domenica 15 dicembre 2013

Il sale di Romolo - Parte Prima

UN RACCONTO DI STORIA ROMANA

A me, l’ammetto – e quindi son qui ad ammetterlo pubblicamente alle signorie vostre – Romolo è sempre stato antipatico. E non tanto per l’ammazzatina del fratello che comunque avrebbe ammazzato lui, si sa come vanno le cose nelle famiglie, né per il Ratto (che poi ce lo raccontano “delle Sabine”, ma delle Amntennate, Crustumine e Ceniniensi parla mai nessuno: stupisce se non indigna come al giorno d’oggi non ci siano ancora cortei di protesta sotto al Campidoglio pure per questo…) che ancora i nostri Maestri ammettevano con uno strizzio d’occhi come potesse esser stata una sorta di “fuitina”.
Forse è perché dopo pare non aver fatto molto altro di eclatante, oltre che fondante, o di edificante: qualche campagna contro i vicini troppo vicini con qualche scusa improbabile, la prima guerra contro Veio che aveva portato il controllo sul Gianicolo e le sue pendici (i Septem Pagi) e soprattutto sulle saline, poi per vent’anni o circa, niente tranne qualche Legge un po’ raffazzonata, un calendario in dieci mesi che probabilmente aveva fatto qualcun altro, qualche cerimonia rituale dalle misteriose ascendenze.
E così per altri quarantanni con Numa Pompilio (felicità di ogni ragazzino dai sei anni in su, disperazione di ogni imbattuto in Religione Romana), finché non venne eletto Tullo Ostilio, già tarlato dal nome, e però…
E però, come la colpa dei padri ricade sui figli, così risale dai nipoti ai nonni? E i prozii?
Insomma, per chi voglia inoltrarsi in questo racconto ispirato in quei tempi, io non so se quest’uomo sia mai esistito e se questa storia sia stata probabile, ma possibile sì… e pure le sue conseguenze.
Al vostro insindacabile giudizio, quindi, la prima parte (di tre, avrete pazienza se le altre due saranno parecchio più lunghe) de…

IL SEPTIMONTIUM

PARTE PRIMA
(Breve ma densa, intervallo con brio. Seguirà lungo e variegato…)

LO SCRANNO DI ROMOLO

Roma Quadrata, anno XXXVIII dalla fondazione

Ostio Ostilio alzò il lituo appartenuto a Romolo e prese con esso le misure del templum a sole sorgente.
Nello stesso punto in cui ora seguiva col bordo bronzeo i primi raggi per fissare le dovute stelle prima che i raggi le abbacinassero, trentasette anni e ottantacinque giorni prima Romolo aveva preso i primi auspici per la Città nascente, e per trentasette anni e settanta giorni ne aveva rinnovato gli auguri, intanto che la faceva crescere.
Impetuosamente e disordinatamente, troppo, tanto che da quindici giorni i suoi carnefici ne gestivano le funzioni, consapevoli di dover trasformare un regicidio in un atto sacro non tanto per la loro salvezza, quanto per quella di Roma stessa.
E Roma per loro era l’Orbe, anche se non ancora l’Urbe, seppur in nuce.
Ma non era più quella Quadrata irregolarmente fondata da Romolo: ormai dall’Exquilinus si irraggiava su tutto il Septimontium, cominciava ad essere un’altra Roma, la Roma che avevano vagheggiato fin dagli inizi.
E Ostio in quell'attimo era consapevole di ciò, ma solo e intuitivamente consapevole, ostinatamente puro di cuore e vuoto di mente se non per i collegamenti automatici ormai istintivi che gli erano stati impartiti con l’insegnamento dei riti, parte di ciò, ma una parte di sé rimaneva sempre distaccata: quella parte rivolta al futuro e al di fuori dei gesti rituali, mentre alzava lentamente, poi sempre più rapidamente il lituo del Fondatore, e infine ruotava per fissare le ultime stelle del templum, quelle iperboree alle quali era destinato Romolo.
Ma dove ancora non era probabilmente arrivato, e su ciò la purezza di cuore di Ostio Ostilio s’incrinava.
Fissati i limiti del templum dies, sedette sullo scranno augurale e si apprestò a coglierne gli auspici vulturini.
Il primo uccello, e a lungo l’unico, che vide però fu un picchio volare bisecando esattamente il quadrante iperboreo-orientale in quella lama fra luce e oscurità.
E al di là o al di qua dei Mani Consenti, quella era comunque una direzione che aveva un suo significato concreto.
Si alzò a sole ormai conclamato, dubbioso ma determinato a seguirla.

