giovedì 14 gennaio 2016

PRIMA DI ROMA


Ogni tanto mi rifaccio vivo con le mie complesse farneticazioni sulle origini di Roma. Temo di aggiungere spesso confusione a confusione, perché scrivo sulla spinta di emozioni e suggestioni del momento per particolari argomenti. Stavolta cerco di fare il bravo, e di prendere la faccenda dall'inizio, anzi un po' prima. Qualche millennio prima della fondazione vera e propria, quando in un certo senso Roma esisteva già, ma non aveva un nome.
P.S.
Son poi quattro balle che un tempo insegnavano alle medie, eh...

PRIMA DI ROMA

Tutto comincia più o meno con le ultime glaciazioni. L’uomo in effetti sente veramente l’impressione pulsante dell’ultima, quella detta “Wurmiana” conclusasi in varie fasi circa ottomila anni prima dell’era volgare, e con l’ultimo disgelo la sempre più calda penisola italiana si trova popolata da qualche migliaio di tribù neolitiche, accentrate prima dove il bestiame nativo incrociato con quello transumato si nutrisse meglio, poi man mano dove l’agricoltura prendeva a specializzarsi (perché c’è sempre un campo migliore, o semplicemente un campo in più per i propri figli), le piane e le vallate più fertili, o facili da lavorare. Pian piano i secoli scorrevano, e attraverso le valli alpine continuava lo stillicidio di decine di generazioni di grosse famiglie o piccole tribù attirate dalla fama del clima sempre migliore della penisola, e verso la metà del terzo millennio una migrazione indoeuropea più grossa e organizzata delle altre portò anche i prodromi della tecnologia del rame, e quindi del bronzo.
Nel corso delle settanta e più generazioni successive, sui bordi della boscaglia acquitrinosa contornanti il corso dell’Eridanio si sparsero le comunità delle Terremare, che si espandevano verso il cuore delle valli appenniniche per diventare Liguri o verso le gobbe del Carso per diventare Veneti, o per incunearsi in qualsiasi vallata e seguirla dalla sorgente fino alla foce e diventare Umbri. E poi sempre più avanti, sempre più a sud, generazione dopo generazione di villanoviani soprannumerari per le possibilità di sostentamento dei villaggi d’origine, aggreganti per necessità più che per convinzione. O meglio per convinzione da necessità, e da necessità e convenzione nascevano anche i riti comuni sacrali, attraverso ai quali si cercava di venire a corretto contatto con le divinità dei loci posti a nuova coltura.
Circa un migliaio di anni prima della fondazione di Roma, fra quelle poche centinaia di migliaia di “nativi” discendenti delle prime migrazioni da oltralpe, o Aborigeni come vennero poi chiamati dagli antichi stessi, c’era ormai già un rozzo mercato di bestiame, minuto da carne e lana con l’ammansimento degli ovini o grosso in termini di buoi da lavoro e tori da rimonta: sono quelli gli anni – e i millenni prima – in cui si creano le razze bovine autoctone italiane.
Essendo una penisola lunga e stretta e montagnosa, con lo svilupparsi della navigazione marittima mediterranea nei due millenni precedenti alla Fondazione di Roma, l’Enotria era stata oggetto di frequenti esplorazioni da parte degli orientali minoici, poi invasa dagli esuli Achei (gli Argivi, qualche gruppo di poche centinaia di uomini, guerrieri o marinai, però ben fertilmente organizzati per divenire elites dominanti nei piccoli villaggi che, una volta sottomessi, denominavano “città” e munivano di mura ciclopiche) nei decenni successivi alla Guerra di Troia. Infine, contemporaneamente alla nascita di Roma, iniziata alla colonizzazione ionica ed eolica.
Ma nel frattempo, un altro tipo di ben più massiccia colonizzazione stava creando sulle coste italiche uno dei principali interpreti dei tempi che portarono alla Fondazione di Roma, come uno speculare stava portando su quelle africane alla formazione della sua principale antagonista, quando dopo essersi espansa a tutta la Penisola, Roma dovette occuparsi del mare che la circondava, e quindi di Cartagine.

