giovedì 31 ottobre 2013

Connessi ma soli



Ve lo ricordate il post "Meditate gente, meditate"? 
(per chi non ricorda o non ha mai letto, è consigliabile un giro prima di continuare la lettura)

Nei commenti si era prospettato di approfondire l'argomento e io, oggi, questo vorrei provare a fare: approfondire. Ma vista la complessità dell'argomento, preferisco che a farci riflettere sia una persona che lo fa di mestiere.
Allora, seduti che si comincia...

[...] Mentre ci aspettiamo di più dalla tecnologia, ci aspettiamo meno l'uno dall'altro? Sherry Turkle studia come i nostri dispositivi elettronici e i nostri profili online stiano ridefinendo le connessioni umane e la comunicazione, e ci chiede di riflettere approfonditamente sui nuovi tipi di connessione che vorremmo avere.[...]


Segue il testo integrale del video tradotto da Anna Cristiana Minoli e rivisto da Elena Montrasio
(io mi sono limitato ad evidenziare alcuni passaggi; spero di non aver fatto danni)

[...] Un attimo fa, mia figlia Rebecca mi ha mandato un sms di buona fortuna. Il messaggio diceva: "Mamma, andrai alla grande." È meraviglioso. Ricevere quel messaggio è stato come ricevere un abbraccio. Allora, ecco. Io impersono il paradosso di fondo. Sono una donna che adora ricevere messaggi, e che vi dirà che troppi possono essere un problema.

In realtà quel promemoria di mia figlia mi riporta agli inizi della mia storia. Nel 1996, quando ho tenuto il mio primo TEDTalk, Rebecca aveva cinque anni ed era seduta proprio lì in prima fila. Io avevo appena scritto un libro che celebrava la nostra vita su internet e stavo per apparire sulla copertina di Wired. In quei primi anni, stavamo sperimentando le chat room e le comunità virtuali online. Stavamo esplorando diversi aspetti di noi stessi. E poi abbiamo staccato. Ero emozionata. Da psicologa, quello che più mi emozionava era l'idea di usare ciò che avevamo imparato nel mondo virtuale su noi stessi, sulla nostra identità, per vivere una vita migliore nel mondo reale.

Ora andiamo avanti veloce al 2012. Sono di nuovo sul palco di TED. Mia figlia ha 20 anni. È una studentessa universitaria. Dorme con il cellulare, come me. Io ho appena scritto un nuovo libro ma questa volta non è il genere che mi porterà sulla copertina di Wired. Allora cos'è successo? La tecnologia mi emoziona ancora, ma credo, e sono qui per dimostrarvelo, che stiamo lasciando che ci porti dove non vogliamo andare.

Negli ultimi 15 anni ho studiato tecnologie di comunicazione mobile e ho intervistato centinaia e centinaia di persone, giovani e anziane, sulla loro vita in connessione. Quello che ho scoperto è che i nostri piccoli dispositivi, i piccoli apparecchi nelle nostre tasche, psicologicamente sono tanto potenti da cambiare non solo quello che facciamo, ma quello che siamo. Alcune delle cose che sappiamo sui nostri apparecchi sono cose che, solo qualche anno fa, avremmo trovato strane o inquietanti, eppure sono diventate rapidamente familiari, perché ora si fa così.

Per fare solo qualche esempio: la gente manda messaggi o email durante le riunioni dei consigli di amministrazione. Manda messaggi, fa shopping e va su Facebook in classe, durante le presentazioni, durante ogni tipo di riunione. La gente parla di questa nuova importante abilità, ossia mantenere il contatto visivo mentre si inviano messaggi. (Risate) La gente mi spiega che è difficile, ma che si può fare. I genitori mandano messaggi e email a colazione e a cena mentre i figli si lamentano di non avere abbastanza attenzione da parte loro. Ma poi questi stessi figli si negano a vicenda la stessa attenzione. Questo è uno scatto recente di mia figlia e delle sue amiche, insieme, anche se non sono insieme. Mandiamo messaggi persino ai funerali. lo studio tutto ciò. Ci estraniamo dal nostro dolore o dal fantasticare e ci tuffiamo nei nostri telefoni.