Il giorno stesso, più tardi, nel Volcanal ai piedi del Campidoglio

“Non ha senso tutto ciò! Romolo non è un Dio, e non sappiamo neppure se non sia ancora vivo!”
“Sarà andato alla ricerca del vello d’oro…”
“L’ho incontrato coperto di sacro argento screziato d’oro vi dico e vi ripeto! E mi ha detto di confidare in noi perché Roma domini il Mondo!”
“E nessuno ha governato mai così prima!”
“Appunto! Ora noi dimostreremo che si può!”
“Ad Atene…”
“Lascia perdere Atene tu, adesso! E voi cosa volete dimostrare! Che il posto occupato da uno può venire occupato da cento?”
“O da duecento: Sparta per esempio…”
“Cosa centra Sparta! Sparta è roba dei Sabini!”
“Ma se Romolo e Tito Tazio stabilirono che…”
“A rotazione! Sappiamo tutti in che direzione condurre Roma! Non lo stiamo già facendo?”
“O da trecento no? Ci sarebbero pure i trecento Celeres che potrebbero voler dir la loro…”
“Stiamo facendo niente! Cinque giorni a testa di incombenze per far cosa? Cosa si può fare in cinque giorni?”
“Cosa faceva Romolo in cinque giorni?”
“Dobbiamo seguire le sue istruzioni: un Re Sabino?”
“Ma siamo davvero sicuri di voler dar retta a Proculo Julo?”
“Io, Proculo Julo, affermo ancora che Romolo mi è apparso sotto le vesti di Quirino dio dei Sabini!”
“E in otto? Cosa non riusciva a fare Romolo in otto giorni? Già, perché non otto?”
“Taci che avevamo cominciato con sei ore di giorno e sei di notte…”
“Trenta è un numero che ad Atene…”
“Chi, aveva cominciato con quei turni, a proposito…?”
“Lascia perdere Atene tu. Almeno trenta giorni però, è vero…”
“Trenta?! Ma lo sai quanti siamo? Con quindici saremmo già a millecinquecento giorni per un intero giro, e quanti di noi saranno ancora vivi fra millecinquecento giorni?”
“Bel problema: io dico otto, almeno…”
“Meno di dieci è impensabile, a meno che non si registri il passaggio come ad Atene…”
“Lascia perdere Atene tu!”
“Sparta ha due Re..”
“E lascia perdere pure Sparta tu!”
“Nove. Tre per nove ventisette!”
“Manca di uno, tante volte, per fare un mese… lunare.”
“Un anno!”
“Sì! Ma di quanti mesi?”
“E quali mesi?”
“E gli intercalari?”
“Numa Pompilio forse…”