I Tirreni, intesi come nucleo fecondante tutto ciò che da tre millenni si considera Etrusco, quasi sicuramente erano Lidi o Ioni, rimpallati da una qualche turbolenza fra popolazioni anatoliche in occidente, dove probabilmente avevano già le loro stazioni commerciali per i lingotti di ferro grezzo. Trasbordati dalla Lidia e dalla Ionia attraverso varie tappe, la prima delle quali quasi sicuramente sull’isola di Lemnos, forse punto di raccolta e imbarco per un popolo scacciato in massa dalla sua terra, abbastanza potente però per potersi comunque portare dietro quanto di necessario per ricostruire altrove il Mondo perduto. Via scali d’appoggio forse fortunosi, forse predisposti, forse commerciali, comunque precari per quelle che erano ondate di centinaia di persone con animali appresso, per arrivare ad essere sbarcati in forse dieci forse venti forse trentamila o poco più su quella costa ricca di terre rosse a metà strada fra la foce del Tevere e quella del Rodano.
Generazioni di esploratori minoici, pelasgi, punici, lidi, ioni, l’avevano già praticamente mappata mentre i Dori armati di ferro calavano da sotto il Danubio a sommergere la Grecia nel suo primo medioevo e i Popoli del Mare mettevano a ferro e fuoco l’Egitto e Creta: tutti ormai, a cavallo del tempo della Guerra di Troia, cercavano le piriti per il ferro ancor più che l’oro. Là, su quella costa, di piriti ce n’erano tante, e pure di rocce ben rosse. E quei Lidi o Ioni che fossero, portavano con sé anche una tecnologia già sperimentata per purificare il minerale rosso in ferro battuto, oltre che un chiaro concetto di quel che gli sarebbe servito da tutto il territorio. Energie umane comprese, si capisce.
Attorno all’anno mille prima dell’era volgare, nel tempo di due o tre generazioni, dieci prima di quella che fondò Roma, l’intero territorio compreso fra la foce del Tevere e l’ansa del corso dell’Arno, abitato da millenni da quelle tranquille popolazioni villanoviane in lenta crescita, si spopolò, a favore indotto o coatto di nuove grosse città vicine alla costa come Tarquinia, Cere, Vulci, Veio, anche Luni, dei loro porti e del loro circondario, contadino, manifatturiero, industriale. Poi, circa cinque o sei generazioni dopo l’inizio della colonizzazione Tirrenica, i vecchi siti aborigeni ricominciano ad essere occupati dal nuovo popolo in espansione: i Rasna.
I Rasna non sono però da confondere con i Tirreni o con gli Etruschi, non in toto. Sono i discendenti più diretti dei fondatori ferrieri. Sono la nobiltà più che di sangue, di legittimità, che non disdegna certo il commercio, anzi! Abili agricoltori. Sono quelli che esprimono i Lucumoni e il Lucumone Supremo, quando ci riescono, e spesso non ci riescono, e dopo Porsenna mai più. Pare.
Sono i despoti più o meno controversi di Città-Stato confederate – dodici, ma quando non furono più sufficienti, ce ne vollero altre dodici, per soccombere comunque a Roma – pacifiche fra loro per ovvi motivi di comodità delle competenze territoriali di una economia che ormai si basava su un commercio fine, competitivo con quello greco soprattutto sui prezzi, oltre che sulla qualità dei prodotti: vasi, piatti, coppe, ornamenti in oro finemente lavorato, spade, elmi, picche, placche, lingotti di bronzo della miglior lega e di ferro il meglio forgiato che la tecnologia portata dall’oriente e poi sviluppata fra l’Elba e le città costiere potesse produrre, altro che buoi e vacche, di cui comunque erano validissimi e fieri allevatori.
Sotto di loro – o meglio in una stretta collaborazione di riconosciuta fedeltà di tipo forse feudale, forse con forti legami consanguinei non legalmente riconosciuti ma sottintesi – gli Etruschi come popolo, aborigeni sempre più meticciati con i Rasna, o Tirreni quando forse discendenti di casta dell’unione imposta dai soldati-marinai dell’invasione lidica agli aborigeni costieri.
Sono questi ultimi probabilmente gli organizzatori della lenta presa di controllo e possesso del territorio dell’Etruria propriamente detta, il ritorno sulle terre, sui cocuzzoli, nei valloni e nelle vie cave, nelle boscaglie, su per i torrenti da cui erano discesi gli antenati di, a quel punto, ormai tutti loro. Fino ad incontrare gli Umbri alle prime anse del Tevere, e chiedersi cosa far con loro, ormai lontani parenti, più cugini che fratelli villanoviani.

