
sconosciuti, tutti guardando interrogativamente Remo, alcuni ostilmente lui.
“Che significa tutto
ciò?” chiese il vecchio Faustolo, che stava godendosi il trionfo di almeno uno
dei suoi antichi protetti.
“Che se di uno in due che eravamo, dobbiamo passare ad Uno
che regni, l’altro deve partecipare in qualche modo. Se non altro, col sangue.”
Rispose con dolcezza Remo al suo tutore di ancora pochi anni prima.
“Ma è assurdo! Non è certo questo il volere degli Dei! Ci
sarà certo pure una qualche carriera sacerdotale degna di te, Remo, a Roma…”
“Fate tacere quel vecchio!” esclamò Romolo lanciando
un’occhiata stizzita al burbero vecchio precettore, prepotente finché eran
stati bambini, ingombrante poi.
Qualcuno fra i suoi, che abbandonando il solco e lo scavo
delle fondamenta si stavano contrapponendo agli ostici ma ancora silenziosi
antagonisti, i quali agitavano minacciosi ogni sorta di arma propria e impropria,
dai pugnali alle picche, dalle roncole ai remi, lo prese troppo in parola.
Faustolo si prese una badilata in testa, suo fratello
Plistino, sacerdote Luperco che per i Gemelli era una sorta di zio, cadde nella
zuffa scatenatasi immediatamente, fra strepiti e urla da ambo le parti.
“Cosa vogliono! Cosa vuoi?” gridò furioso Romolo a suo
fratello, sbracciandosi per cercare di placare lo scontro, affascinato dal
rotear dei remi che rimbalzava più che colpire le teste dei suoi compagni.
“Loro? Impedire che Roma nasca. Io? Morire. Di tua mano. Non
so se son stato, e quando, nel giusto e nel sbagliato. Ma Remoria è un nome
improponibile. Sa di morte a solo pronunciarlo. Il suo Eponimo non merita altro
che provare a fondarla altrove. Aldilà…”
Romolo stava per chiedergli di continuare: aldilà dove, di
che? Poi comprese. Comprese che Remo aveva, come al solito, una sua triste
ragione per ogni cosa.
Ormai la rissa era una zuffa, e rischiava di trasformarsi in
battaglia se tutti gli attirati dal chiasso si fossero schierati. Per nessun
altro motivo che tentare di impedire una cosa già fatta, una decisione già
concordata con gli Dei.
L’unica maniera per impedirlo, era quella.
Affondandogli la spada nel ventre, che altro non poteva fare
perché sbudellarlo era anche quello un rito, Romolo chiese al suo gemello,
confondendosi nella sua stessa pazzia:
“Ma davvero non potevi prendere su la tua sacca e andartene
ad Aricia a mangiar la porchetta, se proprio non ti andava di sfidar il Rex
Nemorensis?”
“E tu?”
“No, io no. Gli Dei mi han scelto per far altro.”
“Pure a me…”
E fu in quella che Celere, placata la rissa con il crollo a
terra del presunto capo e la conseguente fuga dei rivoltosi, disse alle spalle curve di
un Romolo piangente su un Remo rantolante:
“Soffre troppo a lungo così: devi tagliargli la vena del
collo, quella lì, vedi?”
“Fallo tu…”
E così, in effetti e per vari racconti poi riportati, fu
Celere ad uccidere Remo con una badilata in testa, e non Romolo.
Comunque andasse, forse andò così, che in fondo non si sa, e
allora perché no…?
Mooolto meglio di GRR-quello-là; meglio anche di quell'altro di Napoli (che però dice di essere di Mantova).
RispondiEliminaSe fanno una o più serie alla tele citeranno anche il Tamburo. Altrimenti peggio per loro ce lo teniamo tutto per noi.
Eh eh... chi è GRR-quello-là? Quell'altro è Virgilio e vabbè, s'è dato da fare ma si sa che non era mai contento, ma di narratori di riporto delle origini di Roma ce n'è ad abalus, da Varrone a Tito Livio, che in genere sapevan tutto loro. GRR-quello-là quindi e però, mo mi manca. Sempre che correli bene, altrimenti mi manca comunque... ;)
EliminaIn effetti non si parla di Roma o dintorni. E non è un classico in senso classico.
EliminaGRR
Eh... non essendo un frequentatore di Fantasy, né letteraria né visiva, comprendo solo in parte il tuo paragone. Ma l'interpreto così: io tendo a "sceneggiare" le mie storie. E mai abbastanza, questo è il mio costante cruccio. Infatti è sempre dovuto alle esigenze narrative: le forme alternative alla lettura, in cui le storie un tempo semplicemente lette e immaginate si possono espandere, condizionano ormai il nostro immaginario. Film, Telefilm, Telenovelas, Seriales... la Letteratura deve adeguarsi a tutto questo.
EliminaPerché, prima di essa, è la stessa mente umana che sta adattandosi a lavorare sempre più celermente.
Il segreto della Letteratura, scritta o evocata in qualsiasi altra maniera, è di saper giostrare più o meno celermente sull'attenzione del Pubblico. Indipendentemente dalla storia raccontata.
Io ci provo, tenendo conto di tutto ciò, consapevolmente o - ormai -- inconsapevolmente. A tener viva la Letteratura, in qualsiasi modo, intendo...
Esattamente!
EliminaIo con GRR Martin ci ho provato, un malloppo che non ti dico a un prezzo di una volta. Ma non sono riuscito a superare pagina 200, ben lontano dalla meta. E naturalmente senza capirci niente; appena mi familiarizzavo con un nome quello veniva fatto fuori in modo mai banale. Pensare che avevo scelto la via più tranquilla, la carta, invece della tele.
I giovani hanno una loro mitologia che ha sostituito quella che a noi veniva trasmessa a scuola (poi io mi sono dirottato prestissimo sul tecnico quindi ne so poco anche di quella).
Meno male che sono vecchio altrimenti dovrei fare corsi accelerati di Spider man, Ninjia e affini, Peppa Pig e --ovviamente-- GRR (e affini).
Per contro sono moderatamente aggiornato sulla Guida Galattica e sul Mondo Disco; ma pare che non siano mainstream.
In ogni caso i tuoi post sono davvero belli, anzi di più, verrebbe da dire, se mi posso permettere la citazione classica: Zeb rockz!
Grazie.
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