IL PRIMO RE DI ROMA FURONO DUE
La Roma Quadrata, o circa…
Quando gli ultimi dardi di Apollo barbagliano dietro le creste
dei monti Sabazi e Vulsini e i falò sacrali delle Parilia cominciano a
spegnersi in dense volute di fumo appetitoso, Romolo è forse lì sullo sperone
più alto del Palatium a godersi il primo tramonto della nuova Città, piuttosto
che alla piccola capanna che gli fa da provvisoria e simbolica Regia,
nell’angolo opposto di quel dado spaccato che era il Palatino.
Poco prima ha chiuso il tracciato delle mura alzando per
l’ultima volta l’aratro nel segnare la Porta Romanula, poco lì sotto, da dove
si distaccano i due sentieri che diventeranno il clivus Victoriae e il clivus
Palatinus. L’ha fatto altre due volte, nel corso di quella faticosa giornata,
per lasciare intonsa la soglia delle altre Porte, la Ruminalis* vicino alle
Scale di Caco e la Mugonia a mezza costa della bassa Velia, che sarebbero state
consacrate diversamente.
Il terreno gli è stato ovviamente accuratamente preparato,
che invero dietro a lui seguivano già tutti gli uomini abili del Septimontium
con zappe, pale e picconi, ad allargare il solco e a porre le fondamenta del
muro, e del resto il terreno dal sacello di Larunda al sacello degli Argei era
sì in lieve ma inutile discesa verso il Velabro, però colmo di sassi e cocci
pallantei che intralciavano il puntone bronzeo del vomere e frenavano la
placida coppia bianca, il toro all’esterno del solco e la vacca all’interno,
che trainava l’aratro rituale.
Ma Romolo sapeva bene cosa aspettarsi: oltre il sacello
degli Argei, verso l’imbocco delle Scale di Caco dove aveva alzato per qualche metro
una prima volta il vomere, la pista stessa adeguatamente predisposta aveva
guidato i bovini sacri lungo la base del Germalo per la valle Murcia, in una
terra molto più morbida, quasi quanto quella della lieve salita dopo la sepolta
ara di Conso che aveva portato bovi sacri, aratro sacro e Re sacro attaccato a
tutto ciò, più che conducente di tutto ciò, in cima alla Velia. Qui si era
rischiato un incidente rituale, perché i poveri animali, ormai assetati,
avevano mostrato propensione più per la china che portava al pantano dove
sarebbe poi sorto il Colosseo che per la Via Sacra, appena accennata come tratturo
fra i radi cipressi che punteggiavano il da poco dismesso sepolcreto
dell’antico Septimontium.
Però Romolo era riuscito a non perdere il controllo del
puntone e dover fare una Porta dove non la voleva, a costo di farsi scivolare
dal capo il cinto gabino a suon di urla, e due secchi d’acqua avevano
ricondotto bovi e sacramentario tutto di nuovo verso il sacello di Larunda, e infine
al sacrificio dei sudati bovi sacri sulla Porta Romanula, a chiudere il cerchio
quadrato.
Un paio di migliaia di metri, una sorta di quadrato
sbilenco, che le mura si incaricheranno poi di tracciare almeno dritto, ma
c’era voluto quasi tutto il giorno. E questo ci porta a pensare che la
lunghezza effettiva della originaria cinta di mura della Roma Quadrata dovesse
essere di uno iugero lineare, osservato dal punto di vista dei Sabini, che con
Tito Tazio seguivano tutto quel formicolio dal Quirinale.
Romolo accelera il passo
Formicolio che cominciò subito a farsi frenetico fin dai
primi giorni successivi, perché Romolo aveva avuto tutto il tempo, fra un
imbonimento e l’altro di tutti gli imbonitori del Septimontium e circondario
Etrusco o Greco o Latino che fossero, di redigere un piano per un Progetto
assieme ai suoi, ai sodali che aveva via via trovato lungo la sua breve ma già
lunghissima strada.
Il problema più impellente era su come effettivamente
popolare la Città, ma non era il preminente, per Romolo e per chi più
strettamente gli stava attorno. Sì, vabbè le donne, ma non era procurarsi le
donne il punto per i prischi Romani. Erano le loro doti, il Punto, e le loro
doti erano terre coltivate, che avrebbero continuato a coltivare i loro padri
finché un giorno chissà. E ai loro fratelli tutto ciò non sarebbe piaciuto per
niente, ovviamente.