Ma lasciamo da parte gli Etruschi, già forti e organizzati a Veio ma ostacolati dagli interessi di Cere sulle saline e sul guado, alleata con Chiusi o con Perugia, se non da quelli di Arezzo in combutta con Vulci o con Tarquinia, e guardiamo a est, alle montagne e valli appenniniche dove son rifugiati gli ultimi Aborigeni liberi.
In effetti, anche loro si sono evoluti. Non in maniera così eclatante come quelli che son divenuti Etruschi, ma son diventati popoli da tribù che erano mille anni prima. Stanno evolvendosi rapidamente, in maniera quasi inconcepibile per il loro concetto di “cambiamento”, che in effetti è soprattutto un maggior afflusso di notizie e di persone estranee e "diverse" rispetto a quanto mai successo prima, quando al massimo erano di prigionieri rimasti schiavi da incursioni piratesche intentate per rapir donne e bambini e i loro racconti ricostruiti da vani farfuglii. Ma quelle sorgenti colonie greche che poi condizioneranno la storia del Mediterraneo avevano stazioni commerciali già sparse ovunque da decenni, prima della metà dell’VIII secolo. Gente che s’inerpicava dalla costa e andava a parlare con la gente dell’interno, da gente a gente, imparando quel che c’era da imparare e insegnando quel che aveva da insegnare di utile. In genere cercavano legname, ma erano curiosi un po’ di tutto. Mentre con i Cartaginesi non si parlava, che tanto gorgogliavano in un linguaggio incomprensibile: stavano sulla costa e pretendevano di barattare fermi là, a far cosa non si sapeva dato che non gli andava mai bene niente, qualità e prezzi: fingevano di andarsene all’alba per tornare prima del tramonto, e comprare poi regolarmente tutto, soprattutto il cibo conservato col sale, sale che del resto loro stessi vendevano carissimo.
Osci, Volsci, Equi, Sanniti, Dauni, Messapi, Bruzi e quanti ancora ce n’erano scendendo verso il tallone d’Italia dove stanno per insediarsi le prime colonie greche, tribù di popoli da sempre dediti alla pastorizia e all’agricoltura di sussistenza che improvvisamente si vedevano porgere sotto il naso proposte di ricca opulenza al solo costo di… scambiare. Scambiare cosa, questo era il problema, oltre al legname, alle vivande conciate, al pellame altrettanto conciato e a pochi cocci di uso estemporaneo?
Ma i commerci costieri non potevano influire più di tanto sull’economia delle valli e dei colli in mezzo ai monti appenninici: il flusso vero era quel innervamento di piste, sentieri e tratturi che collegava a spezzoni l’interno.
E lo snodo di tutto quel frazionato sistema linfatico di approvvigionamento di qualsiasi cosa fosse utile a superare la mera sussistenza dei popoli italici, da parecchio tempo era chiaro come fosse quel guado sul Tevere, proprio all’incrocio dei percorsi ovini e bovari con la via che portava i carichi di sale dalle saline vicino al mare agli sparsi mercati per la cacciagione e i suoi insaccati. Chi avesse controllato o le saline, o le vie del sale, o gli snodi delle vie del sale nei meandri dell’Appennino imperniati sul corso del Tevere, avrebbe controllato la produzione e il commercio di una immensa ricchezza, strategica per la sopravvivenza di mezza penisola.
E sulla via Salaria, l’ultima parola la volevano avere i Sabini, mentre sulle piste dei bovini che andavano e venivano fra Latium Vetus e Tuscia la volevano avere i Latini. Osci, Volsci ed Equi consideravano tutto ciò che era ovino come cosa loro, quindi qualsiasi territorio tagliato dai tratturi delle loro transumanze. Gli Etruschi che controllavano le saline a poche miglia dalla foce del Tevere pensavano fosse meglio si mettessero a pecora tutti: loro il sale l’avrebbero comunque venduto ovunque a peso d’oro, ma non gli sfuggiva il fatto che con i Greci che fondavano Cuma, la via Campana che si incrociava con la Salaria su quel guado diventava strategica per i loro interessi, non solo commerciali.
Incombevano molti occhi, insomma, su quel guado, e sui colli circostanti che vi incombevano attorno.