Ostio si allontanò dal Volcanal scendendo nel piano sovrastante il Comitium, profondamente disgustato.
Quella esedra, sorta attorno all’ara di Vulcano Ustore vecchia di tante generazioni da non puzzar nemmeno più dello zolfo cadaverico dei riti funebri, ricavata tamponando col tufo una spaccatura nella roccia friabile del Campidoglio poi popolata di trofei delle prime vittorie di Romolo sulle miserabili città vicine, dominata infine dopo la vittoria dei Septem Pagi con la statua del Ramna incoronato da Bellona – spacciato per suo sosia o antenato, dono dei Tarquini nemici di Veio – era già assurda con Lui assiso in quella sorta di trono di tufo che sosteneva esser stato di Evandro, a placare le dispute con un urlo o – più recentemente e con meno efficacia – un grugnito.
Senza Lui era semplicemente ridicolo continuare a scannarsi lì, tanto valeva convocare le Curie al Comitium. Ma senza lui non si potevan convocare le Curie, nessuna assemblea poteva farlo.
L’assemblea dei Senatores nel Volcanal non era altro che la rappresentazione alta di quel che stava succedendo da qualche giorno nei mercati, sussurri più che grida perché ancora nessuna causa era impellente al giudizio di Romolo, ma mischiando comunque ogni tipo di argomento attorno alla sua scomparsa ora secondario, un giorno chissà, riguardante una comunità che andava ben oltre quei cento bercianti alle sue spalle, e anche gli altri cento che aspettavano di saper cosa quei cento decidessero, e anche gli altri cento, o più, che non aspettavano altro che i primi duecento si scannassero fra loro… per non parlare dei trecento Celeres, una volta la cavalleria della Legione, quella guardia del corpo cui Romolo aveva promesso esattamente non si sapeva cosa dopo la vittoria sui Tusci Veienti.
Ostio lo sapeva invece, fin troppo bene, e sapeva anche quanto ormai fosse grande la comunità dei Sette Monti, e quanta la pressione interna che montava verso quella, inevitabile, esterna: per ciò era tempo di farla breve.
E dopo l’intervento visionario ma fin troppo sospetto di Proculo Julo qualche giorno prima e le sue costanti orazioni apparentemente vaneggianti ma inconcepibilmente contagiose, era ormai indispensabile.

Si guardò attorno, nell'aria calda e umida vibrante del sordo frinire delle cicale che confondeva il ciarlante disputare nel Volcanal.
Davanti a lui stava la fossa imbutiforme del Comizio dove Romolo usava tenere le allocuzioni alle Curie riunite, un’ansa erbosa abbandonata dal fosso creato dai torrenti dei colli circostanti, che nel corso del tempo si era spostato più in là e nel corso di altro sarebbe diventato la Cloaca Maxima. Oltre i salici e i pioppi che lo contornavano, a qualche centinaio di passi si vedevano ondeggiare nel calore estivo le pendici del Viminale, i suoi sprazzi chiari di vigne legate coi vimini agli aceri e ai cornioli, il Cispio cipiglioso che si perdeva nel’alta boscaglia delle exquilie, l’alto Fagutal grigio di faggi e olivi posto col suo piccolo villaggio a guardia della graziosa Velia, la sella dolcemente concava come un sorriso assoggettata alla mole di roccia scura e cespugliosa del Palatino, che chiudeva la vista alla sua destra.
A meno che non si girasse, come fece assorto e corrucciato, e non guardasse il Tevere dalla profonda, aspra spaccatura fra Cermalus e Capitolium dove s’infilava il fosso che stringeva verso il Velabro: là con lo sfondo del colle di Giano si intravedevano alcune barche colme di sale e un pontone di quelli che aiutavano l’attraversamento del guado agli armenti, un paio di carri si muovevano lungo il Clivo Palatino, alcune donne affaccendate apparivano e sparivano vicino alle capanne seminascoste dai sarmenti là in alto.
Ma lungo il sentiero che allungandosi oltre un ponticello di legno superava la polla del Lacus Curtius e saliva dolcemente attraverso quelle che erano state le ultime tombe degli Aborigeni e fino a una generazione prima necropoli degli abitanti di tutti quei colli, perdendosi nella rada alberatura palustre in quella sorta di dito disteso dalla Velia querciosa oltre l’ara di Giove Statore, nell’aria afosa e tremolante non si vedeva anima viva, nemmeno uccelli, giusto mosche.
Un merlo fischiò invece dietro di lui, in alto, sopra i berci soffusi di quel centinaio di compari di Romolo, che erano anche i compari suoi.
La fessura del colle che formava il Volcanal era solo una delle tante rughe nel collasso fra il Capitolium e l’Arx, che incombeva sopra di lui e sopra al merlo. Al di là della cresta lunata, finalmente erbosa dopo il brunito cespuglioso di tanti antichi crolli e frane, ombreggiata da platani maestosi c’era la scodellona frantumata dell’Asylum, protetta come da braccia dalle rude asperità querciose dei due capi del colle verso la insidiosa piana retrostante delle paludi caprine.
L’asilo per i senza patria dove Romolo aveva preso ad accogliere e a smistare tutti gli abbandonati dalle città del Lazio e della Sabina che accorrevano al suo richiamo, e da dove Tito detto Tazio l’aveva fatto perciò sloggiare, convincendolo che era molto meglio usasse a quello scopo l’Esquilino per una miriade di motivi, dopo la farsa del ratto e le risse successive, non ultimo fra gli altri che anche gli Etruschi potessero venir a reclamare i loro diritti su quell’arce augurale polietnica.
Il merlo sfrullò le ali, poi spiccò il volo, verso nord, basso sul boschetto di allori che nascondeva la sella del colle Latiaris da dove avrebbe dovuto iniziare a inerpicarsi.
E questo lo sapeva anche senza bisogno del merlo, pensò abbandonando gli altri pensieri, senza per ciò sentirsi meno devoto ai suoi Numi e agli intrecci che provocavano nella sua mente.