Perché questo ha importanza? Per me ha importanza perché credo che ci stiamo mettendo nei guai -- guai, certamente, nei rapporti con gli altri, ma anche guai nel rapporto con noi stessi e la nostra capacità di auto-riflessione. Ci stiamo abituando a un nuovo modo di essere soli, insieme. La gente vuole stare con gli altri, ma vuole anche essere altrove -- connessa con tutti i luoghi in cui vuole essere presente. La gente vuole personalizzare la propria vita. Vuole entrare e uscire da dove si trova perché la cosa che ha più importanza è il controllo su dove concentrare l'attenzione. Quindi volete andare a quella riunione, ma volete ascoltare solo i momenti che vi interessano. E qualcuno pensa che sia una bella cosa. Ma si finisce per nascondersi da l'un l'altro, anche se siamo costantemente connessi.

Un uomo d'affari di 50 anni si è lamentato con me perché sentiva di non avere più colleghi al lavoro. Quando va al lavoro, non si ferma a parlare con nessuno, non chiama. E dice che non vuole interrompere i colleghi perché "sono troppo impegnati con le loro email." Ma poi si ferma e dice: "Sa, non le sto dicendo la verità. Sono io quello che non vuole essere interrotto. Dovrei desiderare un'interazione, ma in realtà preferirei fare un po' di cose sul Blackberrry."

In tutte le generazioni, vedo che la gente non ne ha mai abbastanza degli altri, se, e solo se, può rimanere a distanza, una distanza che può controllare. Io lo chiamo effetto Riccioli d'Oro: non troppo vicino, non troppo lontano, la distanza giusta. Ma la distanza giusta per quei dirigenti di mezza età può essere un problema per gli adolescenti che hanno bisogno di sviluppare relazioni faccia a faccia. Un ragazzo di 18 anni con l'abitudine di messaggiare per qualunque cosa mi dice malinconicamente: "Un giorno, un giorno, ma certamente non ora, vorrei imparare come si fa una conversazione."

Quando chiedo alla gente: "Cos'ha di sbagliato fare una conversazione?" la gente dice: "Ora le dico cosa c'è di sbagliato in una conversazione. È in tempo reale e non puoi controllare quello che verrà detto." Ecco il succo. Messaggiare, mandare email, postare, tutte queste cose ci consentono di presentarci come vogliamo essere. Possiamo modificare, e ciò significa che possiamo cancellare, e significa che possiamo ritoccare, il viso, la voce, la carne, il corpo -- non troppo, non troppo poco, al punto giusto.

Le relazioni umane sono ricche e complesse e sono impegnative. Noi le ripuliamo con la tecnologia. E facendolo, quello che può succedere è che sacrifichiamo la conversazione a favore della pura connessione. Imbrogliamo noi stessi. E con il tempo, sembra che ce lo dimentichiamo o che smettiamo di preoccuparcene.

Sono stata colta di sorpresa quando Stephen Colbert mi ha fatto una domanda profonda, una domanda profonda. Mi ha detto: "Tutti questi tweet, tutti questi sorsi di comunicazione online, non formano una grande sorsata di conversazione reale?" La mia risposta è stata: no, non si sommano. Connettersi a piccoli sorsi può funzionare per raccogliere pezzetti di informazioni, può funzionare per dire: "Ti sto pensando," o anche per dire "Ti amo,". Guardate come mi sono sentita quando ho ricevuto il messaggio di mia figlia; ma non funzionano veramente per conoscerci tra di noi, per arrivare a conoscerci e capirci l'un l'altro. Noi utilizziamo le conversazioni con gli altri per imparare a conversare con noi stessi. Quindi, trascurare la conversazione può essere pericoloso perché può compromettere la nostra capacità di auto-riflessione. Nei ragazzi che crescono, quella capacità è fondamentale per lo sviluppo.

Sempre più spesso sento: "Preferisco messaggiare che parlare." E quello che vedo è che la gente si abitua a brevi scambi rispetto alla vera conversazione, si abitua ad accontentarsi di meno, ed è sempre più intenzionata a fare a meno degli altri. Quindi per esempio, molti condividono con me questo desiderio, che un giorno una versione più avanzata di Siri, l'assistente digitale dell'iPhone di Apple, possa somigliare più a un migliore amico, a qualcuno che ascolta quando gli altri non lo fanno. Credo che quel desiderio rifletta una dolorosa verità che ho imparato negli ultimi 15 anni. La sensazione che nessuno mi sta ascoltando è cruciale nelle nostre relazioni con la tecnologia. Ecco perché è così invitante avere una pagina su Facebook o un feed di Twitter -- così tante persone ad ascoltare in automatico. E la sensazione che nessuno ci stia ascoltando ci porta a voler trascorrere il tempo con macchine che sembrano interessarsi a noi.