A metà dell’VIII secolo prima dell’era volgare, probabilmente già da qualche generazione sul Septimontium si discuteva attorno al fatto se fosse meglio insediare un presidio comune sul Palatino o sull’Aventino. C’erano pro e contro di tipo logico – l’Aventino si prestava di più ad avere una piccola acropoli e una piccola agorà – e logistico, poiché il Palatino incombeva più sui mercati del Velabro e l’Aventino sugli snodi che intrecciavano le vie salarie con quelle boarie verso la Campania, dove con i Greci che stavano fondando Cuma si prospettavano i migliori commerci.
Posto, con tutto ciò, che il Campidoglio, ossia la rocca più dominante il tutto, era una sorta di “terra di tutti cioè di nessuno” ben occhieggiata da Etruschi, Sabini e Latini, se non pure da tutti gli altri disposti a mandare dai monti truppe a squadre pur di occuparlo avendone la forza, che però non aveva nessuno se tutti gli altri gli si coalizzavano contro. E sicuramente non il luogo giusto per fondarvi una città, con quella gran voragine dell’Asylum fra il cocuzzolo dell’Arx e il pianoro del Capitolium. Presidiata da una quantità di are e piccoli santuari sacri alle divinità di ogni popolo del Septimontium, insomma, e sede dell’Auguratorium etrusco in cima all’Arx.
La scelta dell’aspro e piatto Palatino fu alla fine ovviamente militarmente strategica, quella dell’aggraziato Aventino sarebbe stata strategicamente corretta dal punto di vista commerciale se un accordo concorde di tutti i popoli interessati avesse portato alla contemporanea costruzione di un ponte, ma più a valle di dove poi fu posto il Sublicius, e se si fossero separati e chiaramente affermati e composti civilmente i vari interessi sovrapposti.
Prevalse Romolo su Remo e Roma su Remoria, o come si sarebbe davvero dovuta chiamare, perché prevalse la contrapposizione più che la sovrapposizione degli interessi, di popoli fra l’altro privi di una vera guida unica o assembleare che non fosse o di estemporaneo prestigio o di anziana autorevolezza. Roma nacque sul Palatino, e guerriera, non Remoria sull’Aventino e commerciale, frutto della scelta di sfruttare il commercio degli altri, non di parteciparvi. Con un popolo raccogliticcio, di mercenari senza famiglia per cui senza terra, quella terra che si conquistarono dopo, subito scavato quel solco ed erte le prime mura fra gli speroni di tufo attorno al Palatino, non appena quel Capo chiamato Romolo – forse scelto a sorte più che dalla Sorte – impose l’insedio nella vallecola fra i due corni del Campidoglio, da allora in poi chiamata appunto Asylum, degli esuli e fuggiaschi di tutto il Lazio già attratti da un piccolo mito di Roma. Il luogo dove si poteva trovar da far di tutto e da dove si poteva andar da ogni parte, diventava città. E probabilmente gli anziani del Septimontium fin da subito si resero conto dell’inevitabile errore che avevano fatto, se speravano che quella rocca là piazzata significasse garantire una bucolica tranquillità atavica destinata a non tornar più, nei secoli.

Sarebbe comunque divenuta un meltin’pot, come sia andata si sa, come sarebbe potuta andare chissà, come andò davvero, che da lì diventò La Città… mah!

5 commenti:

  1. IL post più bello di sempre; sono contento di aver dato il via (con tanti aiuti di tanti) al Tamburo ☺

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    1. Grazie. Sono lieto di poter contribuire ogni tanto, per quel che posso...

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  2. Bellissimo post, l'ho segnalato anche su OKNotizie. Grazie, Zeb.

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    1. Induvelèvhelèchelè che l'hai segnalato? Comunque sia, grazie a te, Bruna...

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    2. Qui: http://oknotizie.virgilio.it/categoria/arte_e_cultura/all
      Servirà a poco, ma chissà che qualcuno ti legga, al di là del Tamburo...

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