Quello era il Punto, perché se il Septimontium voleva una
cittadella di guerrieri a sua scorta e garanzia, doveva mettere quei guerrieri
nelle condizioni di sostenersi, dovendo costoro occuparsi di altro che della
cura dei propri campi, o meglio di quelli delle proprie mogli e quindi suoceri
e cognati e altre genti variamente imparentate.
Era una logica che, nonostante tutti gli strappi alle
tradizioni che provocava, gli Anziani del Volcanal non potevano in coscienza
confutare, ma che a fratelli, cognati e cugini, considerate le pretese dei
Romani, pareva di latrocinio.
Latrocinio che avrebbero anche mandato giù pur fra mille
brontolii, se proprio nel giorno dei Consualia i Sabini non avessero
improvvisamente alzato la scusa che fece da primo casus belli della Storia di
Roma.
Ratti e Sabine nella Valle Murcia
Per millenni la valle Murcia aveva fatto da cassa
d’espansione del Tevere, che piena dopo piena ne aveva fatto una valle
alluvionale palustre, trovando comunque più comodo passare attorno all’Aventino
piuttosto che incunearsi nel pertugio fra questo e il Celio. Poi, quando piena
dopo piena anche l’ansa superiore allargata e dragata dall’isola Tiberina si
riempì di sassi allargandosi come un embolo su entrambe le ripe e creando il
Guado, gli abitanti del Septimontium avevano cominciato a drenarla e
bonificarla per un unico motivo con due ragioni.
Non erano grandi mandrie, spesso un capo solo, ma sempre
maestoso: allora come ora gli allevatori si scambiavano il sangue ancor prima che l’animale in sé, la genetica da rimonta per
il continuo rinforzo di razze non solo da lavoro, ma anche sacrali.
E non erano grandi commerci: il principale era il sale dalle
saline poste – purtroppo – a ovest della foce del Tevere. Attraversato il fiume
su piccole chiatte mentre i bovini, nei dedicati periodi dell’anno determinati
dalle secche stagionali, riuscivano a passarlo con l’acqua appena sotto al
gorgio, i muli degli acquirenti Sabini imbastiti di sacchi di sale grezzamente
macinato sbarcavano sul Velabro per indirizzarsi subito verso la piana palustre
del Campo Marzio e incamminarsi sul primo tratto della via Salaria sotto al
Pincio, per poi cominciare a distribuirsi nei vari diverticoli montani già alla
vallata dell’Aniene.
Però, da cinque o sei generazioni, forse qualcuna in più,
c’era da sud a nord anche un sempre più fiorente commercio di coppe, vasi,
anfore, quando prima non si erano visti più che utensili di metalli sempre
migliori, condotti su muli più che su carri quanto più delicate le merci
fossero, ma comunque il problema delle piste carrabili cominciava a farsi
impellente, e lo sarebbe rimasto per secoli.
I mercanti di stoviglie erano quasi tutti Greci, che si
erano fatti un quartierino a modo loro sulle pendici meridionali dell’Aventino
prospicienti il Tevere con un proprio piccolo approdo, quelli di utensili
prevalentemente Etruschi anche da prima di definirsi Tirreni, e gli piaceva
ritrovarsi nelle taberne della valle dello Spinon a monte del Velabro, scavate
nelle grotte ai piedi dei due Colli.
Gli esuberanti bovari invece si fermavano nella spianata
puzzolente creata dallo sfociare dello Spinon fra Campidoglio e Palatino,
attorno all’Ara di Ercole – un gigantesco masso crollato da tempi immemorabili
dalla rupe soprastante il Lupercale – a offrire i capi migliori, quando non
unici, e a ostentarne i pregi.
La valle dello Spinon – in cui al tempo di Romolo non c’era
ancora forse il Vicus Tuscus, che forse però si stava già formando – i bovari la
trovavano stretta e incombente, per non parlare della gente spocchiosa che si
trovava oltre, nella angusta vallecola sfondata verso quegli artigli
spelacchiati costantemente fumanti dei pomposamente definiti Monti del
Septimontium.
Ma subito oltre l’Ara di Ercole e il sacello degli Argei, la
valle Murcia offriva, lungo le due piste ben battute che divergevano ad arco di
cerchio pur procedendo parallele per i piedi del Palatino e dell’Aventino, per
poi separarsi dopo un migliaio di passi, ogni povero ma allegro divertimento
che i tempi e i luoghi garantissero.
