IL LITUO DI ROMOLO
Gli Argivi pastori di Evandro e il povero Pallante
È un’altra alba, verso la fine di Marzo – il mese dedicato a
Marte, l’inizio della stagione atta alla guerra oltre che l’inizio del nuovo anno
stesso, la ripresa di ogni cosa dopo la stasi dell’inverno – quando Romolo
dichiara guerra ai legittimi possessori del Palatino, per impossessarsene
ritualmente.
Di legittimi possessori, in effetti, non ce n’è, se non
metafisici e da affrontare metaforicamente, quindi appunto ritualmente. Il
Palatino è infatti un monte cruciale, intersezione di troppi interessi, per cui
coperto da una sorta di maledizione alimentante una voluta superstizione.
I suoi legittimi possessori dovrebbero essere Argivi,
discendenti degli esuli Greci che avevano seguito Evandro subito prima della
Guerra di Troia. Dopo aver accolto, consigliato e supportato Enea, Evandro morì
lasciando una enclave di Arcàdi spocchiosi, che non confondendosi con gli
Aborigeni italici dei Rutuli o altri parenti di Turno, si erano pian piano estinti senza partecipare al sinecismo con cui
si coagulava Roma attraverso il Septimontium.
Inizialmente, gli Argivi di Evandro erano parsi alteri
pusillanimi, pacifici pastori dai lenti pensieri, e le scaramucce al fianco di
Enea del disgraziato giovane Pallante contro l’altrettanto disgraziato rutulo
Turno non erano servite gran che a cambiare il punto di vista degli ancora radi
abitanti dei Colli sul Guado. Pochi, spocchiosi, autosufficienti nella loro
lurida Pallantia, la città un tempo di Evandro ma quando mai di Pallante, se non per cuore di padre?
Sedici o diciotto generazioni a ingropparsi fra di loro,
esclusivamente fra di loro – poche decine piuttosto che poche centinaia, fra
maschi e femmine – quando non con le povere pecore che con le capre non conviene, avevano portato i Pallantei
a divenire prima sozzi, impuri, estranei pazzi, intoccabili paria mostruosi da buttare a fiume quando li si trovava fuori dal loro recinto,
infine Lemuri sempre più rari,
popolanti ancora, forse, il Pallantino.
Il compito di Romolo, in quella ancora gelida alba di
passaggio fra inverno e primavera, mentre si palleggia il giavellotto di corniolo
fra le mani per riscaldarsi, è appunto di farlo divenire Palatino, purificandolo con una guerra simbolica ai fantasmi, prima di poterlo far
divenire Roma.
Pian d’un pas e ragioniamo: Sinecismo, che è?
Ma fermiamoci e riassumiamo, prima di inoltrarci nelle
misteriche ore che precedettero la fondazione di Roma vera e propria, che si
prolungarono per giorni, probabilmente per tutto il mese che precedette le
Parilia di quell'anno.
Le piccole tribù transumanti per la penisola diecimila anni
fa, dopo cinquemila si erano definitivamente stanziate in giro per l’Appennino,
e assorbendo le continue piccole invasioni che l’inquieto Mondo Mediterraneo
spediva per terra e per mare, divenivano piccoli Popoli e per gemmazione poi
piccole Nazioni.
Da tempo immemorabile si era scoperto che in determinati
periodi dell’anno – in piena estate in genere, o in inverni eccezionalmente freddi
o secchi – a valle di una certa isola nel Tevere si apriva un largo e basso
guado, atto a far passare i primi commerci bovini, salini, utensili, da nord a
sud e da sud a nord.
Nel decimo secolo prima dell’Era Volgare, sui colli che
sovrastavano il guado i piccoli Popoli erano divenuti abbastanza popolosi da
avere lì parecchi villaggi, sempre più popolati, che però essendo sempre più
contigui e di converso mal collegati con le piccole capitali montane cui teoricamente
dovevano seguire le istruzioni, generazione dopo generazione si sentivano
sempre più solidali fra loro piuttosto che con i reverendi Padri dei loro
Popoli di discendenza.
Chi più chi meno, naturalmente.
I Sabini sono i più incombenti perché i più uniti: occupano una vasta zona fra il Guado e l’Umbria, ben innervata dalle piste del sale che si diramano dalla valle del Tevere fino al crinale con la costa adriatica, e questo li mette in condizione di mantenere stretti rapporti tribali coloniali con i villaggi sul Guado.