Stiamo sviluppando dei robot, che chiamano robot socievoli, progettati specificamente per essere dei compagni -- per i più anziani, per i nostri figli, per noi. Abbiamo perso a tal punto la fiducia nella possibilità di esserci l'uno per l'altro? Durante la mia ricerca ho lavorato nelle case di riposo, e ho utilizzato questi robot socievoli progettati per dare agli anziani la sensazione di essere compresi. Un giorno sono entrata e una donna che aveva perso un figlio stava parlando con un robot sotto forma di cucciolo di foca. Sembrava che la stesse guardando negli occhi. Sembrava che stesse seguendo la conversazione. La confortava. Molti lo trovano fantastico.

Ma quella donna stava cercando di dare un senso alla propria vita con una macchina che non aveva alcuna esperienza di vita umana. Quel robot ha dato uno spettacolo fantastico. E noi siamo vulnerabili. La gente percepisce questa falsa empatia come se fosse una cosa reale. In quel momento, mentre quella donna stava sperimentando quella finta empatia, ho pensato: "Quel robot non prova empatia. Non sperimenta la morte. Non sa cosa sia la vita."

E mentre quella donna traeva conforto da suo compagno robot, io non l'ho trovato fantastico; l'ho trovato uno dei momenti più complicati e lancinanti dei miei 15 anni di lavoro. Ma facendo un passo indietro, mi sono sentita nel cuore di una tempesta perfetta. Ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meno da l'uno dall'altro. Allora io mi chiedo: "Come siamo arrivati a questo punto?"

E credo sia perché la tecnologia ci attrae di più quando siamo più vulnerabili. E siamo vulnerabili. Siamo soli, ma abbiamo paura dell'intimità. E quindi dai social network ai robot socievoli, progettiamo tecnologie che ci daranno l'illusione di una compagnia senza bisogno di amicizia. Ci rivolgiamo alla tecnologia perché ci aiuti a sentirci connessi in modi che possiamo agevolmente controllare. Ma non ci sentiamo a nostro agio. Non abbiamo il controllo assoluto.

Di questi tempi, quei telefoni nelle nostre tasche stanno cambiando le nostre menti e i nostri cuori perché ci offrono queste fantasie gratificanti. Uno, che possiamo rivolgere l'attenzione dovunque vogliamo; due, che saremo sempre ascoltati; e tre, che non dovremo più essere soli. E questa terza idea, che non dovremo mai essere soli, è cruciale nel cambiamento della nostra mentalità. Perché nel momento in cui le persone sono sole, anche solo per qualche secondo, diventano ansiose, irrequiete, si fanno prendere dal panico, vanno in cerca di un dispositivo. Pensate alla persone in fila alla cassa o a un semaforo rosso. Essere soli è percepito come un problema che va risolto. E così si cerca di risolverlo con la connessione. Ma qui, la connessione è più un sintomo che una cura. Esprime, ma non risolve, un problema di fondo. E ancora più che un sintomo, la connessione costante sta cambiando il modo in cui la gente pensa a se stessa. Sta dando forma a un nuovo modo di essere.

Il miglior modo di descriverlo è: condivido quindi sono. Usiamo la tecnologia per definire noi stessi condividendo i nostri pensieri e le nostre sensazioni persino quando le stiamo provando. Quindi, se prima era: ho una sensazione, voglio fare una chiamata. Ora è: voglio avere questa sensazione, devo mandare un messaggio. Il problema di questo nuovo regime di "Condivido quindi sono" è che, se non abbiamo una connessione, non ci sentiamo noi stessi. Quasi non sentiamo più noi stessi. E allora cosa facciamo? Ci connettiamo sempre di più. Ma nel farlo costruiamo il nostro isolamento.

Come passiamo dalla connessione all'isolamento? Si finisce isolati se non si coltiva la capacità di essere soli, la capacità di essere separati, di raccogliersi. E' nella solitudine che troviamo noi stessi, così da poter arrivare agli altri e creare un reale attaccamento. Quando non siamo capaci di restare soli, ci rivolgiamo agli altri per sentirci meno ansiosi o per sentirci vivi. Ma quando questo succede, noi non siamo in grado di apprezzarli. È come se li usassimo come parti di ricambio per sostenere il fragile senso del nostro sé. Ci culliamo nel pensiero che essere sempre connessi ci farà sentire meno soli. Ma siamo a rischio, perché la realtà è l'esatto opposto. Se non siamo in grado di stare soli, saremo ancora più soli. Se non insegniamo ai nostri figli a essere soli, non conosceranno altro che la solitudine.