Però, considerando giuste le rimostranze di chi gli faceva
osservare come ogni rifornimento di ortaggi, formaggi, carni e salumi poteva arrivare
alle bancarelle della valle Murcia dal Septimontium meglio che da quei quattro
orti e quattro porci rimasti là, Romolo aveva sgombrato tutti, rimesso
decisamente mano ai drenaggi e alla bonifica dell’acqua Murcia – il ruscello
fangoso che ricomparve poi nel Medioevo – per ottenere una enorme arena
naturale di prati intervallati da alberi, boschetti, laghetti, in cui celebrare
i principali ludi campestri comuni al Septimontium, a cominciare dai Consualia,
terzi nel tempo del suo regno.
I Consualia erano i ludi rituali Latini e Italici di
chiusura della trebbiatura, quando veniva fatto censo al Dio Conso del sunto
effettivo della raccolta. Allora, nella atavica cerimonia di spartizione
secondo Diritto Divino, si stabilivano pure matrimoni e doti. Soprattutto doti.
Maritare le donne del Septimontium con i più o meno
nerboruti seguaci di Romolo aveva significato per le rispettive famiglie,
comunque prescelte da quel destino rio, aspri litigi e notti insonni, sotto
ogni punto di vista. Però si doveva fare, e in qualche modo s’era fatto, con
molte urla e notti insonni anche fra i consiglieri più o meno richiesti di
Romolo.
Le confarreatio erano state sottoscritte, aspettavano solo
che i Sacerdoti riuniti si riunissero e fissassero il giorno della Festa giusta
per essere depositate presso l’Arx Capitolina, dove gli Etruschi col loro ben
noto senso pratico stavano allestendo un archivio pubblico per tutto il
Septimontium.
Nelle intenzioni di Romolo, le Consualia di quel terzo anno
di Roma sarebbero state un enorme matrimonio di massa, il giorno in cui il Punto
si sarebbe fatto Momento, e i Romani sarebbero stati Cittadini con un loro Ager privatus, ossia Pieni Cittadini, i
Cittadini Patrizi della neonata Urbe.
Senonché, i Sabini che se n’erano stati stizzosamente
silenti fino ad allora, avevano scelto proprio quel giorno per saltar su e dire
che la garanzia dell’Arx per loro era nulla, e che era meglio rimandare ad
altra data per stabilire altri garanti che gli Etruschi.
Era ovvio a chiunque chi avesse innescato la rissa, e
perché. Se per le sue intenzioni fosse andata troppo in là, fu la prima cosa
che Romolo e Tito Tazio dovettero chiarirsi svaporato tutto il caos provocato
dal Ratto delle Sabine, circa un anno dopo.
Latini Padri di Roma, Sabini Madri?
Ai Sabini non piaceva per niente la piega che avevan preso
le cose con Roma. Avevano gettato il loro pugno di terra simbolico nel pozzo
sacrale presso la Regia di Romolo il giorno della fondazione assieme ai Latini
e tutti gli altri, gli riconoscevano una preminenza teorica nella formazione di
una amministrazione civica militaresca del Septimontium – dal quale,
millantavano spesso, si potevano astrarre quando volevano, se necessario – ma
non volevano certo farsene comandare. Però comprendevano che con uno come
Romolo sarebbe stato inevitabile.
Tito Tazio soprattutto lo comprendeva, e comprendeva pure
come Romolo non avesse bisogno tanto di briglie, quanto di gorgiera. Senza la
provocazione delle Consualia i Romani avrebbero messo le mani a macchia di
fegato praticamente su tutto il Septimontium, e le macchie di fegato fanno
presto ad addensarsi nell’oscuro accartapecorarsi della pelle, notava Tito
Tazio e notavano i suoi consiglieri.
Questo dal punto di vista di Cures e dei suoi Anziani,
naturalmente, che data la distanza poco partecipavano alle riunioni nel
Volcanal, dove Romolo ogni nundina di mercato spiegava a chiunque con la sua
innegabile facondia i suoi mirabolanti piani, e negli intervalli si agitava per
applicarli.
Il più personale punto di vista di Tito Tazio era su come
manovrare, comunque utilizzare quella potenzialità, sottraendola ai Latini. O
almeno bilanciandoli.