I Sabini sono i più incombenti perché i più uniti: occupano una vasta zona fra il Guado e l’Umbria, ben innervata dalle piste del sale che si diramano dalla valle del Tevere fino al crinale con la costa adriatica, e questo li mette in condizione di mantenere stretti rapporti tribali coloniali con i villaggi sul Guado.
I Latini sono i più numerosi, anche se proverbialmente
litigiosi fra di loro e con tutti: più pastori-cacciatori che
cacciatori-pastori come gli originari Sabini (che affermavano di discendere
dagli Spartani, e perciò allestivano le loro città senza uso di mura), i Latini
hanno una forte identità religiosa centrata sui Monti Albani e la potenza di un
santuario ben organizzato, aperto ad ogni influsso per quanto vagliato dai
Sacerdoti Re di Alba Longa.
I villaggi Sabini occupano interamente il Quirinale con
l’escrescenza del Pincio che domina il ramo ripario della antica Salaria e
buona parte del Viminale, quelli Latini scendono dalle vie Tuscolane fino sul
Celio e l’Esquilino, salgono da quelle Pontine fino all’Aventino e alla Velia.
In mezzo, fra il Viminale e l’Esquilino, qualche sparuto
villaggio di Equi, di Marsi, di Ernici che si chiedono cosa stanno a far lì e
lo chiedono più o meno rassegnatamente ai piccoli concili di anziani che
governano le loro comunità di sempre più lasca appartenenza, lassù fra le
montagne e in mezzo alle valli.
Generazione dopo generazione, ogni villaggio di quelle
escrescenze sempre meno boscose e sempre più affollate – poche centinaia di
anime ognuno, poche decine per colle, sette o più come li si vuol contare fra
Colli e Monti – cerca di correlarsi con gli altri attorno piuttosto che
continuare a pestarsi i comuni confini.
Sinecismo è il suo
nome: la convergenza verso un interesse comune che crea una Comunità, e quindi
poi per comodità di tutti, una Città.
Il Septimontium è il sinecismo di Roma: il punto di incontro
più vicino per tutti è sotto al colle cornuto che infatti si chiama Capitolium,
presso una fonte sulfurea denominata Volcanal, presso il più antico dei loro sepolcreti
ancestrali comuni, vicino al corso dello Spinon, che raddrizzato dalle sue anse
– una delle quali sarebbe diventata i Comitia – dovrà divenire Cloaca Massima
(a cielo aperto) solo con i Re Etruschi.
Ma appunto gli Etruschi sono il problema principale degli
Anziani che si riuniscono nel Volcanal già da qualche generazione, al tempo di
Romolo.
Gli Etruschi erano arrivati proprio più o meno quando si
stavano rassodando gli interessi Sabini e Latini attorno al Guado. Prima
dell’anno Mille ante Era Volgare le popolazioni oltre la ripa settentrionale
del Tevere erano ancora sostanzialmente Aborigene, solo con gli Umbri si aveva
una contaminazione orientale attraverso i Piceni, vicini al mare e quindi
grecizzanti.
Gente pacifica gli Aborigeni, placidi allevatori piuttosto
che tignosi commercianti, pittorescamente esoterici, finché non erano arrivati
i Tirreni, che nel corso di un paio o due di generazioni, avevano svuotato di
uomini con la forza o con il miraggio di una miglior vita tutta la Foresta
Sacra dal lago Vulsino alla costa su cui avevano fondato le città ferriere, e
nel corso delle seguenti si erano messi in espansione, giungendo fin quasi ai
Colli Gianicolensi al di là del Tevere: da qualche decennio infatti, forse un
paio di generazioni, a monte del Guado sul Tevere, meno di una dozzina di
miglia sull’altra sponda, era sorta Veio.
Tutti i Patres del Septimontium, da quel momento, avevano
saputo che il loro compito era costituire una analoga città da quella parte del
Guado, e da un paio o più di generazioni si discuteva sul come farlo.
C’erano quei tre montarozzi a sovrastare il Guado, a monte e a
valle: il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino.
Il Campidoglio sarebbe il locus più adatto a una fortezza munita
di guarnigione per il controllo del Guado, ma non per una vera e propria città,
spezzato in due corni – uno acuto più alto, l’Arx, e uno piatto e leggermente
più basso, il Capitolium – dalla profonda incassatura dell’Asylum; l’Aventino
sarebbe il locus più consono a una vera e propria acropoli di una città che
volesse estendersi a valle del Guado, volgendo però le spalle al Septimontium:
solo il Palatino racchiude coi suoi due mammelloni del Pallatium e del Germalus
entrambe le esigenze.