Quando parlai a TED nel 1996, esponendo i miei studi sulle prime comunità virtuali, dissi: "Coloro che trascorrono la maggior parte della propria vita sullo schermo ci arrivano con uno spirito di auto-riflessione." Ed è quello che sto chiedendo ora: riflessione e, qualcosa di più, una conversazione su dove l'uso attuale della tecnologia, ci potrebbe portare, quello che ci potrebbe costare. La tecnologia ci divora. Abbiamo paura, come i giovani amanti, che parlare troppo possa rovinare l'atmosfera. Ma è il momento di parlare. Siamo cresciuti con la tecnologia digitale e quindi la vediamo matura. Ma non lo è. È agli albori. Abbiamo ancora tempo per riconsiderare il modo in cui la usiamo, come la costruiamo. Non sto suggerendo di abbandonare i nostri apparecchi, ma di sviluppare una relazione più consapevole con loro, con gli altri e con noi stessi.

Vedo i primi passi. Cominciate a pensare alla solitudine in modo positivo. Fatele spazio. Trovate modi per dimostrare ai vostri figli che è un valore. Create uno spazio dedicato in casa, la cucina, la sala da pranzo, e riservatelo alla conversazione. Fate lo stesso al lavoro. Al lavoro siamo talmente impegnati a comunicare che spesso non abbiamo tempo di pensare, non abbiamo tempo di parlare delle cose veramente importanti. Cambiate le cose. Ancora più importante, abbiamo tutti bisogno di ascoltarci l'un l'altro, comprese le parti noiose. Perché è quando inciampiamo o esitiamo o ci mancano le parole che riveliamo noi stessi agli altri.

La tecnologia sta tentando di ridefinire la connessione umana -- quanto ci interessiamo l'uno dell'altro, quanto ci interessiamo di noi stessi -- ma ci dà anche la possibilità di affermare i nostri valori e la nostra direzione. Sono ottimista. Abbiamo tutto ciò che ci serve per cominciare Abbiamo l'un l'altro. E abbiamo grandi possibilità di successo se riconosciamo la nostra vulnerabilità. Ascoltiamo quando la tecnologia dice che ci vorrà qualcosa di complicato e promette qualcosa di più semplice.

Nel mio lavoro, sento che la vita è dura, le relazioni sono piene di rischi. E poi c'è la tecnologia -- più semplice, promettente, ottimista, sempre giovane. È come chiamare i rinforzi. Una campagna pubblicitaria promette che online e con gli avatar, potrete "Finalmente, amare i vostri amici amare il vostro corpo, amare la vostra vita, online e con gli avatar." Siamo attratti da un'atmosfera virtuale, dai videogiochi che sembrano mondi, dall'idea che i robot, i robot, saranno un giorno i nostri veri compagni. Trascorriamo la serata sui social network invece di andare al bar con gli amici.

Ma le nostre fantasie di sostituzione ci costano. Ora dobbiamo tutti concentrarci sui molti modi in cui la tecnologia può riportarci alle nostre vere vite, ai nostri corpi, alle nostre comunità, alla nostra politica, al nostro pianeta. Hanno bisogno di noi. Parliamo di come possiamo usare la tecnologia digitale, la tecnologia dei nostri sogni, per fare di questa vita la vita che amiamo.

Grazie.
(Applausi) [...]





Di Sherry Turkle e del suo libro "Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri" ne ha scritto (un po' più di un annetto fa) un ottimo post @Matteo Bittanti (aka Mister Bit) su Wired: "Sherry Turkle e i paradossi della tecnologia".
[...] Ogni anno, migliaia di libri invadono le librerie. Almeno un centinaio sono importanti. Solo una manciata - meno di una decina - riescono a cogliere perfettamente la zeitgeist, ad illuminare il presente e offrire nuove modalità di comprensione del contemporaneo. Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri di Sherry Turkle appartiene a questa elitaria categoria. Finalmente disponibile in lingua italiana a due anni di distanza dalla pubblicazione negli Stati Uniti grazie ai tipi di Codice, Insieme ma soli completa una fondamentale trilogia che esplora l’impatto sociale e psicologico delle nuove tecnologie - computer, videogiochi, robot - nei paesi tecnologicamente avanzati - Stati Uniti e Giappone in primis, ma le sue osservazioni riguardano anche l’Inghilterra e l’Europa di Serie A. [...]


A questo punto vorrei provare a sdrammatizzare e lo faccio proponendovi questo video:




E perché volevo sdrammatizzare...
Meditiamo gente, meditiamo!


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