Era chiaro come nessun bilanciamento fosse stato previsto
per i poteri di Romolo, anche perché non era stato previsto ne avesse alcuno. I
Padri volcanali avevano davvero ingenuamente pensato che il comandante di una
cittadella fortificata a controllo del Guado si accontentasse dell’insignamento
di Rex Sacrorum e poco più? Romolo poi?
Il Potere di Romolo finché non stabilirà lui stesso i
delimitatori del suo potere, è illimitato.
Ed è a questo Potere Illimitato che Tito Tazio reagisce,
prima con la provocazione del Ratto, poi sinceramente spaventato dalle
conseguenze – Romolo da Amntennatae a Ceninum a Crustumerium passa di casa in casa dei
promessi suoceri a far valere i contratti di confarreatio seguito da un vero
piccolo esercito, e quando Acrone scende fino a Roma con i suoi fabbri e
maniscalchi per farlo smettere una volta per tutte, gli rifila una lezione che
il povero Acrone può ormai solo discutere per l’eternità con Giove Feretrio,
dove Romolo appende le sue armi e panoplie – con tutta la forza che i Sabini
possono mettere in campo.
Ma non per attaccare il Palatino, bensì per occupare il
Campidoglio.
Il Destino bino
Tarpea o meno, Tito Tazio occupa il Campidoglio non solo con
soldati ma anche di sacerdoti addetti agli svariati sacrari che gli abitanti
del Septimontium nel corso delle generazioni hanno installato lì, cacciando più
o meno cortesemente quelli che già ci sono: se gli viene riconosciuta come
prassi una qualsiasi egemonia, l’intero Monte Capitolino, indispensabile
simbolo sacrale dell’apertura a chiunque voglia diventare Romano, lì dove c’è
l’Asylum dove Romolo ha svernato appena giunto al Septimontium e dove intende
creare l’accoglienza per chiunque voglia essere Romano, diviene Sabino, e il
culto di Quirino preminente su qualsiasi altro.
Là sotto nel Volcanal, i Padri del Septimontium strillano
come pazzi, improvvisamente consci – o forse no, ma avran strepitato comunque –
di cosa abbiano combinato portando a termine il compito assegnatogli dagli avi,
forse picchiando il capo contro il plinto basaltico del Lapis Niger che sostiene
l’antico simulacro del Genius Loci aborigeno.
I Romani sfociano dalla Porta Romanula, sfidano i Sabini a
scendere dal Campidoglio. I Sabini scorrono saltellando fra i cespugli del
Clivo Capitolino come dalla via Biberatica, si affrontano dalle parti di quel laghetto
che poi diverrà il Lacus Curtius, e i Romani si prendono quella suonata di
legnate che si meritano, urla belluine di Romolo o meno per farli rifluire
verso la Porta Mugonia, dato che era stato tanto bravo a tenere infisso il
puntale quel giorno fatale là da non fare una Porta in cima alla Velia.
Ma Tito Tazio non vuole umiliare Romolo, e non gli interessa
niente se da Cures gli si chiede – non da tutti, dalla maggioranza – di
giustiziare tutti i Romani e di stabilire sul Palatino come sul Campidoglio un
presidio Sabino. E poi una cosa è bastonare Romolo e i Romani, altra
conquistare Roma ai Latini: facile per assedio, ardua per assalto.
Così, prima in camuffa e poi con grande risalto, Romolo
Fondatore e Tito Tazio Tutore si accordano, raccontano e fanno raccontare le
cose a modo loro, e prendono a governare assieme, con gran sollievo dei padri
del Septimontium e con gran scorno dei Rasna Etruschi, che comunque continuano
imperterriti a tramare sottotraccia.
Non regneranno in completa concordia, certo, tanto che dopo
la morte di Tito Tazio oscuramente avvenuta a Lavinium cinque o sei anni dopo,
Romolo riuscirà a rifilargli la prima damnatio memoriae della Storia di Roma,
prendendosene qualsiasi merito, eccetto quello di avergli rifilato una bella
suonata.
Che indubbiamente gli era servita, ma non rimase segreta
come sperava lui.
*Il nome della terza porta della Roma Quadrata ci è sconosciuto. Io ho ipotizzato che essendo vicino al piede della Scale di Caco e quindi vicino al Lupercal, potesse esserle stato dato un nome riferito al Fico Sacro. Nulla osta, diciamo...
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