E siccome per esigenza di cose il Campidoglio era divenuto
il monte sacro per tutti gli abitanti del Septimontium come degli abituali
traversatori del Guado, piccolo santuario speculare del Monte Albano latino
come del più indistinto Soratte sabino, sede pure da qualche tempo di un
Auguratorium Aruspice etrusco sulla cuspide più alta dell’Arx, la scelta per il
nucleo fondatore della città che per compiere il sinecismo avrebbe dovuto compattare tutto
il Septimontium era forzatamente fra Palatino e Aventino.
Ma per l’appunto, l’Aventino era un Colle destinato a
voltare le spalle al Septimontium, e i maggiorenti del Septimontium avevano già
voltato le spalle a Remo quando era stata inscenata la presa di auspici dei due
Gemelli qualche giorno prima.
Tirem innanz…
Romolo non ha più pensieri né per gli auspici presi quel
giorno né di quelli appena presi al tramonto e all’alba, mentre palleggia
quell’asta di corniolo fra una mano e l’altra per riscaldarsi, mentre l’aria si
fa sempre più chiara, mentre attende che il primo raggio di sole scocchi dal
sacro Monte Albano.
Si trova sul più basso sperone dell’Aventino, dominante la
valle Murcia, una distesa paludosa di fossi che da generazioni drenavano la
terra per gli orti che rifornivano di ortaggi le taberne e gli ostelli per i
bovari, i pecorai e i mercanti di passaggio sul Guado, e quindi fornita di un
tratturo per carri tutto attorno per quanto era lunga.
Si trova a un centinaio di metri dalla base delle Scale di
Caco, un sentiero che invece di assecondare le pieghe delle rupi del Palatino,
le aggredisce dove necessario con gradini scavati alti nel tufo pur di arrivare
dritta sulla cima del Germalo.
Si trova, in effetti, a pochi passi dalla grotta lupercale
dove è stato allevato diciannove anni prima, e a pochi altri in salita verso la
capanna di Faustolo dove è cresciuto fino a che non s’è illuso di potersi
gestire da solo la propria vita, assieme al gemello Remo e agli altri figli di
Nessuno in cerca di una propria Itaca, dopo aver messo a sacco quella Troia di
Alba Longa.
Ma i mesi passati presso Numitore e quelli poi venuti al
Septimontium, hanno convinto ormai Romolo di essere erede di Enea, piuttosto
che di Ulisse come invece aveva continuato a voler credere fino alla fine Remo.
Perciò Remo era caduto come Turno, o almeno così si doveva far credere e
pensare.
Tutto ciò ha poca importanza, ora.
L’asta di corniolo è uno strumento più di gioco sacro che da
guerra: legno di pruno leggero, vola lontano ma non si conficca facilmente, sta
nella lavorazione del bilanciamento e dell’affilatura della punta che si trova
il dono segreto dell’Arte divina.
E l’asta di corniolo di Romolo vola ben lontano quando il
fatidico primo raggio di sole si scaglia dal Monte Albano, mentre le tube e i
corni raccolti in attesa dell’alba si intonano cacofonicamente per tutto il
Septimontium a celebrare il Tubilustrium, o meglio i Tubilustria, alla ricerca
di un accordo comune.
Fiorì il corniolo?
Certamente non era miracolosamente fiorita, l’asta di
corniolo, quando Romolo e tutto il seguito sacerdotale e popolare che doveva
sicuramente seguirlo la raggiunsero, nei pressi – pressi quanto? boh, abbastanza:
quel tanto che bastava – della capanna di Faustolo, ma probabilmente era in piedi
ben conficcata dovunque fosse, e magari bilanciata dai rametti che Romolo le
aveva lasciato con le foglie adeguate, poi si adeguò politicamente il miracolo, ovviamente.
La vecchia capanna del povero Faustolo doveva fungere da
prima Regia per la futura Roma, e come tale venne conservata finché la
venerazione per Roma rimase tal quale, ma la disposizione della futura Città
Quadrata ne doveva essere indipendente.
Essendo stata indicata dai Latini la data delle Parilia come
fausta per l’evento, avendo i Sabini accettato che la Città avesse mura – ma
basse, non in alto – Romolo non aveva molto altro da fare in quel mese se non
assuefarsi alle istruzioni metodiche etrusche e alle metodiche lamentele di chi
gli doveva preparare il terreno per tracciare il solco del fatidico pomerio. Come
fosse abitabile il Palatino, da quando era bambino lo sapeva già: una
affascinante distesa di sterpi giallastri e cespugli di mirto divorati dalle
capre, intervallata da querce e squarciata da un vallone boscoso che
s’allargava sulla valle Murcia.