L’ora media era vicina a giudicare dalla pendenza dei raggi del sole, e Ostio si chiese se non fosse il caso di tornare alla sua capanna sul Cermalus e rimandare al giorno dopo, all’alba, l’inizio del suo lungo cammino.
Ma si disse che in fine, fino alla fine del giorno, era ancora Augure, sia pur non più in carica: aveva interpretato per quattro volte in quindici giorni il ruolo di auspice in vece di Romolo e le facenti funzioni in innumerevoli occasioni giudiziali in tutti gli altri, e avrebbe voluto avere il cuore di riposarsi un po’ fra le proprie mura, ma aveva pure ormai deciso di assumersi un compito che andava oltre quel cerimoniale ben confuso che il Fondatore aveva disegnato per se stesso.
L’avesse pur considerato traditore chiunque, lui aveva deciso, e per far decidere l’unica persona che potesse darci un vero significato era il caso di mettersi in cammino, proprio adesso, di buon augurio.
Il boschetto di alloro fissava in effetti il punto dove Romolo e Tito Tazio avevano siglato l’armistizio sulla neutralità del Campidoglio: lì cominciava la Via Sacra che si dirigeva dritta sulla Velia attraversando la porta Mugonia nelle mura romulee per poi diramarsi nei santuari argivi e di Evandro sul Palatino; lì confluiva l’Argiletum dalle umide coltivazioni di canapa ai piedi dei colli, lì cominciava pure, opposto, il contorto tratto iniziale del sentiero che avrebbe raccolto gli altri sui due versanti del Collis Latiaris per confluirli nell’Alta Semita, la strada che torcendosi attorno all’Arx saliva poi al Mons Quirinalis.
Da lì cominciava il suo cammino per Cures.


4 commenti:

  1. Ho letto perché mi piaceva il suono delle parole una dietro l'altra. Giuro che ho letto tutto, ma giuro anche che non c'ho capito quasi niente, se qualcosa c'era da capire. Ma è sicuramente a me che manca qualche pezzo. Con un aiutino potrei arrivarci o non è roba per me?

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  2. Mi era tornato in bozza, sia mai che sia un messaggio e me lo devo tornare a leggere pure io un'altra volta... ?

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  3. La butto lì, chissà che non serva anche a me (quando sarò vecchio): potrebbe essere utile, nel senso di propedeutico, accostarsi a Joyce.

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