In questo periodo Romolo è un Re senza effettivo regno,
perché il territorio di sua competenza non è ancora stato delimitato. Il mandato
conferitogli dal sinecistico consiglio del Volcanal è di dare un perno a una
organizzazione del Septimontium che gli permetta di contrastare efficacemente
la già più potente Veio.
La stessa Veio è frutto di un sinecismo di villaggi un tempo
Falisci, ora pienamente Etruschi, ma gli Aruspici che istruiscono Romolo sono
probabilmente di un altro ramo Rasna, tarquiniense se non vulcino, che pare
difficile Veio conferisse alla erigenda rivale i suoi segreti sacrali.
Che sono complicatissimi comunque, dovendo in più integrarsi con le
esigenze sacrali Latine di coincidenza con i Sacri Laziali, oltre che alle
prescrizioni notturne Sabine.
Il lituo di Romolo
Prima della terza alba cruciale di questa storia, Romolo
esce dalla piccola capanna che ha sostituito quella eccessivamente grande e
fatiscente di Faustolo il Porcaro, e si porta in quella contigua maggiore,
doppia, dove poggiano i simulacri di Marte e di Ops, la Dea dell’Opulenza. Sacrifica,
poi s’inerpica verso il pianoro soprastante, verso l’auguratorium sullo sperone
più alto fra Palatium e Germalus dove per il primo raggio di sole proveniente
da Albano doveva esser pronto a fissare il templum celeste, da cui sarebbero
stati fissati i primi confini tellurici dell’Urbe.
Il lituo a quello serve. Il lituo, non solo quello Etrusco,
giustifica con le sue volute una geometria celeste ben definita, e a questa
funzione può aggiungere quella di emettere un afflato sacro se modellato in
forma di flauto.
Così, probabilmente, era il lituo di Romolo: un flauto dalla
lunga e stretta impugnatura di legno cavo a becco d’anatra o di qualche uccello
sacro avesse il becco confacente, innestato in un breve manico bronzeo che si assottigliava
e si appiattiva in una falce ritorta a chiocciola, cava e bucherellata a sua
volta.
Quel 21 Aprile, mentre l'alba prende a punteggiarsi dei primi fuochi dei falò delle Parilia attraverso i quali i pastori balzeranno fino a sera, le
spirali del lituo di Romolo probabilmente tangevano alcune stelle – un’ultima
Venere, un basso Marte, un tardivo Giove, chissà – mentre il cielo si tingeva
di rosa, e quando i raggi dell’Apollo retrostante lo Zeus Latino sorsero dietro
il Monte Albano a cancellare tutto, Romolo vide chiaramente i punti attorno al
Palatino dove avrebbero dovuto sorgere le porte, ancor prima che le mura.
E allora portò il lituo alle labbra, e sussurrò nel flauto
il Nome Segreto di Roma. Che è, notoriamente, Amor. Ma forse no: Diva Angerona
punisce i profanatori del Nome Segreto, che segreto non è.
È rimasto gentilmente nascosto per generazioni e generazioni
successive, finché Roma è stata la Roma di Romolo, in un gioco per bambini, per
farli star zitti e andare a letto: la Diva Angerona e la Roma-Amor.
E il segreto del Nome Segreto di Roma, che è Roma, ma solo
insufflato nel lituo di Romolo potrà produrre il suono esatto, la esatta
pronuncia del suo essere, Amor.
E il lituo di Romolo, chissà dove è finito…
Salto i convenevoli; ormai si sa cosa penso di questi post.
RispondiEliminaMa in me c'è --come dire-- la necessità di dirlo, davvero non ce la faccio a trattenermi, porta pazienza: "[...] le Parilia dell’anno Zero".
Ecco, devi definire Zero, usato anche oltre. In via del tutto informale come suggerimento (ma il mio eloquio è quello che è) proporrei "della Fondazione", ma forse si può fare di meglio (anzi, quasi sicuramente).
Tutto questo in attesa di vedere il destino di questa start-up; sai ne nascono tante ma quante ce la fanno?
Era superfluo, infatti. Discendeva da qualcos'altro che volevo dire e poi ho omesso, perché al momento superfluo pure quello. Grazie: ho eliminato e fatto qualche altra piccola modifica, di cui mi scuso.
EliminaNiente scuse, anzi! Sono partito da quello per deformazione professionale ma era un modo giocoso (noi diciamo LOLloso).
EliminaAdesso rileggo (con piacere), in attesa della prossima puntata.